Nel paese dei libri tradotti è inevitabile che certe figure come autore e traduttore finiscano quasi per coincidere. Emily Dickinson e Silvio Raffo, per esempio, sembrano ormai un’entità unica. Non fosse altro perché Raffo ha dedicato una vita alla nota poetessa americana e ne ha segnato la ricezione in Italia. La Dickinson che possiamo leggere nel ‘Meridiano’ Mondadori, per intenderci, è in massima parte frutto della sua interpretazione e trasposizione.
Ma, tra le varie cose, Raffo non si è dedicato unicamente ai testi poetici dell’autrice. Ha anche scritto una biografia sul suo conto e si è inoltre impegnato di recente nel riportare in lingua italiana un testo teatrale di William Luce, La bella di Amherst (La Vita Felice, 2018), avente come soggetto proprio la vita della poetessa. Noi di Pangea l’abbiamo raggiunto per farci raccontare quella che oramai è la decima opera da lui curata sulla sua amata Emily. Cogliendo l’occasione, abbiamo approfittato anche per paragonare la pièce teatrale con il film del 2016, A Quiet Passion, vertente anch’esso sulla vita di uno dei più singolari fenomeni della poesia mondiale.
Sulla vita della Dickinson è stato scritto e prodotto tanto: il film, le biografie. Ora lei ha tradotto anche quest’opera teatrale, La bella di Amherst di William Luce. A suo avviso perché la vita della poetessa più famosa d’America interessa tanto il pubblico, pur essendo stata la sua un’esistenza da reclusa.
La reclusione è chiaramente l’aspetto che fa maggiormente colpo. È la prima cosa che si dice della Dickinson: visse rinchiusa e sempre vestita di bianco, dal 1862 fino alla morte. La cosa colpisce perché non è certo usuale che una donna rimanga chiusa in casa per trent’anni, indossando capi di un unico colore. Dal mio punto di vista, sarebbe ancor più interessante scoprire se si sia rinchiusa di sua spontanea volontà o meno. Pare da recenti studi che soffrisse di una malattia nervosa, simile all’epilessia. Nella sua famiglia c’erano già stati tre casi di questo male. Naturalmente non lo sappiamo con certezza. Ci si potrebbe domandare a tal proposito perché andassero a prendere le medicine per Emily a Boston, malgrado l’emporio di Amherst fosse assolutamente ben fornito. Ciò è quantomeno singolare. Alla luce di quanto detto, viene anche da pensare a tutte quelle sue poesie che parlano di nervi, di piccole morti, a quando dice “perduta al punto di essere salva, ero morta”, parlando di sé come se la morte fosse già venuta a trovarla diverse volte. Tutti questi fattori potrebbero conciliarsi con la tesi di un leggero disturbo nervoso che avrebbe indotto i genitori a preservarla sotto una campana di vetro. Inoltre, perché le faccende di casa le faceva tutte la sorella e lei no? Aveva forse qualcosa di particolare, inerente alla salute? Non potendo avere risposte definitive, l’interrogativo sulla sua reclusione resta un mistero.
Io ritengo vi sia inoltre un altro aspetto molto interessante nella vita della Dickinson e che questo abbia avuto non poco peso nella fascinazione suscitata presso il pubblico. Parlo della coesistenza di un piano estremamente ordinario e quotidiano unito a questa sua costante tendenza e aspirazione verso il trascendente. Condivide?
Assolutamente. A esso va aggiunto il fatto di essere una donna che basta a sé stessa, cosa che ha indotto alcune a vedervi una pioniera, non dico del femminismo, però dell’autosufficienza femminile. Questo è senz’altro un elemento che la rende molto moderna. Lei sembrava apparentemente un’ancella della famiglia, ma non lo era. In realtà, era totalmente piena di sé. Si dedicava alle piccole cose, come cucinare la blackcake per suo padre, ma raramente. E poi calava dalla finestra dei dolci per i bambini di Amherst, tra i quali si era guadagnata la fama di una fatina, di una bizzarra signorina.
Anche il recente film sulla Dickinson, A Quiet Passion, insiste molto sull’idea di una donna che basta a sé stessa. Trascura però, o banalizza, la questione del trascendente, del divino, che la poetessa vede in connessione all’elemento naturale. Non trova anche lei che si sorvoli con troppa leggerezza su questo punto, per mettere in luce altri aspetti che la potrebbero avvicinare maggiormente al femminismo?
Sono d’accordo. Bisognerebbe in tal senso dare maggior risalto per esempio all’influenza che ebbe, in gioventù, la lettura di Emerson e quindi l’incontro con il trascendentalismo. Da questa lettura rimase particolarmente colpita, anche se non bisogna dimenticare che più di tutto faceva parte della sua natura vedere il mistero ovunque. Per lei, la natura è una casa popolata di spettri. L’elemento del trascendente, a ogni modo, c’è anche nella cultura che in parte si respirava in casa sua, in cui si pregava molto spesso. La Dickinson però non fu mai un’ortodossa. Anche nel collegio che frequentò vi furono non pochi momenti di imbarazzo, perché lei non si voleva proclamare una vera cristiana. Con quella strega della direttrice, Miss Lion del Mount Hall College, ci furono grandi attriti, ma Emily non volle mai fingere o essere ipocrita. Il suo spirito ribelle la portava a vivere la religione in maniera mistica, senza obblighi di partecipazione a riti istituzionalizzati. “C’è chi osserva la festa andando al tempio, io la osservo restando a casa…”: questi versi chiariscono bene il punto, ci raccontano della sua insofferenza verso qualsiasi Vangelo, dogma o canone. Non scordiamoci che la nostra poetessa è un’individualista, con un ego enorme: “il mio io è una colonna”. Ed è questo suo fortissimo io a sentire il mistero. La realtà pertanto le interessa relativamente, unicamente nella misura in cui le permette di andare oltre. La sua attenzione è rivolta verso gli spettri che abitano la natura, più che verso la natura in sé nei suoi meccanismi concreti. Potremmo dire addirittura che da questa ha sempre un po’ rifuggito, a cominciare dall’aspetto sessuale. Restava piuttosto in ascolto di questi richiami, delle presenze. Non si tratta, a ogni modo, di allucinazioni di una zitella pazza. La sua è una solitudine estrema intervallata da colloqui anche molto rilassati, potremmo dire quasi banali, con la sorella e dalla lettura di romanzetti rosa. Ma essendo più profonda di quello che fa e dice è sempre visitata da questi ospiti. Nelle sue parole, non può essere sola, tra “compagni inafferrabili che eludono la chiave”. Come dobbiamo interpretare questi versi? Intuitivamente, io che le assomiglio non poco, penso che queste siano delle proiezioni della sua psiche che le fanno compagnia, quelli che i greci chiamavano daimones. La natura effettivamente è misteriosa, se la guardiamo non con l’occhio dello scienziato, ma con quello del poeta. Ci presenta innumerevoli spunti, interrogativi, e misteri. Emily coglieva tutto ciò e, pertanto, quel che è umano e contingente le sembra insufficiente. Per una persona con le sue esigenze, tutto quello che rientra nell’ordinario è certo abbastanza deludente. Chi potrebbe accontentarla? Nulla e nessuno. Eppure, è molto attaccata alle sue cose, alla casa, ai familiari che però risultano tutti un po’ sotto rispetto a lei, che sembra sempre trovarsi ad altezze vertiginose. Anche quando parla dei suoi parenti, lo fa con un occhio molto critico. Ha timore del padre, però le sembra un po’ ridicolo con quella mania della puntualità, con questi suoi riti e l’osservanza dei dogmi. Lei è altrove. Così occupata a inseguire il mistero dell’essere che l’esistere passa in secondo piano. La natura la affascina, ma come stanza di un misterioso altrove che la abita, in un continuo trasumanare. Tanto più il corpo è solo, quanto più il pensiero trova compensazione a questa solitudine nelle fantasticherie. Questi fantasmi sono anche nelle cose. In fondo, nella Dickinson ci sono anche in una certa misura il tao, lo zen. Se lei guarda un oggetto, un tavolo, una tazza, una porta, le vede tutte come misteriose forme di concretizzazione di ciò che è il mistero della vita, della natura – ecco spiegato perché le indica sempre con la lettera maiuscola. L’essenza del suo pensiero è che ognuno di noi è, plotinianamente, una scintilla del divino e questa lo rende unico, simile a Dio stesso. Il resto è menzogna: la realtà, la storia, la miseria.
Nell’opera teatrale lei pensa sia ben rappresentata questa dimensione del mistero?
Sicuramente più che nel film. La pièce teatrale predilige, comunque, la leggerezza e questa mi pare la scelta migliore da parte dell’autore. In ultimo, questa specie di colosso che è la Dickinson, è anche molto scanzonato. Le piace sminuire il peso enorme di questa “bomba”, come la chiama in una sua poesia, che sente dentro di sé, scherzando, facendo la scioccherella. Nel film viene accentuato l’aspetto tragico della sua solitudine. È vero che lei ne soffriva, ma secondo me è più forte il piacere che le deriva dal suo immaginare.
A suo avviso il punto di forza della trasposizione teatrale sta quindi nell’essere riuscita a rendere questo aspetto della leggerezza…
Sì, esattamente. Trovo che nel porre l’accento su quest’aspetto sia maggiormente realistica – non per niente l’autore ha attinto alle lettere. La Dickinson ne scriveva tantissime e raccontava le sue cose alle amiche, ma sempre con questo tono scherzoso, molto ironico. Tutti fanno la figura di persone limitate nella sua trasposizione sbarazzina e indisciplinata. La sua intelligenza mostruosa riesce sempre a scorgere i lati deboli di tutti. Nei rapporti è comunque molto educata, gentile, buona. Rifugge sempre dagli inutili scontri della commedia umana, che considera una farsa, e vive del suo pensiero che la solleva verso le vette più eccelse.
Ma, quindi, fra la trasposizione filmica e l’opera teatrale scegliamo la seconda perché più efficace e veritiera nella resa dell’esistenza dickinsoniana?
Sì, perché dà più l’impressione di un approfondimento graduale di conoscenza. Il film, invece, che è pure un’opera di notevole valore, non è riuscito a coglierne la vera essenza. L’ha vista più come una persona visitata dall’ombra e dallo strazio di quanto non fosse in realtà. La Dickinson aveva un io troppo solido per sentirsi sconfitta. Il filo che la legava all’invisibile, al trascendente, era troppo forte perché anche la cosa più terribile inerente all’umano e alla fisicità risultasse altrettanto importante. Nel film c’è poco del suo rapporto con la natura e con il divino. Dà troppa importanza alle questioni umane. Mette molto in primo piano questi aspetti quasi da gossip, colorando molti passaggi anche con vere e proprie invenzioni. La pièce al contrario non inventa nulla, non aggiunge una parola a quelle che Emily scrisse nelle lettere ed è fedelissima alla realtà, alla sua natura così spiritosa. E poi è stata portata a livelli altissimi da Julie Harris, la migliore interprete di Emily Dickinson. Tutte queste sfumature il film non le rende, invece la commedia sì. E lo fa nella maniera giusta, in quella miracolosa miscela di forza, potenza e leggerezza. È magistrale quando alla fine, dopo aver recitato invasata la poesia sulla morte, dice “Ah, quella ricetta del pan di zenzero, la prossima volta che ci vediamo, ve la do”. Il divino dono della leggerezza, nel film non si vede, nella commedia sì.
Dal suo punto di vista, si può dare una poesia quale quella della Dickinson senza una esistenza così stravagante?
No, non si può. La sua esistenza è perfettamente congruente. Se fosse stata diversa, la poesia non sarebbe stata la stessa. Non ci sono stonature. E credo che la scelta della reclusione, magari indotta, a lei sia andata assolutamente a genio. La casa dei genitori è un simbolo della casa metafisica e infatti la amò tantissimo. In ogni caso, anche se non fu una scelta, la caricò ancora di più nella sua tensione verso l’assoluto.
Matteo Fais