11 Ottobre 2021

“Ero attratto dall’odore del tempo”. Patrick Modiano

Quando ritorna, impassibile, improvviso, il passato tiene sotto ricatto. “Gli spettri non hanno paura di mostrarsi in pieno giorno… il modo migliore per renderli innocui, per aggiogarli, è scrivere un romanzo”, scrive Patrick Modiano, cartografo di silenzi, autore che filtra le parole fino al sussurro, a un’etica di lago. Nobel nel 2014 “per l’arte della memoria con la quale ha evocato destini umani inesplicabili” – sulle motivazioni del Nobel si potrebbe scrivere un romanzo di menzogne rifratte, di ambiguità da capodoglio – Modiano è un poligrafo, è scrittore di costanza bizantina, che scrive a pelo d’acqua. L’ultimo libro, appena edito da Gallimard, ruota intorno a una parola, Chevreuse, che costituisce una specie di spia, di grimaldello, l’ago che tormenta Bosmans, il protagonista. Senza ragione apparente, Bosmans è tormentato da immagini del suo passato remoto, spesso dettagli, che appunta su un quaderno, sperando, prima o dopo, di dare forma al puzzle da incubo. “L’infanzia è quel periodo della nostra vita che resterà in parte sconosciuto, spesso enigmatico”, ha detto Modiano. La ricostruzione del passato – il romanzo è costellato di orologi, specchi, ombre – accade con tensione sibillina, scrittura ferma, cauta. Ora pubblicato da Einaudi, Modiano, classe 1945, amico di Raymond Queneau, che lo introduce alla letteratura – ma ha scritto anche per il cinema, per Louis Malle, e ha firmato alcune canzoni per Françoise Hardy –, è stato scoperto e pubblicato, in Italia, da Rusconi (I viali di circonvallazione, Villa Triste, Via delle Botteghe Oscure). Questo ultimo libro, sorretto da una citazione di Rainer Maria Rilke, insegna come i nomi, risorti dai reflui del passato, possano essere ancora pericolosi, convertiti in minaccia. “Quando correggo un manoscritto, non aggiungo mai nulla: cancello, piuttosto. Questo crea delle lacune nel silenzio”. Una specie di codice per disciplinare la scrittura.

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Bosmans si ricordò che una parola, Chevreuse, era entrata nella loro conversazione. E che quell’autunno una canzone passava spesso alla radio, interpretata da un certo Serge Latour. L’aveva ascoltata in un piccolo ristorante vietnamita deserto, una sera, in compagnia di “Testa di morto”.

Douce dame

Je rêve souvent de vous…

Quella sera, “Testa di morto” aveva chiuso gli occhi, apparentemente disturbata dalla voce dell’interprete, dalle parole della canzone. Quel ristorante, con la radio sempre accesa su una mensola, si trovava in una strada tra Maubert e la Senna.

Altre parole, altri volti, perfino alcuni versi letti a quel tempo, esplodevano nella sua testa – versi così numerosi che non riusciva a contenerli tutti: “Il ricciolo dai capelli castani…”; “…dal boulevard della Chapelle, la bella Montmartre e Auteuil…”. Auteuil. Il nome gli pareva divertente, diverso. Auteuil. Ma come mettere in ordine questi segni, questi richiami in codice Morse che gli giungevano da oltre cinquant’anni fa, e trovare un senso?

Annotava i pensieri che gli trapassavano la mente. Di solito la mattina o nel tardo pomeriggio. Un dettaglio che ad altri sarebbe parso ridicolo per lui era decisivo. Ecco: dettaglio. La parola ‘pensiero’ non c’entrava nulla. Era troppo solenne. Una quantità di dettagli si agglutinavano nel suo quaderno blu, a prima vista senza alcun legame uno con l’altro, incomprensibili a qualsiasi lettore casuale, a causa della loro brevità. Più si accumulavano sulle pagine bianche e parevano sconnessi, più – ne era certo – avrebbe avuto modo di sistemarli in seguito. Il loro carattere d’improvviso vago, futile, non doveva scoraggiarlo.

Il suo professore di filosofia, una volta, gli aveva insegnato che i diversi periodi della nostra vita – infanzia, adolescenza, mezza età, vecchiaia – corrispondono ad altrettante morti. Lo stesso vale per i frammenti di ricordi che cerca di annotare il più velocemente possibile: alcune immagini riguardano un periodo della vita che è passato, fino a svanire nell’oblio.

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Chevreuse. Forse questo nome attirerà tutti gli altri, come una calamita. Bosmans ripete a bassa voce: “Chevreuse”. E se tenesse in mano il filo che gli consentirà di ricostruire l’intero rocchetto? Ma perché Chevreuse? In uno dei libri che aveva sul comodino, esisteva in effetti una duchessa di Chevreuse, appare, fatua, tra le Memorie del cardinale di Retz. Una domenica di gennaio, in quegli anni lontani, scendendo da un treno affollato che veniva dalla Normandia, aveva dimenticato su un sedile del compartimento il volume in carta importante e copertina bianca – sapeva che nulla lo avrebbe consolato per quella perdita. La mattina dopo era andato alla Gare Saint-Lazare, aveva vagato per la galleria dei negozi, aveva trovato l’ufficio oggetti smarriti. L’uomo allo sportello gli aveva subito consegnato le Memorie del cardinale di Retz: il volume era intatto, con il segnalibro rosso ben visibile, che segnalava dove aveva interrotto la lettura, il giorno prima, sul treno.

Aveva lasciato la stazione, infilando il libro in una delle tasche del cappotto, per paura di perderlo di nuovo. Una soleggiata mattina di gennaio. La terra continua a girare e i passanti marciano sereni intorno a lei – almeno, così gli pare.

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A Montmartre, in quegli anni, aveva incontrato, era pomeriggio, Serge Latour, quello che cantava Douce dame. Questo incontro – appena una manciata di secondi – era un dettaglio talmente infimo nella sua vita, che Bosmans si chiese come mai se lo ricordasse.

Perché dunque Serge Latour? Non gli aveva parlato – e cosa avrebbe potuto dirgli? Che una sua amica, “Testa di morto”, aveva l’abitudine di canticchiare quella canzone, Douce dame? Gli avrebbe dovuto chiedere se per il titolo di quella canzone si era ispirato a un poeta e cantore del Medioevo, Guillaume de Machaut. Tre dischi quarantacinque giri per Polydor, nello stesso anno. Da allora, ignorava che fine avesse fatto Serge Latour. Poco dopo quell’incontro fortuito, aveva sentito da qualcuno che Serge Latour “stava viaggiando in Marocco, Spagna, Ibiza”, come andava di moda all’epoca. Quell’osservazione, tra il frastuono delle parole, era rimasta sospesa per sempre, la sentiva ancora oggi, dopo cinquant’anni, tagliente, con la stessa intensità di quella notte, pronunciata da una voce rimasta, per sempre, anonima. Già, che ne è stato di Serge Latour? E di quella ragazza che abbiamo chiamato “Testa di morto”? Bastava pensare a queste due persone per renderlo ancora più sensibile alla polvere – o meglio, all’odore – del tempo.

Patrick Modiano

 

 

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