Quasi a voler omaggiare l’Alberto Savinio di Alcesti di Samuele, il nuovo lavoro del Teatro Valdoca che il Bonci di Cesena ha ospitato l’11 e 12 maggio (Non se ne vadano docili in quella buona notte) accende le luci su un “Kursaal dei morti”, naturalmente depoliticizzato (nel 1948 la vicenda vedeva in scena il Presidente americano Roosevelt), socialmente più contemporaneo.
La “macchina teatrale” magistralmente disegnata dal regista Cesare Ronconi ricorda, ma solamente nell’incipit, l’ouverture del terzo capitolo della “Tragedia Endogonidia” della Socìetas Raffaello Sanzio (“B.# 03 Berlin”): anche in Non se ne vadano docili in quella buona notte la platea non è accessibile al pubblico in quanto è coperta da ampi teli bianchi. Gli spettatori così trovano posto nei palchetti, idealmente piccoli e comodi loculi con vista sul cimitero.
Lo sguardo della compagnia cesenate, partendo dal verso di una lirica di Dylan Thomas, si sofferma sulle vittime dei recente terremoti: è a loro che Mariangela Gualtieri rivolge il suo “Requiem” bucolico, a tratti apocrifo ma sempre spiritualmente “alto”, in un costante dialogo tra il boccascena e la platea vuota.
Lavoro realizzato scenicamente in forma di dittico – un “Introito” solamente musicale (Enrico Malatesta e Attila Faravelli) e un “Parlamento” (Mariangela Gualtieri e il violoncellista Stefano Aiolli) – che non conosce pause: nella prima parte la preghiera sublima le parole, si fa grappoli di note, un parlare che assomiglia a un lamento non decodificabile ma che ha la capacità e la forza, egualmente, di arrivare alle orecchie. Piatti che stridono, percussioni percosse, archetti che incontrano i bronzi, ed eseguono un addio.
Il “Parlamento” è il punto di inizio del dialogo: Mariangela dà le spalle al pubblico e guarda una telecamera che proietta la sua faccia su due schermi posizionati ai lati del boccascena. Poi si gira verso il violoncellista e prega. Non “per i” morti ma “i” morti. M. – Mariangela, Maria, Madonna, Madre – si rivolge con dolcezza a chi non c’è più, e si scusa con i vivi per la disgrazia. “Perdonate se non ho guardato con la dovuta attenzione tutte le meraviglie quotidiane. I passaggi di luce. Le stagioni. Certe facce. (…) Se non ho ringraziato per il dolce dormire e tenersi abbracciati sulla sponda del buoi spaventoso. (…) Questo più d’ogni altra cosa perdonate. La mia disattenzione”.
Al verbo pronunziato fa da contraltare lo strumento di Aiolli, che offre risposte sottili e dolorose come lamenti, stridolii e voci che provengono dall’oltretomba, da quel profondissimo e verticale Kursaal saviniano.
Il violoncello emette un suono che rivaleggia con la più perfetta voce umana. In questo crocevia di scintille emerge una Madonna addolorata e dolorosa, discesa sulla terra del teatro, che si rivolge ai suoi simili: gli esseri umani. Non quindi una “borghese solidarietà spettacolistica” su un accadimento facilmente cavalcabile (in molti lo hanno fatto, soprattutto in televisione: si pensi all’abbacinante tragedia di Rigopiano per esempio) ma una luce, un occhio di bue, raffinato e non urlato che vuole raccontare il dramma più forte: quello di chi ha perso la parola e quello di chi ce l’ha ancora.
Alessandro Carli