12 Maggio 2023

“L’arte insegna una libertà pericolosa, antisociale”. Per Philippe Sollers

Esattamente un anno fa, Philippe Sollers parlava del suo ultimo libro, Graal.

“Tutto è ormai immediato, il tempo non scorre più ma nessuno sembra accorgersene, è sorprendente. Più di sette miliardi di esseri umani che perpetuano la loro esistenza da sonnambuli. Niente a che vedere con il giudizio finale, visto che la nozione di giudizio, nel frattempo, è stata cancellata. Tutto è distrutto, nulla lo è”.

Non è male morire dopo aver scritto un libro che s’intitola Graal. Philippe Sollers è stato tra i grandi scrittori francesi degli ultimi decenni. Era francese in tutto: geniale, complesso, complessato, impenitente polemista, funambolico, fanfarone, contraddittorio. Di Philippe Sollers era geniale proprio questo. La capacità di contraddirsi, il genio di non fare contrabbando di moralità estinte – spesso partitiche, eufemistiche, opportunistiche. Non era – vivaddio – coerente. Era il contrario di ciò che andava dicendo, imperava sull’incoerenza. Non poteva essere fedele alla linea perché allineato al proprio capriccio, alienato dal sistema del successo per eccesso di egotismo.

Nato nel 1936, morto il 5 maggio scorso, Philippe Sollers ha segnato la cultura francese degli ultimi sessant’anni fa: ha fondato riviste – “Tel Quel”, nel 1960, con collaboratori come Roland Barthes, Georges Bataille, Michel Foucault, Pierre Guyotat; “L’Infini” dal 1983 – è stato marxista, maoista, ideologo dell’individuo assoluto, ateo, illuminato, intenebrato, temerario. Ha tradito per narrare il tradimento. Amico di Godard e di Matzneff, amava Ezra Pound e Céline; il suo primo romanzo, Une curieuse solitude (1958) fu censito con plausi da Louis Aragon e da François Mauriac, “il Cremlino e il Vaticano”, come li sfotteva. Nel 1967 aveva sposato Julia Kristeva; ha sempre avuto una relazione con la scrittrice belga Dominique Rolin: la cosa soddisfaceva entrambe.

Il mese prossimo Gallimard, il suo editore, pubblicherà la sua Correspondance con Francis Ponge, il poeta, amico di una vita. È stato autore di romanzi difformi e difficili, Sollers, che convalidavano il gusto dell’autore: stupire, sconcertare, provocare. Un figlio del proprio tempo per caduta, cadetto dei secoli presunti. Nombres (1966), H (1973), Femmes (1983), Le Cœur absolu (1987) hanno avuto ottime traduzioni in Italia – per Bompiani, Einaudi, Feltrinelli – in un’epoca in cui Sollers era parcheggiato dalla parte giusta dell’emisfero politico, e soprattutto si poteva, letteralmente, osare.

Da tempo, Sollers – la cui poetica, per istinto, passa per il Divin Marchese, Lautréamont, Arthur Rimbaud, Francis Bacon e Antonin Artaud – veniva trattato, nel letamaio italico, con l’intimorito riserbo in cui si relegano i cari estinti. Ha continuato, con un’assiduità che ha dell’eroico – ergo: un libro all’anno – a segnare (anzi, a ferire) la cultura francese; in Italia, paese, culturalmente, di piacioni assisi sul divano o di brigatisti in pectore, di urlatori da talk, abbiamo preferito ignorarlo, limitandoci a ripubblicare i saggi su Cézanne e Francis Bacon. Mi pare logico. Ignifugo a ogni coerenza e ‘facilità’, poco adatto a educare e a fare della letteratura una prassi didattica, socialmente utile, una morfina o una smorfia, insomma, impietoso, spazientito Lord Jim sui marosi del caos, Sollers ci pone nel rischio, ci obbliga a stare scomodi, fachiri sulle spinose domande che preferiamo non porci. Pazienza. In un libro di qualche anno fa, Illuminations. À travers les textes sacrés, Sollers, convocando Meister Eckhart e Angelo Silesio, Lautréamont e Lao Tse, Parmenide, Rumi e Shakespeare, si domandava “Dio è morto? È ancora vivo? Deve ancora nascere?”; a volte diceva che Le bonheur est possible. La felicità è possibile. La gioia è possibile. Bonheur. La buona ora. Averla. Vederla. Come uno zenit in faccia, un acquazzone di spine.

In memoria di Sollers traduciamo un suo intervento, finora inedito in Italia.

***

L’arte è refrattaria al “sociale”

Siamo entrati in un’epoca in cui la società occupa tutte le procedure dell’esistenza e della creazione, segno che il meccanismo di una “sociologia permanente” è ormai in atto.

Nel dominio dell’arte, la “sociomania” ha un effetto perverso: ha ridotto la ricerca artistica a pura frenesia culturale, alla chiacchiera più che alla valorizzazione dei contenuti. Gli artisti, spesso, sono ridotti ad allestitori di eventi temporanei, per lo più sovvenzionati. Mi chiedo se non si tratti di un passaggio dal realismo socialista a un realismo socio-maniacale galvanizzato dalle leggi di mercato. Affermare che gli artisti esprimono necessariamente il collettivo, esprimono le necessità della società, è un modo per sottometterli a tale teoria.

Refrattario a ogni chiamata collettiva, la personalità dell’artista afferma il suo desiderio e la sua personale visione del mondo. Questa visione, se si legge la storia dell’arte, è sempre imprevista, inattesa.

Purtroppo, la “sociomania” ha causato una violenta espulsione dalla Storia della Cultura. Questa espulsione ha posto d’improvviso il passato in una disponibilità asettica, acritica, generando, in riferimento ai processi della creazione, pittori incapaci di disegnare e scrittori che non hanno mai letto… Questo fenomeno ha conseguenze anche sulla percezione dell’arte: che viene vista senza essere guardata, intesa senza essere ascoltata, sfiorata senza essere toccata. Il sospetto è che la lettura acritica del passato abbia permesso di eliminare ogni criterio di giudizio tranne uno, l’unico: il mercato. Creatore e spettatore, così, si domandano: Cosa prevede il mercato? Cosa impone il mercato? Cosa bisogna produrre per il mercato?

*

Il sistema ha bisogno dei contestatori: li sfrutta

Il principio stesso della lotta è ormai soggetto a un numero di azioni prestabilite, di funzioni e strategie prevedibili, che procedono dal medesimo approccio: socializzare tutto, assolutamente. Si pianificano dispute, si prevedono lotte, si incoraggiano azioni collettive che sono, credendosi liberi, tutte sorvegliate. In ogni collettivo c’è infatti qualcuno incaricato di stabilire una forma di sorveglianza, di determinare fino a che punto possiamo spingerci, quali siano i limiti da non oltrepassare.

Quindi, chi è in questo contesto l’artista? Soltanto chi, oggi, non appartiene all’istituzione e neppure al dogma della “lotta contro qualcuno”. L’artista combatte su due fronti, propri: osteggia la marginalità, non accetta l’istituzionalizzazione. Deve sforzarsi di deviare l’ordine sociale, rivoltandolo contro se stesso, come avveniva in passato con la chiesa o con la borghesia del XIX secolo. Così deve accadere oggi nei confronti della società dello spettacolo mondiale. All’artista spetta il delicato compito di non rispondere ad alcuna richiesta e di non fuggire da alcuna domanda. L’artista non deve accettare e non deve rifiutare. Non deve assolversi né farsi assumere. L’artista deve imporsi.

Questo è ciò a cui si oppone la sociomania contemporanea, che spera di conciliare l’artista con la società. Una stupidaggine.

*

L’arte è un processo individuale

Le opere d’arte sono il risultato di avventure individuali estremamente impressionanti, estremamente concentrate. Queste avventure possono essere difficili, molto difficili o sfacciatamente semplici. Indipendentemente da questo, ciascun artista deve aggirarsi nella propria pratica con notevole ambizione e profondità. Nel caso contrario – le pratiche interdisciplinari, ad esempio – non è possibile essere singolari, unici. Questo vale per chi crea come per chi guarda, legge, ascolta. L’arte accade uno-per-uno. L’arte tocca nel profondo e insegna una forma di libertà per sua natura antisociale.

Questo è proprio ciò che la società non può comprendere perché, per lo più, si occupa di organizzare masse, popoli.

*

La democratizzazione dell’arte

Naturalmente, sono per la democrazia come forma di organizzazione sociale. Ma non aderisco alla democratizzazione dell’arte perché questo è un gesto di rassegnazione, di assegnazione ai collettivi, che non fa appello alla sensibilità privata. L’unica valida democratizzazione sarebbe quella di consentire a ogni cittadino, a ogni individuo, di essere allertato nella sua singolare sensibilità da una sola opera, che gli permetterà l’accesso a tutte le altre, eventualmente, in ogni momento. Quello che chiedo a chi mi parla di continuo di “arte” è di parlarmi di una singola opera d’arte, quella, l’unica… una poesia, una sola poesia, di Baudelaire, per dire, una piccola illuminazione di Rimbaud, un verso qualsiasi… perfino un paragrafo, una parola soltanto, così piccola, il quasi niente. Voglio dire: “No, non parlarmi d’arte, di questo o quell’evento nella storia della pittura o dell’architettura. Parlami di una cosa”.

Il desiderio dell’arte è desiderio di gioire, e questo desiderio è voluttà. È un desiderio costante, che è sempre, ovunque. E che non ha niente a che fare con un discorso sull’arte. È qualcosa – forse la sola cosa – in cui i cinque sensi sono richiesti, tutti insieme, finalmente. Come nell’amore, come nell’erotismo. Il desiderio dell’arte è sempre un desiderio erotico. Non è un desiderio sociale. Non è possibile democratizzare l’erotismo.

Philippe Sollers

Gruppo MAGOG