
Se ti metti a strizzare questo libro, vedi il sangue gocciolare giù sul pavimento…
Libri
Linda Terziroli
Tessiture di sogno, la raccolta di prose e brevi saggi di W.G. Sebald appena edita da Adelphi, in verità, in origine, s’intitola Campo Santo. Il testo omonimo è un reportage flessuoso e riflessivo su una gita in Corsica. Forse l’editore avrà ritenuto il titolo originale un poco lugubre – ma c’è parola più aurea e ricca di sfrangiata speranza di campo santo? –; più banalmente si sarà barcamenato in una sottile operazione ‘promozionale’, subliminale, sublime: Tessiture di sogno è la “nota” che Sebald dedica a Vladimir Nabokov, autore in catalogo Adelphi. Così, in effetti, si fa ‘giocare’ il proprio catalogo: un libro rimanda all’altro, in un gorgo di specchi, di allusioni, di legami. La casa editrice come arazzo, un unico filo che tiene insieme il liocorno e la nuvola, l’uomo in armi e il mistico evanescente.
Non amo la scrittura saggistica di Sebald: spesso mi sembra che dica in modo forbito – e a tratti affascinante – concetti non proprio abissali. Amen. La cosa curiosa – diciamo, irritante, per il lettore incuriosito – è che alcuni saggi si riferiscono a testi e ad autori assenti in Italia. Prima di leggere un saggio di Sebald su Ernst Herbeck – Il cucciolo del coniglio, il coniglietto; per altro, piuttosto specifico – vorrei leggere qualcosa di questo poeta austriaco, affetto da schizofrenia, che ha passato parte della sua esistenza – è morto nel 1991 – in un ospedale psichiatrico. Le sue poesie sembrano belle: qui ne traduco una dalla traduzione inglese di Gary Sullivan, s’intitola Il mio cuore:
“Oggi il mio cuore batteva a un ritmo
davvero normale. La scrittura era
gotica. La recinzione assai alta, la tigre rossa
sul ciglio della rabbia. La caserma mi era accanto.
Il cuore batteva, caldo. Il sangue ha giacimenti nelle vene”.
Ad ogni modo, il saggio più bello Sebald lo dedica a Peter Weiss, s’intitola La mortificazione del cuore, è uscito in origine nel 1986. Anche in questo caso, il lettore comune, quello che non fa sfoggio dell’intelligenza che non ha, s’incazza. Il testo di Sebald ruota intorno al capolavoro di Peter Weiss, Estetica della resistenza: tradotto in inglese, in spagnolo, in francese, in Italia è assente. Ne ho scritto più volte – il libro mi è stato segnalato, tempo fa, da Giovanni Pacchiano, critico autentico –; questa volta, spigolando tra le diverse traduzioni, ne pubblico alcuni passi. Si avverte, nel tono, nel ritmo, la furia agonistica dello scrittore contro l’arte, il desiderio di penetrare nell’agonia della Storia, di setacciare il fallimento del secolo. Si tratta di un’opera abissale, infinita, ‘europea’.
Il romanzo, pubblicato in tre volumi editi tra il 1975 e il 1981, si sviluppa tra la fine degli anni Trenta e la Seconda guerra mondiale, dice della resistenza di alcuni ragazzi al regime nazista, dell’ascesa e della crisi dei partiti proletari; soprattutto, analizza, attraverso micidiali concrezioni narrative, il rapporto tra arte e politica, tra artista e “impegno”, prendendo a modello la Divina Commedia. La Duke University Press ha tradotto il primo volume nel 2005, il secondo nel 2020: ne parlano come di “una delle opere decisive della letteratura tedesca del dopoguerra, un testo fondamentale per capire la storia della Germania del XX secolo” (sulla “The New York Review”, ne ha scritto Adam Kirsch; su questo “romanzo dei vinti” ha scritto un lungo articolo Mathieu Lindon, su “Liberation”). In questo modo ne scrive Sebald:
“Il caso di Peter Weiss è la miglior testimonianza del caparbio tentativo di essere assolti mediante un eroico lavoro di autodistruzione. L’Estetica della resistenza, questo romanzo di mille pagine, al quale un uomo che ha passato da un pezzo la cinquantina, afflitto da pavor nocturnus e gravato da un’immensa zavorra ideologica, si dedica per intraprendere un pellegrinaggio attraverso le fasce detritiche della nostra storia temporale e culturale, è un opus magnum che va inteso – quasi programmaticamente – come espressione non solo di un effimero desiderio di redenzione, ma anche della volontà di ritrovarsi, alla fine dei tempi, dalla parte delle vittime”.
Pare essere romanzo di una urgenza lancinante, questo, proprio oggi, che il molosso della Storia è carcassa, ma ansima ancora, torturato dagli avvoltoi, e guerre clamorosamente novecentesche ci riguardano. Probabilmente, il saggio di Sebald – di cui altrimenti, in assenza di contesto, non sapremmo cosa fare – è una promessa, una profezia: sarà Adelphi a pubblicare Estetica della resistenza. Speriamo. Peter Weiss è morto nel maggio del 1982, pochi mesi dopo l’uscita dell’ultimo volume del lavoro a cui, letteralmente, ha dato la vita.
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Peter Weiss: frammenti da “Estetica della resistenza”
“L’anestesia, una sorta di candida indifferenza, è condizione consueta dell’arte pienamente impegnata, che prende posizione: senza di essa saremmo sopraffatti dalla compassione che ci ispirano i tormenti altrui o dai tormenti di cui noi soffriamo, incapaci di trasformare il nostro stupore, la paura che ci paralizza, nell’aggressività necessaria a far svanire le cause dell’incubo”.
“Siamo stati prigionieri del desiderio di essere un esempio per gli altri – abbiamo dovuto ammettere il nostro fallimento. Non abbiamo errato in merito alla causa, errato era il tempismo”.
“Contrapporre all’apparato politico la nostra insignificanza non è la sola cosa che siamo in grado di fare, è ciò che dobbiamo fare”.
“Creature limitrofe, giunte dai distretti proletari, eravamo destinati a essere niente, e ogni nostra parola che si ergeva a testimonianza era a quel niente rimandata, a pugni, a bastonate”.
“Ero totalmente consegnato alla scrittura, al suo processo ineluttabile: dovevo registrare impulsi, dichiarazioni, immagini, azioni istantanee, ricordi eletti ed elusivi, tutto ciò che avevo scritto in precedenza non era che un esercizio preparatorio, incerto e ambiguo, monologhi febbrili che servivano da paravento ai miei pensieri”.
“Scrivendo, vorrei assegnare una voce ai miei compagni rimasti in Germania. Vorrei tornare da loro, alla verità dei loro nomi, a quei messaggeri segreti. Mi avvicinerei, arricchito delle mie speranze e delle mie esperienze, confortandoli: ciò che abbiamo sbagliato, era sbagliato… Eppure, se li incontrassi ora mi sarebbero più estranei di quando era la paura a unirci: se fossero sinceri, non potrebbero donarmi altro che il loro silenzio”.
“Cosa è accaduto, ci siamo chiesti, dall’estate di quest’anno, da quando ci siamo fatti stradi in una sorta di strano mondo rovesciato, sprofondato nella terra, con i cerchi sempre più cupi e profondi, e il tempo della vita tentava una qualche rivendicazione, l’ascesa, anello dopo anello, alle vette che superano l’immaginabile”.
“Rosi dal disprezzo, voltando le spalle a chi si adatta, i naufraghi della zattera di Delacroix raffigurano quelli che vanno alla deriva, la generazione abbandonata, che in gioventù aveva conosciuto la presa della Bastiglia. Si sostengono e si aiutano, quei derelitti; i conflitti che li hanno portati a imbarcarsi sono cessati, sono puro passato, dimenticata la lotta, la fame, la sete, la morte in mare: appoggiati uno all’altro, ora, insieme, si sarebbero salvati, sarebbero affogati, ora, insieme, e il fatto che chi sventola quello straccio, bandiera informe, sia un africano, il più forte di loro, forse imbarcato sulla Medusa per essere venduto come schiavo, assegna alla scena lo stigma di una liberazione degli oppressi”.