Gli amici ne ricordano l’indole guerresca, la bellezza aggressiva: a contrasto con la poesia, un embrione di luna, embricata tra lumi lasciati a macerare in botte, audacia del diniego. Di Paul Drouot si parla per rifrazioni e assenze: cosa avrebbe potuto essere, cosa è stato, cosa ne sarà… Cometa di cui è vivida la traiettoria, folgorante ma effimera; meteorite che non sfocia in un cratere; cantiere aperto. Nato nelle Ardenne nel 1886, Drouot fu poeta d’istinto, dalle istantanee decadenti: precocissimo, pubblica i primi versi sulla rivista “Psyché”, fondata con l’amico Luois Thomas; a vent’anni la prima placca, La Chanson d’Éliacin, a cui seguono La Grappe de raisin (1908) e Le Vocable du chêne (1910). I suoi versi sono sigillati dall’approvazione entusiasta di Maurice Barrès; Henri de Régnier, potente intellettuale, amico di Mallarmé, accademico di Francia, ne ricorda “la folta capigliatura, la fronte alta, ampia, orgogliosa, gli occhi accesi di un certo fuoco eroico, il passo vigile e franco, nella divisa da soldato che gli conferiva il corrusco fascino di un autentico figlio di genia militare”.
Il bisnonno di Drouot, in effetti, era stato il generale che aveva scortato Napoleone all’isola d’Elba. Forse per questo, allo scoppio della Grande Guerra, il poeta scelse di lottare in prima fila, benché per ragioni di salute fosse stato destinato ad altre mansioni, in più sicure sedi. Fu impegnato come soldato semplice nel terzo battaglione di fanteria, ad armamento leggero. Finì squartato da una granata, il 9 giugno del 1915, a Aix-Noulette, nell’Alta Francia. La sua “morte eroica” è celebrata insieme a quella di altri poeti massacrati al fronte; l’opera, provvisoria, consacrata dal testamento di Drouot: “Vivremo il resto della vita a seconda di ciò che avremo compiuto in guerra: non auguriamo a quelli che amiamo di portarsi sulla coscienza rimpianti che nulla potrà consolare”. Così scrisse alla madre.
Gli amici sapevano che il poeta stava lavorando, da tempo, al suo libro più importante. Eurydice deux fois perdue fu pubblicato nel 1921, anche grazie alla tenacia di Paule Régnier, scrittrice di genio, di candida bellezza, dal corpo alterato dalla tubercolosi. A Paul, Paule dedicò studi e un amore impari, non corrisposto, anzi, ricambiato per opposizione, miseria di un gemellaggio senza ingaggio: l’Eurydice a cui aspirava il poeta era infatti la sorella di Paule. In questo gioco di attese strazianti, di incontri mancati, di identità confuse, celate, è il mistero orfico del poema in prosa di Drouot, di cui traduciamo alcuni passi. Il testo, incompiuto per destino, certo, ma soprattutto per una specie di intima necessità, riesce meglio nelle Notes et fragments, negli appunti senza mediazione, dove il poeta non mette le briglie al verbo, è più sfrontato. Henri de Régnier, autore di una partecipe introduzione al libro, scrisse, tra l’altro:
“prevedo un grande destino letterario per queste pagine, che assicurano all’opera di Paul Drouot una solidità indistruttibile. Euridice, sotterranea, due volte perduta, misteriosa, ci mostra il suo più segreto cuore. Musa dolente, ci fa sfiorare la profonda sensibilità del poeta. Ce lo mostra nudo… La guerra aveva risvegliato in lui un senso atavico di gloria, fremeva per il dovere da compiere, fiero di sacrificare la sua vita, di accettare il martirio per la patria. Eppure, la amava, la vita! Le si avvicinò con coraggio e orgoglio: lei lo ha ricambiato con un eccesso di durezza”.
La versione del mito orfico, in Drouot, ha abiti moderni: la discesa agli inferi è l’attesa di un appuntamento che si sa fin dal principio funestato dall’assenza, dall’assiduità dell’angoscia. Il tempo mortale – le ore che passano, stalattiti in sala, stille di ricatti – è la sola eternità, piena di angoli; la carne si disfa in ombra. Il poema è elaborato sotto il carisma dell’autunno, ha colori lividi, pieni di scorpioni.
Secondo Proclo gli iniziati ai riti orfici, “creature della Notte”, miravano alla “vita beata, lontana dalla peregrinazione del nascere”: ma amare significa ogni volta morire, e morire ancora, beatitudine di una vita immedicabilmente rivissuta. Il canto di Orfeo inganna le fiere infernali, avvince i morti; Drouot cerca di compiere il sortilegio opposto: onorare i vivi, esprimere l’amore in un inno. Atto sacrilego. Le Baccanti, nel mito, dilaniano Orfeo a morsi proprio come Drouot è divorato dalla granata accidentale. La morte del poeta osannato dai poeti, loro padre putativo, da espellere, è ora la morte di un soldato come altri, come tutti pieno di un destino infecondo. Di Euridice, come sempre, non c’è traccia: piena della sua nuova vita, al di là dei verbi. Orfeo, da sempre, attende un suo cenno: è lei che deve ascendere agli inferi del mondo mortale, per sceglierlo. Ma gli inferi, forse, non sono che questa estenuante attesa, in salotto, mentre piove.
***
Euridice due volte perduta
Ti ho sempre attesa nell’oscurità, come se tu fossi tutta la luce possibile; oggi, per l’ultima volta, ti attendo. Il bosco, intorno al padiglione di caccia, soffoca i rumori del giorno che muore. Che questi momenti intollerabili, in cui credo ora di morire, ora che la porta si apra, si prolunghino fino all’aurora!
*
Non ti aspetto dall’ora fissata del nostro incontro, né dal quarto d’ora che la precede, né dall’ora prima né da prima di mezzogiorno!
Ti attendo da prima di iniziare ad attenderti.
*
Lo so, non puoi essere puntuale, nemmeno questa sera!
*
Ti aspetto in piedi, nessuna stanchezza eccessiva mi comanda di sedermi. Ti aspetto contro la porta, sono tutt’uno con lei, la mano stringe la serratura, la fronte batte sul muro. Il pavimento sotto i miei piedi vacilla, come se passassero dei carri, in lontananza.
Il mio cuore chiede il chiuso spazio che ti cerchia, il cammino che a te conduce.
*
Attendo anche per te. Attendo. Cosa attendo? Il balzo della sfinge, il compimento del mio destino, un piccolo gesto: che tu bussi alla porta, che gratti la grata delle persiane.
Perché vaghi per la stanza come una pazza?
Il sopracciglio si è ritorto contro la tempia?
Forse sei stata distratta da un sogno?
Ti ha interrotta un pensiero tanto amaro da bloccarti, sei ferma alla finestra che stavi per chiudere…
I tacchi alti si sono impigliati nell’erba e sei caduta… Il cancello era chiuso, ha dovuto fare una deviazione.
Stai dando degli ordini: vestiti, tuniche si spiegano davanti a te: quale devo indossare?
“Eppure è ora di andare!”.
Pochi istanti irrevocabili, pochi miserabili minuti rubati ai preparativi della tua partenza.
“Devo andare, ma devo trovare il tempo di andare!”.
Non hai pietà che la mia pelle ammuffisca?
*
Quando non ce la faccio più, cammino, nella stanza c’è una lampada accesa, c’è anche il fuoco. Sposto un mobile, lo cambio di posto, dispongo diversamente le pieghe delle tende, scuoto il fuoco per trarne un tizzone: lo sollevo, lo fisso mentre si consuma con terribile rapidità.
Sposto di continuo una sedia, la allontano dal muro; spingo il cuscino con il piede destro (vergogna, miseria, misero me!).
Il cappotto dall’altra parte del tavolo, qui c’è il cappello, là il fiore, viola. Pianifico uno strano ordine. Corro, corro, come un uomo che si veste di fretta, la mattina presto, per andare a morire.
Ogni due minuti afferro l’orologio; non leggo il numero sul quadrante; non lo leggo; una voce comincia a sbeffeggiarmi. “Sono le otto; sono le otto e dieci; sono le otto e un quarto”. D’improvviso, perdo coscienza: sono lo scolaro che divora, durante lo studio, a sera, i racconti delle più crude battaglie. “Alle sei e venti… alle sette e quaranta… alle otto”. Tendo le orecchie, come allora; sento rombare nel silenzio della Storia queste segrete pulsazioni, le pulsioni delle date, sanguigne.
*
Le notti in cui si fa troppo tardi, sembra che tu provenga dalle più fitte profondità della Cina, i minuti appuntati, presi a prestito, arroccati gli uni sugli altri per il mio martirio, meri strumenti di non so più quale rabbia o vendetta; e per ultimo il terrore che ispira l’amore.
Non avere pietà di me. Non lo pretendo. Abbi pietà di chi ti attende. Non dire, “tra un minuto”, se è un secolo. Naturalmente, non puoi capire. È qualcosa di altro genere, così penetrante, così vivo, e atroce, come la vergogna.
Soffrirei meno se ti vedessi mentre ti allontani da me più che questo pensare di stringerti tra le braccia, e non ci sei…
…al pensiero di quella resa in cui arretrerà il mio cuore quando i tuoi capelli, come l’ala della morte, accarezzeranno la mia gelida guancia.
*
Quante volte i miei passi hanno tracciato su questo pavimento il labirinto della mia angoscia; quante volte, di fronte allo specchio, i miei lineamenti disfatti non sono più riusciti a stabilirsi in una forma onorevole; quante volte mi sono voltato nel timore che il tuo arrivo mi sorprendesse, a freddo; quante volte mi sono precipitato alle finestre, ho sbattuto contro le persiane socchiuse; affrettando la mia fine attendendoti.
Amore mio, quante volte ti ho messo al mondo!
***
Frammenti
Il corno della luna: la mano di una donna che ti saluta.
*
Tutto è misero, tutto soffre, tutto mi schiaccia. Dov’è il cuore che spera, pieno, come una foresta fitta di verdi lacrime?
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Quando l’ombra di una foglia crolla sull’altra e ogni albero diventa verde e nero.
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Ricapitoliamo: sono libero, sono freddo, sacrilego, ho la libertà brutale, la libertà che decapita le anime.
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La felicità è sentire la felicità, immaginarne ogni possibile via: è guardare la casa della felicità senza cercare di entrare, non ha ingressi.
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Questo taccuino è un piccolo libro.
Mi basta che una persona soltanto, tenue, legga questo libro e, dopo averlo letto, lo sogni. Altri si accontentino di sfogliarlo: lo scarso interesse per la trama, l’assenza di avventure, li faranno desistere presto; queste non sono che note, gemiti, poco più che l’amore, qualcosa come un pianto; certo, in alcun modo, una storia.
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Torna, torna qui, pensa alla felicità che ci attende, incredibile, che è annunciata e viene, due giorni prima, a piedi, senza suono di campane in cortile, senza il cavallo che scalpita.
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Sei tu che hai creato per me il passato: ne ero privo.
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Tiene la testa bassa, come se avesse un pezzo di stoffa tra la gola e il mento.
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Il suo volto come un abisso, la bocca che dice, china: “Vieni, banchetta del mio silenzio, accresci il mio pallore”.
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Non fissarmi con quegli occhi che si abbeverano di rugiada.
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Com’è dolce la felicità di cui siamo responsabili, che ha travi, che scricchiola.
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Nei miei scritti puoi accorgerti del cattivo sentore della purezza, dell’ingenuità. Non credevo esistessero preti incapaci, finché in qualche modo non lo sono diventato anche io.
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Era voluttà: nel viso l’espressione spaventosa, senza occhi né naso, soltanto carne – e una bocca.
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Quelle palpebre di piombo, gli anelli di fuoco, la lacerazione: ecco come amo. Nervi tesi, carne accartocciata, braccio contuso: il mio amore, il mio amore nato nel sangue.
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Le atmosfere gonfie di fetida codardia, di vapori pestilenziali… esalazione di palude…
Sembra che tutto sia ricoperto di fango, consacrato nel fango.
E non hai nemmeno la forza di stare in ginocchio.
Le cose più vicine sembrano lontane, come viste in uno specchio.
Respiriamo la terra, dall’odore triste e cristiano, l’aria vegetale, l’incenso dagli aromi bilanciati, aria piena di caos e di scambi.
*
Quando ero piccolo mia madre diceva: “Piove. Oggi le api non usciranno”.
Piove… ed è la nebbia a scendere.
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Piove e sembra che anche a noi, i malinconici, sia concesso il paradiso da cui è bandita la gioia che atterrisce, la luce che ferisce.
La pioggia canta…
Come se tutte le lacrime crollassero dal cielo per benedirci, noi, stesi sull’erba…
*
Non si è alzato per tutto il giorno. Si è inspessito. Questa bruma è diventata nebbia fitta, dimora di dimenticati fantasmi, anime che si dissolvono nell’universale.
Il cielo è una lettiera di paglia. Addio al nobile cielo, ai blocchi azzurri, impilati uno sull’altro senza che se ne scorga l’incastro. Non vediamo nulla. A volte, tra le feritoie, brilla un tetto, come il mare prima di ancorarsi alla tempesta. In una fattoria, distante, senti il gorgoglio orgoglioso di un tacchino; rabbrividiamo; il crepuscolo è come un malato che muore; la foglia si regge appena, sta per cadere.
Un brusio di foglie, il suolo sussurra: il ruscello torna a suonare, il dolore rientra nell’alveo del cuore.
*
Ciò che di un altro ci resta sconosciuto è come soffre.
Paul Drouot