Spacciato per decenni nelle sezioni di letteratura infantile, tanto citato quanto non letto, Poil de carotte si presta ad essere un classico con tutti i crismi. Su di un capolavoro si possono su due piedi tentare le pratiche dell’aruspicina e della tarologia; lo si può aprire a caso e da dovunque: esso risulterà tutto testa, o tutto cazzo, a seconda della bisogna, così come un certo crepuscolarismo coglione, oggi in voga, vorrebbe risultare tutto cuore: va dove lo porta il culo.
Mi sorprese sulle prime, nell’approccio, il ributtante tremolio gelatinoso della talpa, per disgrazia arenata in superficie dalle profondità viscerali della terra, vilipesa e vessata dall’infanzia felina e demoniaca del protagonista, scagliata in alto con calibrata precisione perché cascando si sfracellasse giusto su una grossa pietra. Malconcia e grondante saliva, tutte le ossa in frantumi, la bestia viveva tuttavia, tardando ad esalare quel che restava della sua misera vita, ingolfandola anzi in un ribrezzo che angustiava il suo stesso esecutore. Il guaio fu che a un certo punto la talpa smise per sempre di morire.
Ritornai febbrilmente alla copertina patinata, e vidi che era proprio rosa, e vi erano dei fiorellini, e c’era scritto “collana di letteratura per ragazzi”, poi tornai alla talpa dove il mio pollice aveva fatto da segnalibro, rilessi e mi lanciai di nuovo sulla copertina. Non aveva cambiato affatto di colore: era sempre rosa rosa rosa, e c’era scritto: “letteratura per l’infanzia”. Mi fossi accanito a negarlo avrei avuto veramente una faccia troppo tosta.
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Quando ebbi la ventura di conoscere Jules Renard – e i buoni autori cascano sempre al momento giusto: sono un dono divino, il kairos – ero tutto intero nello splendido bestiario di Federigo Tozzi, il mostro antibucolico, strozzato a fatica nella clessidra del naturalismo prima, poi insaccato nel catartico intestino dostoevskijano, nella vescica dell’abreazione isterica da una critica di scalfittura, per cui fui pronto a recepirlo con la sensibilità di un utero. Le crudeltà Renardiane parevano invero, rispetto a quelle di Tozzi, squadrate in un fumetto sotto acido, circoncise in quadretti esemplari dove è chiaro lo strappo a forma di sette, la ferita inguardabile dell’ascia.
Pubblicato nel 1894 Pel di Carota fu una di quelle rare opere scritte con il sangue agli occhi, per oscuramenti più che per illuminazioni. Recisamente autobiografico, corse come tutti i bozzetti il pericolo di ricadute documentarie. Oggi ha vita a sé. Essa può accorciarsi ed estendersi a piacimento come mostra la conclusione tautologica la quale altro non inaugura che lo stesso album di Pel di carota. Un album è sempre stato il sarcastico nido della fenice.
Tornando alla carne mortale, l’opera in questione piccò grandemente l’autore che la vide alfine come: “uno spiacevole miscuglio dove non trovo più la gioia passata. Più che un’opera è la vetrina di uno spirito cencioso, dove c’è un po’ di tutto: pietà, cattiveria, cose già dette e cattivo gusto… Poi sono scontento perché l’ho buttato fuori di furia, l’ho abborracciato verso la fine per guadagnare qualche soldo subito. È probabile. Tempi duri per quelli che tendono alla perfezione”.
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Pietà, cattiveria, rabbia impotente ed idiota, vigliaccheria e sterco, vi si trova veramente qualsiasi utensile. Non difettano neppure le incursioni pedofile e il sadismo anale, anche se con mia somma gioia non vi è parte in esso che risulti positiva alla prova psicoanalitica. Una vera cuccagna. Pel di Carota, il cui nome di battesimo non ci è dato sapere, non sarebbe stato che un ragazzino con vocazioni maniaco-depressive il quale raccontava al padre con un certo compiacimento di aver ancora meditato il suicidio. Il babbo dal suo canto si opponeva con la sufficiente argomentazione che il monello non mirasse ad altro che ad attrarre l’attenzione su di lui, secondo la vulgata, mentre le malattie nervose iniziano proprio dalla finzione e dalla giustificazione, avrebbe concluso da esterno il legislatore.
L’opera può darsi invece per quello che è: spellata più che nuda, e satura di irreparabile felicità, non avara di bordate che oltre sessant’anni dopo sarebbero state bene in bocca ad un personaggio dei Peanuts: “Non a tutti è dato essere orfani”.
Resta Renard (la volpe), ora cinico ed ora piagnone, capace di eritrofobie di fronte a una modella nuda nell’atelier di un amico pittore, e di uscite sanguinanti: “Ah! perché anch’io non son costato la vita a mia madre, nascendo!”; resta Renard con le sue vignette paludose che tanto dovettero piacere a vociani e lacerbiani i quali avevano a loro volta fatto il culo ad ogni ambizione diegetica. (“Bisogna essere maschi davvero… Non scriverò romanzi” diceva Giovanni Boine, riferendosi verbigrazia ai diagrammi retorici della Tartufari – le cui ricette sono tuttora gelosamente custodite dalle Chiare Gamberali ecc. – ma con l’Uomo finito e con Il mio carso non si sarebbe permesso lo sgambetto). Egli stesso del resto si compiaceva di non aver più bisogno di esplicare un albero: impiccare una parola su ogni inforcatura di ogni ramo dopo aver grattato come un orso bruno le sue terga su ogni ruvida scaglia del tronco; basta con la pittura maniaca, una foglia per volta, di Constable: per lui contava dire semplicemente “albero” e liquidare così venti pagine di fittissimi pixels. Ciò fu considerato bozzettismo laddove invece era urgenza e puntualità.
Le sue Storie naturali, al netto di qualche trabocchetto epigrammatico (le formiche le quali fanno tutte insieme 3,333333333 ecc.), sono il ponte di corda che potrebbe condurre, ad esempio, alla bio-geometria di un Giampiero Neri.
Antonello Cristiano