03 Marzo 2022

“Vedo di fronte a me un mondo sempre più squallido”. Per Pier Paolo Pasolini

Purché tu non ne esca indenne. Attacca, pasolinianamente, così, “Pasolini, perché a volte ho l’impressione di averti conosciuto?”, e ha ragione, Alessandro Gnocchi: chiunque abbia letto Pasolini se lo vede davanti agli occhi, muso da angelo vampiro, corpo nudo, a dieci, cento, mille zampe, indecente. Pasolini, in effetti, non si legge, lo si conosce: ti morde la faccia, arma le unghie, perfora gli zigomi, ti entra dentro, dalle narici, dall’iride, dal retro; ti invade. Tutti, leggendolo, abbiamo pensato di averlo conosciuto, Pasolini: ha preso a schiaffi e a baci la nostra infanzia. Questo è il prodigio, sconvolgente: il corpo morto di Pasolini è un armadio, è corpo-utero, dall’infinita fecondità; esiste un Pasolini per chiunque lo legge, lo elegge, un Pasolini è seduto sul tavolo, ora, mentre stai leggendo questo articolo, e ti intreccia i capelli. Il libro pasoliniano di Alessandro Gnocchi, un tributo alla giovinezza, screanzata, con la fionda nella tasca dei pantaloni, parla, per lo più, di viaggi in automobile lungo strade laterali, spesso “nebbiose”, di “cascine grandiose nella loro povertà”, di “un mondo marginale, affacciato sui campi, ma ormai a un passo dalla grande città in espansione”.

È un inseguimento, ecco. Gnocchi si mette alla cerca del suo Pasolini, il donzel, il Rimbaud friulano, l’apolide bolognese, il ragazzino a Cremona, e non ha paura di scrivere nel fango, di correre a quattro zampe. Per fortuna PPP. Le Piccole Patrie di Pasolini (La Nave di Teseo, 2022) non è un libro su Pasolini, non è un libro per Pasolini, non è un saggio esegetico, da gastrite lirica, né un affresco biografico; è un libro politico, questo, semmai, dunque che trama una poetica, che marca le identità – nel sale del linguaggio, però, ebbri reazionari del sogno, Casarasa che si mesce a Machado, Gramsci che si fonde a Rimbaud – contro la marcia marcescente del globale, del polittico consumista, dello zoo plutocrate del progresso. Soprattutto, è un libro affettivo; consapevole che la nostalgia si cova tra i denti, radicata nella rabbia, nel desiderio, il rapace.

Segno alcune cose che, con le fenici nel paniere, mi hanno colpito più di altre. a) I rapporti tra Pasolini e Caravaggio con la mediazione di Longhi (pagina 43 e ss.): nudità chiaroscurale di PPP, il sublime nell’abiezione; b) Il legame tra Pasolini e Gianfranco Contini (maestro, padre, il primo che riconosca la poderosa, plateale precocità di PPP), che si sigilla in quel primo incontro, nel 1946, “non credo di aver mai assistito a un tale spiegamento di timidezza”, ricorda il grande filologo; c) L’intervista concessa a Enzo Biagi, in onda su Rai 2, il 27 luglio del 1971: “Vedo di fronte a me un mondo doloroso e sempre più squallido”, dice, tra le altre cose, PPP, e poi: “La parola speranza è completamente cancellata dal mio vocabolario. Continuo a lottare per le virtù parziali, ora per ora, ma non mi pongo programmi a lunga scadenza. Diciamo: vivo un giorno per l’altro, senza quei miraggi che sono alibi, ecco… Sul piano esistenziale io sono un contestatore globale. La mia disperata sfiducia in tutte le società storiche, mi porta a una forma di anarchia apocalittica”.

Poi, certo, c’è la morte, infame, del fratello Guido, partigiano della Osoppo ucciso dai comunisti delle Brigate Garibaldi; ci sono le accuse, nel ’49, “per atti di libidine in luogo pubblico”, e poi luoghi, ampie desolazioni, svolte, e i bar e la provincia agricola e veli di nebbia che radicano una propensione all’esotico, la giungla in Padania.

Il libro di Gnocchi mi manda alla memoria, mai registrata nei testi che contano, di Giancarlo De Carolis: s’intitola “Ricordo di Pier Paolo Pasolini studente in un campeggio invernale a La Villa in Val Badia, 1939”. Il discorso, più che altro un racconto, pronunciato nel 1985, mi fu donato da De Carolis, anni fa, in dattiloscritto. Classe 1923, morto nel 2018, De Carolis è stato medico di fama in Romagna, artista per diletto – privilegiava l’arte dell’incisione e tra tutti amava Ernst Kirchner e Max Klinger –; la moglie, Giuliana Mazzarocchi, pittrice, era stata allieva di Giorgio Morandi, a Bologna, anche lui lo aveva frequentato; d’altronde, lo zio del ‘Deca’, come lo chiamavano in città, era il sommo Adolfo De Carolis, incisore di genio, che aveva illustrato le poesie di Pascoli e di D’Annunzio. Beh, nell’inverno del ’38 il ragazzo De Carolis conosce al “Galvani” di Bologna Pasolini, “in perfetta divisa del GUF: sahariana nera con spalline azzurre, fazzoletto pure azzurro al collo, calzoni grigi da cavallerizzo, stivali neri… di un anno più anziano di me, a causa di una mostruosa (così allora mi pareva) attitudine allo studio, a furia di saltar classi, si era trovato all’Università precocissimamente… Io l’osservavo con un misto di ammirazione e di antipatia, lo confesso… Tuttavia ho osservato il PPP per tutta la durata del soggiorno a La Villa con una specie di attrazione che mi derivava da un’oscura coscienza di sentirlo ‘diverso’. Diverso non nel senso che verrà dato poi a questo termine, ma un uomo che avrebbe potuto lasciare un segno di sé”. Il contesto è una gita tra Natale e l’Epifania, organizzata dal GIL (Gioventù Italiana del Littorio) per gli studenti; costo: 200 lire. Pasolini, inevitabilmente, affascina gli studenti, “narrando le avventure del suo Friuli, che sembrano fiabe… Tacciamo non per riguardo, ma per l’interesse che suscita con le sue parole che ci sembrano nuove, così lontane da tutta la retorica che ci viene ammannita in un frastuono di propaganda urlata, ogni giorno… Ricordo: PPP parla, fluidamente, convinto, lasciando da parte quella eterna posa di superiorità che m’infastidiva tanto. Si distende in una rievocazione di una realtà che amava, la realtà della terra di cui era originario”.

Il flash più intenso accade una sera: dopo la giornata passata a sciare, il gruppo di studenti è sul sentiero, verso il villaggio. “La neve scricchiola sotto gli scarponi, fa freddo ed il cielo è stellato come sa essere solo in montagna”. Pasolini si ferma, si congeda dai ragazzi, “evidentemente colpito da quella luce notturna”, preferisce stare da solo, diverso e distante. “Non vuole perdere il contatto magico con una natura assoluta, cosmica, dalla quale si sente avvinto, avvolto. Teme probabilmente che lo spettacolo possa essere turbato dal chiacchiericcio di noi ragazzi”. Chissà perché, questa immagine – Pasolini trafitto dalle stelle, circonciso dalla caducità – la associo alla postfazione con cui PPP ‘spiega’ Trasumanar e organizzar. “La libertà è ‘intollerabile’ all’uomo, che si inventa mille obblighi e doveri per non viverla”, scrive Pasolini, e poi, in forma di principio assoluto: “Resistere contro ogni tentazione di letteratura-azione o letteratura-intervento, attraverso l’affermazione caparbia, e quasi solenne, dell’inutilità della poesia”. Nel cerchio di questi magnetici aggettivi – caparbia, solenne – vive la poesia; inutile, come il cielo stellato. Che drastica e scelta sia la solitudine del poeta, senza fini, sconfinata, è un fatto: ciascuno ha la propria notte, alcuni ne bevono fino a sgozzarsi.

 

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