In Sicilia, che è ormai la seconda patria – la prima è la Rimini vivida e livida di reminiscenze più augustee che fellinesche – ha realizzato, un paio di mesi fa, a Messina, una mostra ispirata a Salvatore Quasimodo. Poco prima aveva lavorato sul corpo di Tomasi di Lampedusa. Una sua opera, per altro, nel contesto di ‘Naxoslegge’, la rassegna artistica curata da Fulvia Toscano, è il premio con cui è stata omaggiata la regista Liliana Cavani. Di Alessandro La Motta – detto ‘Jake’ per quell’andare pugilistico, per quel viso bandito che incassa i baci e i pugni della vita – è luminoso il rapporto con i poeti, fin da subito, dai lavori compiuti nei Novanta, sulle poesie di Rilke e di Roberto Carifi, di Mario Luzi, di Raffaello Baldini, di Eugenio Montale. Il rapporto con i poeti – segnato da una ricerca pittori autonoma, non vampirizzata dalla parola lirica – porta La Motta a concentrarsi suoi problemi primi dell’atto artistico. Ed è da qui, in concomitanza e concordia, che si sviluppa il suo gesto, arcaico, ‘classico’, quasi volto che emerge da uno scudo acheo. Reduce dalla ‘gita’ siciliana, abbiamo interpellato l’artista per entrare nel cuneo del carisma.
Torni a relazionarti con i poeti e gli scrittori, con Quasimodo, con Tomasi di Lampedusa. Ricordo i tuoi lavori su Mario Luzi, tra i tanti. Che cosa ti ispira della poesia, del fatto letterario?
Ho sempre amato la poesia per la capacità di arrivare alla ferita dell’essere con poche parole, come se quei segni scolpiti nella pagina bianca arrivassero a tessere tracce di significato esistenziale. Gli anni dell’Università sono stati per me fondamentali, da questo punto di vista per la frequentazione di amici scrittori e poeti, da questa frequentazione è nato anche il desiderio di contaminare il mio lavoro con la parola poetica. Lavorare con alcuni grandi della poesia del Novecento è stato un onore e un impegno di serietà e di rispetto della parola, con Mario Luzi, una piccola edizione interamente realizzata a mano con litografie e testi, firmata da entrambi e con Raffaello Baldini, che mi ha fatto dono di alcune poesie riscritte di suo pugno per realizzare alcuni disegni dai testi autografi; poi non posso non ricordare gli amici e i compagni di viaggio, che in quegli anni gravitavano attorno alla rivista ClanDestino o al Centro di Poesia dell’Università di Bologna.
Ci sono state poi occasioni privilegiate come l’invito a lavorare su Giacomo Leopardi, concretizzatosi poi in uno spettacolo per immagini e parole con Giancarlo Giannini che leggeva le cantiche di Leopardi mentre dipingevo direttamente sul palco alle sue spalle e riscrivevo “Alla Luna”; o quando ho partecipato alle celebrazioni per Dino Campana al Museo di Marradi e ho in seguito realizzato un’edizione d’arte in serigrafia.
In queste esperienze ho cercato di scostarmi dalla parola come elemento grafico del quadro come in alcune esperienze pur bellissime di inizio secolo, vedi come i futuristi e anche dalle esperienze di poesia visiva affiorate negli anni sessanta. Ho accolto nello spazio dell’opera le parole poetiche perché spesso fonte di ispirazione o punto di partenza per l’opera che andavo a realizzare non come due linguaggi affiancati ma nel tentativo di farne un linguaggio unico capace di veicolare il senso dell’opera, il suo pensiero recondito. Per la Lighea di Tomasi di Lampedusa è stata una folgorazione, ho ritrovato in un solo testo, molte delle istanze in cui si era orientata la mia ricerca. La “sirena” è un testo poco conosciuto, ma con una storia intensissima, il racconto dipana la storia dell’amore tra un giovane grecista e una giovanissima sirena “siciliana” incontrata al largo della costa di Punta Izzo ad Augusta. È un periodo breve e intenso, ma ne nasce un amore folgorante e capace di travolgere e dare un significato nuovo, fino a condizionarle, a tutte le esperienze da lì vissute dal giovane protagonista. Un omaggio all’amore e al mondo classico, ai miti delle sirene e alla “Sicilia eterna”, ai suoi profumi, ai sapori perduti. Da questo lavoro è nata una mostra con trenta tavole e un’edizione d’arte, realizzata in collaborazione con Naxoslegge, che ha girato in diversi siti museali legati a Tomasi di Lampedusa.
Il nuovo lavoro su Salvatore Quasimodo traduttore dei Lirici greci nasce invece da una proposta e una provocazione di Fulvia Toscano, direttore artistico di Naxoslegge, che per la nuova edizione del festival, Tradurre la Bellezza, mi ha proposto di portare alla Galleria d’Atre Moderna e Contemporanea di Messina una mostra che affiancasse la mia ricerca sui miti e sul mondo classico alle traduzioni di Quasimodo dei Lirici greci. La Galleria oltre alle importanti opere di autori del Novecento è sede dell’Archivio Quasimodo con diversi documenti e lettere intercorse con artisti e intellettuali dell’epoca, la lettera di conferimento del Nobel per la Letteratura, pubblicazioni e testi poetici dattiloscritti dal poeta con le correzioni apposte a penna. Soprattutto, è stata l’occasione per addentrarmi ancora una volta e più a fondo in quel rapporto tra la parola, il verso e il mio percorso espressivo si annodano.
Procede il suo lavoro entro l’antico, l’ancestrale, l’arcaico. Per altro in Sicilia. Perché? Che attrazione la spinge lì, quasi ‘geologica’?
La ricerca nel mio lavoro era sempre stata orientata verso una “geologia” delle forme naturali e dell’umano, un timbro del segno e della pennellata che sgorgasse da quel magma di istanze naturali e culturali, spesso in modo non organico, ma costantemente alla ricerca di origini. Così è stato per le mie geologia materiche e per gli angeli che sgorgano da quella marcia astratta ma impregnata di luce. Vi era già nei primi lavori quel tipo di ricerca, ricerca nella materia che mi accostava alle mie origini Siciliane. Da diversi anni poi, il lavoro si è fissato sulle origini mediterranee, sui miti classici e in particolare sulle tracce greche in Sicilia, dove per altro si sono sviluppate alcune delle leggende e dei culti sulle divinità che poi si sono irradiate in tutto il Mediterraneo. Come per esempio le divinità ctonie legate all’alternarsi delle stagioni e della fertilità sviluppatosi largamente in Sicilia e irradiandosi poi tanto da essere accreditato già dai racconti omerici e da testi antichi come originato attorno al lago di Pergusa. Anche qui il viatico, l’input iniziale è la letteratura, e non a caso I dialoghi con Leucò di Cesare Pavese.
Come si lavora al cospetto, come fai tu, di archeologi, di reperti veri e propri? Contando, intendo, che non sei certo artista ‘pompier’, ‘passatista’, ‘reazionario’.
Il lavoro con gli archeologi, è stato ed è un master di conoscenze e saperi sul mondo antico, ma si è rivelato sorprendentemente un incontro umano, con gente innamorata della bellezza e per la possibilità che si è sviluppata di approfondire e sviluppare nel rispetto delle diverse discipline un percorso comune capace di valorizzare il lavoro di tutti. Curioso, interessato, non ideologico. Qui mi corre l’obbligo di amicizia sincera di ricordare in particolare Serena Raffiotta, balzata agli onori della cronaca qualche anno fa, per aver consentito grazie alla sua ricerca, il rientro in patria della Testa di Ade, manufatto greco dell’area di Morganatica trafugato e rinvenuto in una collezione americana.
Sulla seconda parte della domanda, i pompier, di cui parli si rifugiavano in forme “tranquille”, pacificamente borghesi, non è il mio interesse anche se oggi guardo intensamente al mondo “classico”, il classico non è il fine ma per me un mezzo, il modo per esprimere quella ricerca sulle origini e sulla bellezza che sempre più mi coinvolge come artista. Capisco poi che la domanda nasconde una insidiosa diatriba da sempre in atto e che in particolare nel Novecento ha visto anche aspri scontri e faziose correnti spesso ideologizzate, ma guardiamo l’arte del periodo e così un Picasso che dopo l’invenzione del cubismo, mutuata guarda caso dalle forme arcaiche, amoreggia con i surrealisti e nel contempo si approssima al nostro Rinascimento, guarda caso riscoperta principe del mondo classico; per poi raccontare dei Futuristi, certo rivoluzionari, che al contempo però analizzano con Boccioni la Nike di Samotracia e le dee madri con la sua “Mater materia”. E le metafisiche città d’Italia con le sue rovine e figure classiche in De Chirico, contro un Sironi che attinge a piene mani nel mondo classico nelle sue forme, si dirà poi per motivi ideologici, e pure essere un gigante del nostro novecento.
Non credo ci sia questa diatriba ormai tra arte reazionaria e rivoluzionaria, tra correnti opposte, poi forse è peraltro vero in Italia ci parliamo ancora addosso. Il mondo classico non è appena una forma, è un contenuto, parla archetipicamente di ognuno di noi, lo fa con i suoi eroi, i suoi miti e con le forme che così tanto ritroviamo ad ogni angolo nel nostro paese. Credo per altro che nel nostro paese questo portato di civiltà antica e di storia abbia inciso a più riprese più che altrove. La mia ricerca espressiva si pianta lì e prova con un tratto originale a sviluppare questo discorso con le mie figure che senza vergogna a volte saccheggiano l’iconografia classica per denunciare un bisogno di bellezza, lo faccio attraverso una cancellazione e riscrittura dell’opera classica, della figura magari su un impianto pittorico informale. La poesia è in questa “riscrittura” in questo nuovo codice di bellezza, un elemento, non più, e non solo di origine ma viatico di lettura e comprensione dell’opera stessa.
Uno sguardo sull’arte di oggi, di fronte a cui l’incauto osservatore è spesso smarrito. Che senso ha fare arte oggi? Forse certa arte contemporanea ha smarrito il senso? Ci aiuti a capire.
L’arte è contemporanea a chi la fa, non credo che esistano forme che ne rendano più di altre la modernità in un caleidoscopio di forme espressive. Ma questo deflagrare di forme, rende a volte difficile allo spettatore di cogliere la direzione dell’opera. Forse necessitano le istruzioni per l’uso, come un componibile Ikea. Ma forse il problema non è dove va l’arte, l’arte vede le sfaccettature della realtà e le racconta in tanti linguaggi.