Che siano graziati dalle onorificenze civiche, dai ricordi pubblici, dalle fanfare di Stato. Morto il 16 dicembre di trent’anni fa, Pier Vittorio Tondelli, per sempre giovane, della giovinezza ha raffigurato l’eversione narrativa, l’irriverenza linguistica – in forme diseguali e non eguagliabili –, la gioia, spavalda, smaliziata. Il destino ne ha fatto un idolo: buono per una nuova narrativa – ‘sociale’, ‘di costume’, ultra pop; ma i ‘tondelliani’ stanno nel ring degli epigoni, si leggono a fatica –, per la gioventù inespressa, per quelli di sinistra, per gli omosessuali, per i cattolici (tra i più colti fan di Tondelli c’è Antonio Spadaro, gesuita, direttore de “La Civiltà Cattolica”). In ogni forma, più o meno profilattica, Tondelli è l’eremo di una sovversione. Quarant’anni fa, trigonometria del caso, nel 1981, a Mondovì, si tiene il processo contro Altri libertini. Il libro d’esordio di Tondelli, pubblicato nel 1980 da Feltrinelli, romanzo in sei racconti di catartica violenza, fu accusato di oscenità: l’allora Procuratore generale de L’Aquila ordinò il sequestro di un’edizione del libro, la terza. Il processo sfiorì in un nulla di fatto. Quattro anni dopo, nell’estate del 1985, Tondelli e i suoi misero a soqquadro il mitico Grand Hotel di Rimini. Si presentava un suo romanzo (non bello), Rimini, appunto; Roberto ‘Dago’ D’Agostino, conduttore della festa, ricorda quel giorno in questo modo: “Tondelli aveva magnetizzato i gay d’Italia… A un certo punto, tutto pronto per la presentazione, invitati già accalcati, fui incaricato di andare a chiamare Tondelli in camera. La porta era semi aperta e quello che vidi – gang-bang di corpi maschili rovesciati sul letto – ha sempre rappresentato per me un quadro-vivente di quegli anni, terribili e bellissimi. Un ‘sogno bagnato’ che Tondelli aveva svelato con i suoi libri”. Oggi il Comune di Rimini dedica “una giornata speciale… allo scrittore e intellettuale”, la Regione Emilia-Romagna lo “ricorda”, la cultura, per così dire, è sanificata da ogni inquieta intemperanza; la vitalità, dunque, diventa materia di studio, gergo convegnistico, documento, documentario. Amen.
Tra i ricordi di amici, non tutti di prim’ordine, comunque arsi da una sorta di sudditanza della nostalgia, preferisco, per diversità, quello di Gian Ruggero Manzoni, che conobbe Tondelli ventenne, nel ’75, nella Bologna furente d’armi. Ricorda – in un articolo uscito sulla rivista “Graphie”, n. 92, 2020 – ciò che poteva essere e non fu. “Nei giorni in cui la ragione maggiormente dominava, lo vedevi arrivare; in quelli in cui Dioniso si agitava in Via Indipendenza, Strada Maggiore, in Piazza Verdi o in Via Zamboni restava esiliato tra le mura di casa. Non lo faceva perché pavido, ma perché sempre ha teorizzato la necessità di parametrarsi nella comprensione, nel mutuo soccorso, nella mano tesa, nella parola sussurrata. La sua lotta la portò avanti scrivendo, e Altri libertini ne è la prova più che evidente. Quando fu sequestrato firmammo in favore del Pier in oltre 500. Anche alcuni tromboni accademici lo fecero, forse comprendendo che il mondo stava cambiando e, in effetti, pareva che nel vero stesse mutando, ma poi vennero gli anni ’80, quelli del più becero edonismo, dell’effimero, della TV spazzatura, del crollo delle ideologie, della sconfitta, della disfatta, del craxismo, quindi del berlusconismo, della P2 in ascesa e, l’oggi, che è sotto agli occhi di tutti”.
Va detto che dell’effimero, di un colto edonismo, degli idoli muti, Tondelli fu anche raffinato cantore. Non si sa perché, piuttosto, alle medaglie postume non facciano seguito fatti concreti. Nel 1990, per la mostra “Ricordando Fascinosa Riccione”, lo scriviamo di continuo, Tondelli costruì una specie di ‘canone’ della riviera adriatica, che aveva narrato, che amava, per “immagini letterarie”. Alcuni testi da lui scovati sono meravigliosi. Ecco, si potrebbe immaginare una collana editoriale, “Il canone Tondelli”, con gli autori che PVT ha suggerito: le lettere riccionesi di Pier Paolo Pasolini e le agnizioni di Filippo De Pisis, i diari di Sibilla Aleramo e La quinta generazione di Dante Arfelli, Antonio Beltramelli e Roberto Duiz, le gite in bicicletta di Giovannino Guareschi, le poesie di Raffaello Baldini e Tolmino Baldassari e Nino Pedretti, Francesco Leonetti e i testi inediti di Flavio Nicolini, Alfredo Oriani, gli scritti di Marino Moretti e i gialli di Giorgio Scerbanenco (“le spiagge di Rimini, di Riccione e di Cervia devono essergli parse il contraltare estivo della Milano in cui si muovono i suoi ruffiani”), Cesare Zavattini e i soggetti di Valerio Zurlini (per chi vuole approfondire, la lista è in: Pier Vittorio Tondelli, Riccione e la Riviera vent’anni dopo, Guaraldi 2005). Vien fuori una letteratura ruspante – e non frustrante –, indifesa, ingenua, piena di materiali contraddittori e anticonformisti, affascinante per il viavai nell’inconsueto. Vabbè, troppo lavoro. Passeggiamo sulla spiaggia, travolti dal mare d’inverno, con Tondelli, allora.
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Il mare d’inverno
Camminando solitario sulla spiaggia di Riccione in queste luminose, rigide giornate invernali – il freddo è veramente pungente, ventoso e secco, fra le cabine e il mare c’è la vasta e struggente spiaggia beige senza nessuna impronta, modellata anzi dal vento come quella del deserto nordafricano e si ha quasi pudore nel camminarvi per non intaccarla, troppo profondamente, di orme e di tracce – camminando a mezzogiorno in questo “fuori stagione” silenzioso e nitido mi viene da pensare alle migliaia di persone che la passata stagione erano qui, davanti a queste stesse cabine color pastello e chiacchieravano, giocavano, prendevano il sole, nuotavano, flirtavano…
Dove sono ora? Nelle città, perdute nella provincia del Nord, affaticate dalle occupazioni, dal lavoro e dallo studio. Ma il paesaggio così artificiale, poiché l’impressione è che qui non solo abbiano portato la sabbia, ma addirittura ingabbiato il mare e il cielo in certe prospettive pop da cartolina illustrata, resiste nella sua bellezza, proprio nei suoi aspetti scenografici e da set di Cinecittà. Senza i colori accesi delle cabine e degli stabilimenti balneari, senza quelle staccionate nere che proteggono la sabbia dal disperdersi – belle come quegli steccati in riva all’oceano, nel Maryland o nel Delaware, ma qui a Riccione, assolutamente non casuali, non rovinate dall’usura, anzi, disposte con quella ordinatissima furia iperrealista – forse vedremmo solamente il mare, il cielo e la sabbia. L’intervento dell’uomo rende invece mitico, come un paesaggio dell’immaginario, un contenitore per desideri, azioni, comportamenti umani…
Per questo, qui sulla spiaggia, le cabine azzurre, verdi, rosa pallido, arancioni, lilla, non sono più soltanto cabine, ma sono simboli dell’estate e del divertimento balneare. E ciò nonostante, ora che sono immerse in un paesaggio deserto, mantengono il loro potere di suggestione. Bloccano in un certo senso il tempo come se lì, anche fuori stagione, ci fossero sempre e soltanto bagnanti seminudi: basterebbe chiudere appena gli occhi e sentiresti il rumore della folla, le grida dei bagnanti, la musica delle radioline, il rombo pulsante di un elicottero.
Non capisco gli snob che dicono: “La riviera adriatica è atroce!”. Io continuo a trovarla bellissima, fortemente evocativa, suggestiva: un film anni Sessanta, un quadro pop, una scultura iperrealista, una musica ambientale.
Sto ascoltando, nel walkman, Enya e, sull’altra parte, Sandie Shaw: please help the cause against loneliness… Sono la mia compagnia preferita per combattere la noia di questi mesi invernali. Ma un flash potentissimo è stato invece provocato da una vecchia cassetta dei Deacon Blue arrivando alla stazione di Bologna, al tramonto. Tutto sembrò veramente un film, inquadrato dal grande schermo della finestra dello scompartimento. Ero al buio e sul vetro si proiettava l’immagine arancione del deposito ferroviario e il cielo era fra il turchino, il cremisi e il blu notte… Chi stava viaggiando in questo momento? Forse io? No, erano le centinaia di volte in cui una persona con il mio stesso nome era arrivata, attraverso quindici anni, in quell’esatto punto: un accumulo di esperienze che diventavano nulle e trascurabili e lasciavano soltanto una persona sola, lì, davanti al finestrino, con gli occhi gonfi di pianto e di pietà.
Pier Vittorio Tondelli
*Il testo è pubblicato in origine sulla rivista “Rockstar” (n. 101), nel febbraio del 1989, nell’ambito della rubrica tenuta da Tondelli “Culture Club”