Peter Russell è stato in poesia l’ultimo dei “classici moderni”. Il modernista classicista, se cerchiamo un’altra definizione, ma insomma ci siamo capiti. Credo, in altre parole, che Peter Russell sia uno dei pochi che, affiancato ad Ezra Pound e Thomas S. Eliot, potrebbe consentire di chiudere il triangolo della poesia che cercò di tradurre Dante per il Novecento, che tentò l’ardua impresa di richiamare il Sommo Vate ad un nuovo viaggio, quello immortale, uno e trino, in modo da far sì che l’uomo occidentale flagellatosi nella prima metà del secolo ventesimo potesse riattraversare Inferno, Purgatorio e Paradiso, redimersi e così riassestarsi nel mondo postmoderno, avendo chiaro ciò che ha da restare orizzontale e ciò che, invece, deve persistere nella propria verticalità. Ordinate e ascisse per un uomo post-cartesiano, che sia diversamente cogitante per tornare a trasumanarsi davvero, ossia ad inverare il proprio quid umano e non entificare quella res extensa con la quale, invece, ha finito per confondersi, elevandola a idolo onnicomprensivo e tutto avvolgente dopo quella morte di Dio annunciata dal folle al mercato.
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Irwin Peter Russell (questo il suo nome all’anagrafe, e il celeberrimo filosofo- matematico Bertrand fu suo cugino) è stato fra i protagonisti della scena culturale inglese nei primi due decenni del secondo dopoguerra. Dopo aver combattuto in India e Birmania durante la seconda guerra mondiale, suo mentore fu, come per tantissimi altri, Ezra Pound, nonostante fossero anni travagliatissimi per il poeta dei Cantos. E così nel 1949 Peter fondò a Londra la rivista «Nine» (riferimento alle nove Muse greche). Grazie a questa intrepida e mirabile avventura editoriale, che meriterebbe approfondimenti di studio anche in Italia, e alla quale collaborarono alcune personalità letterarie del calibro di Eliot, Pound, George Santayana e Kathleen Raine, trovarono ospitalità le poesie di George Barker, Basil Bunting, Roy Campbell, Ronald Duncan, Paul Eluard, William Empson, David Gascoyne, Robert Graves e Michael Hamburger. Nel 1950 dette vita ad una casa editrice, The Pound Press, con cui pubblicò An examination of Ezra Pound, la prima antologia di saggi sul poeta statunitense. Nella stessa casa editrice apparvero le prime traduzioni inglesi di Mandel’stam, Pasternak e Borges. Nel 1956 cessarono sia la rivista che la casa editrice. Nel 1964 si trasferì a Venezia. Negli anni Settanta fu poeta-residente alla Purdue University negli Stati Uniti d’America e all’University of Vìctoria, British Columbia, in Canada. Dal 1977 al 1979 si ritrovò ad insegnare filosofia occidentale e orientale all’Accademia Imperiale di Filosofia a Teheran. Con lo scoppio della rivoluzione khomeinista tornò a Venezia, dove rimase fino al 1983, per poi trasferirsi un po’ sopra il confine tra il Valdarno fiorentino e quello aretino.
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Pochi giorni fa sono ricorsi i 17 anni dalla morte di Peter Russell, avvenuta il 22 gennaio 2003 non lontano da quelle parti che proprio ieri attraversavo su un treno fendente la solita nebbia fetente. È in quel contesto mobile e fisso che è riaffiorato d’improvviso alla mia mente il funerale di Peter, quel silente interramento sotto pioggia battente nel cimitero di Pian di Scò, piccolo comune in provincia d’Arezzo ma non lontano da Firenze, dove il poeta inglese trascorse gli ultimi vent’anni di vita. L’anno prossimo sarà il centenario della sua nascita (che cadde dunque nel 1921, il 16 settembre, a Bristol) e bisognerà che il suo nome e il suo dire siano ricordati a dovere, pure qui, in Italia. Anche perché il 2021 sarà anno dantesco.
Lo conobbi a fine settembre del 2001. Erano da poco crollate le Torri Gemelle, visione apocalittica che i miei occhi appresero in diretta e su cui la mia ragione politica avrebbe a lungo travagliato. Lo conobbi per una serie di coincidenze che ebbi modo di raccontare tra le pagine della bella rivista, «poetica e civile», diretta da Piero Buscioni, Lorenzo Nannelli e Massimo Rapi, significativamente intitolata «il Fuoco» (giugno-agosto 2004, pp. 23-32). Conobbi un poeta ormai molto vecchio, più vecchio dell’età che aveva, un uomo sofferente ma non ancora totalmente domo, semmai solo a tratti, quando l’invalidità di vista e di passo si palesavano spietate ed infierivano su una carne già alquanto debilitata. Ricordo ancora le sue grandi mani ossute, le dita lunghe e gialle di nicotina, quella barba da profeta biblico e quell’intonazione tipicamente inglese che rendeva il suo italiano davvero simpatico.
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Qualcuno ha detto a proposito di Ezra Pound che «nessun poeta somiglia così tanto, addirittura impudicamente, a un poeta». L’opera e la vita del “miglior fabbro” americano di versi, tormentato stilnovista del XX secolo, nella misura in cui le conosco, mi paiono confermare un’affermazione del genere. Ma la conoscenza diretta della persona, ancor prima che dell’opera, mi induce ad affermare che Peter Russell sia stato una delle incarnazioni del poeta così inteso più riuscite negli ultimi cinque decenni, in tutta la sua impudica urticante e seducente natura. È stato quell’ossimoro di carne, sangue, imprecazioni e contraddizioni benedette che sa essere una certa genìa di poeti. Peter è stato uno di loro, e lo è stato all’ennesima potenza. Credo in lui vi fossero tratti del mio amato Dylan Thomas. Forse quest’ultimo fu più esplosivo, e infatti si consumò molto prima e saltò in aria a 39 anni. Ma, chissà!, se anche il gallese fosse sopravvissuto a se stesso, avesse scavallato i quaranta, e poi i cinquanta, i sessanta, fino a scivolare verso gli ottanta, come capitò a Peter; chissà!, forse sarebbe stato proprio in quel modo lì, o in qualche misura gli avrebbe assomigliato.
Certo è che da poeta Peter Russell ha vissuto, ed è proprio per questo che la sua è stata una “vita a perdere”. È questa un’espressione che egli amava ripetere spesso al tempo delle nostre conversazioni in un bar di Castelfranco di Sopra, eletto a nostro “ufficio” nelle mattinate domenicali in cui lo facevo evadere dalla casa di riposo in cui era finito, in qualche modo recluso, anche per le sue negligenze, le sue colpevoli ma poeticamente assolte indigenze. Il recente ricovero e la fine della sua autosufficienza lo spingevano costantemente ad un bilancio della propria vita. E le perdite, economiche, di tempo, di affetti e legami umani, di molto altro ancora, superavano di gran lunga i guadagni. Ma una natura come la sua, poetica appunto, non aveva e non riusciva ad avere come parametro l’utile. Non avrebbe potuto. Il dispendio fu la sua cifra.
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Peter amava la bella vita, non il lusso, le donne e la loro inesauribile varietà, anche quella interna alla stessa singola donna, e ancora il cibo, il vino e tutto ciò che allieta questo nostro più o meno fugace passaggio terreno. Mi rievocò sovente episodi della sua vita contrassegnati da significative presenze femminili, esotiche od eccessive, sempre e comunque muse ispiratrici ma transitorie, casi particolari di un universale femminino che lo esaltava, lo poneva al confine tra beatitudine e perdizione. E, si badi bene, questi estremi tra cui Peter oscillava non erano semplici e astratte metafore di una condizione puramente intellettuale, bensì stati dell’animo e della carne vissuti con grande e perforante intensità. Stati cavi in cui precipitava, letteralmente. E l’intensità è l’altra parola chiave con cui possiamo aprire lo scrigno, malmesso ma prezioso, che racchiude la vita e l’opera di Peter Russell.
Alla mia mente si affaccia l’immagine di un grosso pezzo di legno pregiato, di un robusto nonché nodoso tronco d’albero, proprio come quelli che egli stesso amava raccogliere sul lido di Venezia; tronchi che nel tempo si lasciano levigare dal mare, fino al punto di acquisire forme ineffabili, simili a figure meravigliose ancorché mostruose. Le une perché le altre, e viceversa. Del mostro e dell’angelo parlano le sue poesie. Ci narrano del ritorno all’origine, ritorno tanto agognato ma mai davvero pianificato, dal momento che c’è sempre un altro porto, un’altra tappa, e un viaggio non ancora concluso. Odisseo egli interpretò in versi come in vita, e il suo cantore, Omero. Fu cantore occhiuto della cecità di se stesso. Entrambi studiò, amò, mimò: sia Omero che Ulisse. Fedele a Dante, fedele d’amore, condusse entrambi al naufragio.
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Ma è in quella trasposizione vegetale, nel tronco arenatosi sulla spiaggia veneziana, che mi raffiguro il giovane Peter, tanto entusiasta quanto irruente, tutt’altro che mite e affabile, almeno da quel che potevo intuire, da certi momenti, da certe momentanee escandescenze che lo accendevano d’improvviso per poi rapidamente spegnersi, tratti di un carattere che davvero fu il suo destino. C’era ovviamente la condizione di cattività, di forzata immobilità che stava vivendo da anziano malato e indigente, per lui che, poeta, nutriva il suo dire anche con il contatto quasi ferino con la natura. Un contatto senz’altro frequente, se non talora compulsivo. Di qui la scelta di una Toscana di alta collina, ai piedi del bosco, non lontano dalla mistica e selvaggia Vallombrosa. Ma c’era dell’altro, e gli ampi stralci di biografia che mi raccontò sono conferma di un animo focoso e irascibile, entusiasta fino all’intransigenza.
A distanza di quasi vent’anni da quelle giornate, da quelle mattinate di conversazioni, non sempre facili, ma sempre ricche di umanità, di vera poesia, ebbene la storia della sua vita, raccontatami a puntate, tra un campari e un caffè, mi appare ancora come una fiamma che si leva alta e arde incessante fino a che di quell’originario legno pregiato e robusto non resta che cenere fredda. E, si sa, la cenere di chi se ne va rende fertile il terreno di chi poi verrà a solcarlo. Immagini, queste, di verboso romanticismo, si dirà, ma cos’altro era Peter Russell se non un “Illuminista romantico”, come egli stesso giunse un giorno a definirsi da me incalzato in tal senso?
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Sono stati bei momenti quelle ore passate con Peter, e sono adesso bellissimi ricordi. Mi tornano alla mente quel modo simpatico di parlare, il tono cantilenante di una voce calda e pastosa, la sincera commozione che provava ogni volta che recitava una sua poesia dietro mia richiesta. Erano ore liete anche per Peter, ne sono convinto. Questi miei ricordi vogliono spingere a parlare della sua figura, ma soprattutto della sua poesia. So che Davide Brullo saprà farlo da par suo, e provo a dare l’avvio a questa riscoperta lasciando a «Pangea» e ai suoi lettori un paio di esempi di quale sia stata la parola di Peter Russell, il suo dire in versi, il suo canto. Molto c’è ancora da tradurre e ritradurre. Che la festa abbia inizio e il canto si innalzi.
Danilo Breschi
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Il cieco Omero
Il cieco Omero, schernito dalla truppa ignorante,
Sorretto tra i muli, inventò l’Olimpo;
E l’Ellade esplose in fiamme dorate, e l’Europa
Crebbe lenta dai suoi lunghi esametri.
Berlino, 9 agosto 1964
(da La catena d’oro, Firenze, Paideia, 1998. Traduzione di Pier Franco Donovan e Peter George Russell, figlio del poeta, rielaborata da Sara Russell, figlia del poeta)
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Il Mostro
Io porto con me la mia oscurità
mentre cammino nello splendore del giorno;
una gobba o altre deformità
mi sarebbero meno d’impaccio.
Se tutto mi fosse dato, cosa farei?
Panfilo a vapore, ragazze a non finire, proprietà?
Vestiti e cappelli e gemme per te?
Riscatterei le mie vecchie trasgressioni?
La vita, credo, sarebbe molto più difficile
avendo solo un po’ di più di ciò che basta;
cosa potremmo fare con più cose nella dispensa
se non chiedere agli amici di prendersele
o spedirle a qualche terra che muore di fame
(da queste parti non ci sono poveri veri).
Quel che vorrei è il tempo che tutta la sabbia
di tutto il mondo impiegherebbe a sparire
attraverso questa piccola clessidra. Potrei sopportare
questa nuvola di oscurità che è in me,
questa gobba, queste corna, questo groviglio di capelli,
se solo avessi il Tempo, per far di me uno che è libero.
Venezia, 31 dicembre 1965
(da Teorie e altre liriche, Roma, Carlo Mancosu Editore, 1990. Trad. di P.F. Donovan, in collaborazione con P.G. Russell, da me rivista e modificata)
*In copertina: James Joyce nel 1922; il campione del modernismo tra estasi e disperazione