02 Aprile 2023

Sul perdono. Un irragionevole amore per l’uomo

Tu mi vieni a interrogare sul perdono. Non mi interrogo sul perdono, almeno non su quello piccolo borghese che è oggi dominante.

È forse la voce piena del Vangelo, in ogni caso mai uno sforzo intellettuale. Quando ex cathedra insincero, quando assimilato dalla voce suasiva del Potere, una brutta forma d’acqua santa. È il gesto ultimo, verso sé, di chi conserva integri gli ideali ma non indulge alla speranza. Tanto cattolicesimo liberale ne fa un passaggio, apodittico e tondo, del Soggetto che si conduce da sé all’altro, al prossimo evangelicamente inteso, per tornare sistematicamente a non altri che sé stesso.

Mi chiedi poi della speranza, ma dedicherò ad essa poche parole perché riveste per me un ruolo suadentemente capzioso: essa è  sempre retorica nel gergo mentale dei privilegiati: essi hanno il lusso dei sogni, ma i loro sogni sono oleografici e menzogneri.

Forse, di fronte a un mondo che livella e devasta le anime, le identità, adultera ogni purezza e revoca la piena espressione di sé, le opere intellettuali sono destinate a rimanere ginnastiche gesuitiche o costruzioni bizantine e inservibili. Vedo nel perdono e nel senso del sacro, non una possibilità di palingenesi, ma una forma di reale resistenza alle sonnolente alcove di morali da operetta, nonché alla violenza dell’edonismo capitalistico.

Ha per me un fascino radicale e inesplicabile, il perdono stoicamente inteso; e ciò non di meno prediligo quello cristiano: esso esprime qualcosa di definitivo, puro, agnino, e implica sempre un irragionevole amore per l’uomo. Non parlo che di un’anima sola e perduta nel caos dell’esistenza, e che non rinuncia, malgrado tutto, alla gratitudine, alla sincerità e al sentimento del perdono come a una voce bambina nel chiasso furfantesco di un progredire apocrifo, apocalittico.

Il perdono stoico è la voce dell’autarchia, il rigore della saggezza che affratella gli individui nel consorzio umano, quello cristiano è più totale: inconciliabile, in definitiva, con il nostro Tempo. Esso è traboccante e irrevocabile.

Tu mi chiedi del perdono… Io forse inizierò a praticarlo in modo dedito e puro, solo quando non dovrò più interrogarmi sul suo significato; e nonostante questo, insisto a tentarne un’euristica seria.

Questo po’ di bene che posso oggi, non nega ciò che gli è nemico, ma afferma quello che il suo nemico non concepisce. E arrivo a dire che il perdono non è innocenza senza colpa o peccato, è oggi più che mai la colpa dell’innocenza. Può essere e esser stato una colpa innocente, che non ricorre a architetture morali al fine callido di giustificare ciò che è in lei spontaneo… Simile, forse, alla bestemmia di un vecchio contadino: così distante dal perbenismo tartufesco dei salotti, così estranea alle pratiche filistee e all’unta logica dei confessionali, soprattutto quelli dei medium di massa!

E certo il perdono più si addice a chi sente fortemente e con tale spreco di sé da non indulgere, nel gesto che lo attua, al paternalismo e alla retorica. È un sentimento lene ma non mediocre e tiepidamente cauto. Così prossimo all’autenticità da esser messo oggi per inautentico, ovverosia inattuale, inconciliabile.

Infine, ciò che non perdono alla società del consumo, alla mercificazione delle esistenze e perfino degli spazi adibiti alla protesta – che vengono da essa digeriti e integrati, e non sono tali da attuare un reale rovesciamento valoriale ma tuttalpiù del maquillage sul brutto volto delle cose, o l’inscenamento appena di sé e del proprio primato vuoto – arrivo a perdonarlo al singolo, alle sue nevrosi, alla sua incapacità di sottrarsi ai mille condizionamenti di un contesto sociale artante, alla sua infelice vicenda di vita. E in questo senso, non vedo come un soggetto plurimo, quale una massa informe, possa avere un destino diverso dall’omologazione e della rovina.

Non temo il singolo ma il numero organizzato, non temo un perdono buono, cioè oblativo, ma la maschera di un perdono insincero: il vero perdono non è concessione, quanto dono gratuito e estraneo a ogni utile e all’armamentario postmorale che fa dell’utile una religione secolarizzata. Esso non è figlio di alcun calcolo e per ciò stesso reca in sé una traccia di divino.

Massimo Triolo

Gruppo MAGOG