23 Novembre 2020

“Scrivile che sono vivo”. Le lettere di Paul Celan

Paul, in realtà, si chiamava Pessach, come il bisnonno. Pesach, la Pasqua: festa della liberazione dall’Egitto, per gli ebrei; festa che coincide con un massacro. La “Pasqua del Signore” (Es 12, 11) è cruna di sterminio: mentre gli ebrei compiono il pasto rituale, “in quella notte io passerò per la terra d’Egitto e colpirò ogni primogenito nella terra d’Egitto, uomo o animale; così farò giustizia di tutti gli dèi d’Egitto”. Il segno sinistro è la traccia di sangue “sui due stipiti e sull’architrave delle case”: dove è quel marchio, Dio non colpisce, passa oltre, salva. Benedizione in sangue. Carneficina di uomini e dèi, di carne e teologia. Paul Pessach Celan, nato a Czernowitz il 23 novembre del 1920, nell’attuale Ucraina, è la traccia di sangue sulla fronte della poesia europea; è la carneficina e la liberazione.

*

Si comincia con la conta dei morti – Pessach, appunto. Rimestare nello spargimento di sangue. “I miei genitori sono stati fucilati dai tedeschi. A Krasnopolka, sul Bug”. Segue la conta degli amici, di chi è diventato spettro (“La signora Alper, la nostra buona signora Alper, è morta…”). E una richiesta: “scrivile che sono vivo”. Siamo nel luglio del 1944: Celan comincia a raccogliere i suoi testi, a Czernowitz impera l’Armata Rossa, il poeta “si offre come aiutante sanitario, mettendo a frutto i suoi trascorsi di studente di medicina, nella clinica psichiatrica del dottor Pinkas Mayer, cognato di un amico: qui ha modo di osservare le malattie mentali e di avvicinarsi alla scienza di Freud” (Mario Specchio). Celan legge Martin Buber, l’anno dopo si trasferirà a Bucarest, “la Parigi dell’Est”; le sue peregrinazioni nel deserto europeo – Pessach, Pessach… – lo porteranno a Vienna, dove incontra Ingeborg Bachmann, infine a Parigi. La terra che cerca, una Sion in cristallo, è tormento di illusioni.

*

La vita, eppure, ha il sopravvento, i versi sono lì, come chiodi, salmi irti di spine da cui è sconfitta la corazza liturgica: puro buco, guscio, elemento che suona. “Anch’io sono sposato, mia moglie è francese, abbiamo un figlio Eric, che a giugno compie sette anni”. Celan riemerge da catacombe d’anni, nell’aprile del 1962. Parla del suo amore per i russi – “La lingua russa un paio di anni fa mi è tornata molto vicina” –, sta lavorando a Die Niemandsrose. Scrive, come sempre, tra la fretta e l’abnegazione all’ingenuità, alla meraviglia: “Chissà se tu hai mai avuto la possibilità di conoscere personalmente dei poeti russi? (Il lavoro che mi sta a cuore più di ogni altro è la traduzione delle poesie di Osip Mandel’štam…)”.

*

Nel centenario dalla nascita di Celan, l’omaggio più potente va scavato nella petraia, è per pochi, lo stampa in numero raro di copie Prove d’Artista / Galerie Bordas, per la cura di Anna Ruchat (e il testo di Domenico Brancale). Si tratta dell’epistolario tra Celan e Erich Einhorn, “un amico di giovinezza di Paul Celan a Czernowitz”, leggo. “Dopo essere stato ufficiale nell’esercito sovietico, lavorò a Mosca dapprima come insegnante di lingue (rumeno e italiano), poi come traduttore”. Il testo, pubblico in origine nel 1998, è tradotto come Tu sai cosa sono le pietre…

*

L’epistolario ha una fragilità terrosa: Celan parla, per lo più, delle sue traduzioni dal russo, di Sergej Esenin (del 1961), di Aleksandr Blok, di Evtušenko. Come se la Russia fosse una Gerusalemme lirica; d’altronde, Paul Pessach è il poeta in transito, che attraversa pianure gonfie di linguaggi, traduce Cioran e Simenon, Rimbaud e Shakespeare, Ungaretti e Lermontov: come se si rinnovasse tra le piaghe, nelle parole degli altri. Chiede all’amico di correggerlo, di raffinare il falò dei verbi. Pessach, appunto, è il poeta della tratta, del valico, dell’attraversamento. “L’anno incominciato/ col suo cantuccio marcio/ di pane illusorio.// Bevi/ dalla mia bocca”. Chi è chiamato Pasqua non può approdare nella terra che fu patto, promessa, schianto di guerrieri e di luci. Terra tratta da un tradimento. Paul, dunque, diventa traccia di sangue sul dorso della Senna: era il 1970. (d.b.)

L’epistolario di Paul Celan con Erich Einhorn è esaltato da un inchiostro di Sophie Ko

**

Moisville par Nonancourt (Eure), 10 agosto 1962

Caro Erich,

spero che i miei libri ti abbiano nel frattempo raggiunto. Come avevi chiesto tu, te li ho mandati tutti salvo la traduzione de I dodici di Aleksandr Blok, di cui non avevo più copie (ma tu hai detto che il libro si trova nelle biblioteche di Mosca – cosa che mi fa particolarmente piacere.) Alcune delle cose che ti ho spedito, per esempio il discorso di Darmstadt, non saranno sicuramente di tuo gusto né corrisponderanno a una tua visione, l’ho spedito solo perché quel discorso con tutte le sue domande senza risposta, è la dimostrazione di quanto possa essere solo l’essere umano nel sistema capitalista. Hai ragione quando dici che nella Germania Occidentale non mi hanno perdonato di aver scritto una poesia sui campi di concentramento nazisti – la Fuga di morte. Cos’hanno comportato per me quella poesia e altre simili, è un lungo capitolo. I premi letterari che mi sono stati conferiti non devono trarti in inganno: in fin dei conti sono solo l’alibi di coloro che all’ombra di quegli alibi continuano, con altri mezzi, più adatti al nostro tempo, ciò che avevano cominciato e portato avanti sotto Hitler.

Nel mio ultimo libro (Grata di linguaggio) troverai una poesia, Stretta, che evoca le devastazioni della bomba atomica. In un punto centrale viene citata per frammenti questa frase di Democrito: «Non c’è nient’altro che atomi e spazio vuoto; tutto il resto è opinione». Non ho certo bisogno di dire che la poesia è stata scritta per difendere quell’opinione, per difendere l’uomo, quindi contro il vuoto e l’atomizzazione. Non ho certo bisogno di dirti quanto mi farebbe piacere se tu volessi tradurre qualcosa di mio.

Come sta tua madre? E tua moglie? E la piccola Marina? E dove trascorrete le vacanze? Noi saremo in Normandia fino a fine settembre. E speriamo di poter trascorrere le prossime vacanze in Unione Sovietica.

Belli i dischi che mi hai mandato. Di’ per favore a Samuil Maršak che io stimo moltissimo la sua opera.

Vi salutiamo di cuore!

Paul

Se tu, come mi hai proposto, mi indicherai di tanto in tanto un giovane poeta sovietico, te ne sarò grato. – E dimmi anche, te ne prego, dove nelle traduzioni ho interpretato male.

*La lettera è tratta da: Paul Celan/Erich Einhorn, “Tu sai cosa sono le pietre…”, a cura di Anna Ruchat, Prova d’Artista / Galerie Bordas, 2020

Gruppo MAGOG