22 Febbraio 2019

“Perché volevo bene a mio padre, Giovanni Luigi detto Gianni”. Addio a Paolo Brera, il figlio del Gadda del giornalismo (che quest’anno ne compirebbe 100)

[Amore filiale è parola e concetto che non attecchisce più in questo pianeta, s’è perso insieme al senno sulla Luna. Paolo Brera, che, come dice la scarna nota Ansa, “è morto a quasi 70 anni per un infarto la sera del 21 febbraio mentre viaggiava sulla metropolitana di Milano”, conosceva, dell’amore filiale, tutti gli anfratti. Paolo, laureato in Bocconi, economista, giornalista, traduttore per l’occasione – e che traduzioni: da Balzac a Puskin, da Turgenev a Sienkiewicz, dimenticato autore di Quo vadis? e Nobel per la letteratura nel 1905 – era il figlio di Gianni, che è, insomma, il Gadda del giornalismo, il Maradona delle penne sportive, ogni elogio non sarà mai abbastanza. Scrittore, autore della biografia del padre (Gioanfucarlo, era il 2004), qualche mese fa Paolo ha curato un delizioso scritto del padre, Così si beve il vino, edito con garbo da De Piante – copertina mirabile di Velasco Vitali. Il testo di Gianni, d’occasione, una licenza linguistica succulenta, ha permesso al figlio Paolo una postfazione, Ciao Giôann, e versa pure un altro bicchiere, di generosa bellezza. Ne riproponiamo un brandello come memoria e ispirazione. Certo, a giocare con le date si resta di stucco: quest’anno Gianni Brera – l’8 settembre – compirebbe 100 anni. Festeggerà insieme al figlio, lassù.]

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A chi è figlio di una persona famosa càpita di doverla evocare in pubblico, o per iscritto. È un dovere al quale non mi sono mai sottratto, perché – non è per niente strano – volevo bene a mio padre, Giovanni Luigi detto Gianni. Il mio rapporto con lui si è evoluto dall’assenza vissuta nella mia infanzia alla contrapposizione dell’adolescenza (e ci mancherebbe!) e a un graduale aumento dell’interesse reciproco durante l’età adulta, in cui lui ed io abbiamo fatto amicizia. Senza misurarne davvero l’enorme popolarità – l’ho realizzata solo dopo la sua morte – lo rispettavo per le sue qualità di scrittore e mi imbevevo, mai parola fu più adatta al suo significato nel contesto, dei suoi atteggiamenti verso il vino e il cibo e il fumo. Insomma, Gianni apprezzava Bacco, tabacco e Venere. Apprezzava anche la ritualità di certi gesti legati ai primi due elementi di questa triade: versarsi un bicchiere di vino, odorarlo per valutarne il piacere, sorseggiarlo; aggiungere ghiaccio in una generosa dose di whisky scozzese; riempire di tabacco il fornello della pipa, schiacciarlo leggermente, tirare il respiro delicato che mantiene viva la combustione; fare in due il sigaro toscano, tagliarne via un pezzettino dall’imboccatura e inumidirla leggermente di saliva, accendere, anzi, Accendere, e rigirarsi in bocca il fumo. Come fumava Gianni? Ci sono molte immagini televisive che lo mostrano mentre si accende la pipa, strumento di riflessione per eccellenza. O il toscano, sostegno estemporaneo in una qualche fatica produttiva. Le sigarette erano riservate all’isolamento nello studio, davanti alla Olivetti Lettera 22 o ad un foglio di carta bianchissima su cui apporre svolazzi.

Non mi offrì mai da fumare. Sapeva, credo, che avevo ricevuto una promessa pecuniaria dalla Rina mia madre perché arrivassi al ventunesimo compleanno, che allora segnava la maggiore età, senza avere il vizio del fumo. O forse non lo sapeva, ma rispettava la mia strana scelta atabagica. Lui mi aveva a sua volta garantito un premio se avessi saputo il russo alla stessa data. Ho incassato entrambi i premi, in tutto un milione di lire, che erano più del prezzo di una Fiat Cinquecento. E a tutt’oggi sono un non fumatore, con l’eccezione di una sigaretta al mese che scrocco agli amici che fumano. Nessuno mi promise di pagarmi se fossi rimasto astemio. Non sono diventato un ubriacone, ma in assenza della mia venalità, nessun’altra mia qualità, virtù o difetto che fosse, era in grado di impedirmi di diventare uno che beve con soddisfazione. Fin dai tredici anni ho fatto conoscenza con l’armadio dei liquori di casa: il Martini si poteva anche bere a canna, il gin o il whisky mi hanno dovuto aspettare al varco ancora qualche anno. […]

Sul vino ho pure ricevuto qualche educazione in casa. Consentitemi di parlarne, perché riguarda una persona notevole attraverso il di lui figlio. Ho rifiutato a lungo diversi gusti di mio padre: il bonarda (la bonarda, dicono molti) non mi piaceva, ma adesso lo apprezzo. Non ho mai smesso di amare il barbaresco, il barolo e il gattinara, che formavano la Trimurti di Gianni; e anche certi chianti classici; l’amarone, si capisce, i rossi della Valtellina; il sauvignon del Collio, la ribolla gialla; un incredibile lambrusco assaggiato alla Corale Verdi di Parma, che Dio li benedica; lo zuanne che Moretti ha dedicato a mio padre, e il suo franciacorta; il pigato, e un meraviglioso vermentino di Luni etichetta nera di… ma non so se in questa sede mi sia lecito nominare un produttore. Nell’ultimo decennio il mio cuore si è avvicinato ai fantastici rossi siciliani, che fino agli anni Novanta si potevano tranquillamente ignorare (quante haud bona dicta ho sentito da mio padre sui vini del Sud in generale: e aveva ragione, allora: e non l’avrebbe più adesso). In Francia, della quale mio padre mi aveva fatto conoscere lo Châteauneuf-du-Pape e lo champagne, ho sviluppato una cordiale affezione per il SaintÉmilion, un rosso che has it all, come diranno gli inglesi se nei prossimi cinquant’anni finiranno per imparare qualcosa di vino.

Paolo Brera

*Il testo di Paolo Brera, riprodotto per gentile concessione dell’editore, è raccolto nel volume “Gianni Brera. Così si beve il vino”, edito da De Piante nel 2018

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