27 Aprile 2022

“Un enorme palo di muscolo”. Omaggio al “Padrino”: ottimo film, pessimo libro

È tempo di anniversari (perché in realtà è sempre il tempo di qualche anniversario). Ricorre quest’anno il cinquantesimo del Padrino, inteso come il film di Coppola, uscito al cinema nel marzo del 1972. Immaginata dai produttori della Paramount come un film di genere – nella speranza che diventasse un film di cassetta –, la pellicola si strapperà immediatamente di dosso quella stretta veste. Otterrà, sì, un successo enorme, ma si capisce fin da subito che si tratta di un film nato per l’Olimpo della celluloide. Con conseguente corollario di scene da ripetere a memoria ed espressioni ormai di uso comune: l’offerta che non si può rifiutare e la testa di cavallo, andare sui materassi, il pupo e i pezzi da novanta. Se ne potrebbe ricavare un florilegio. In qualche caso, poi – ma qui si parla di Italia – le cose hanno preso una piega impensabile e del tutto ingiustificata. La leggendaria voce di Don Vito Corleone, interpretato da Marlon Brando, è ormai qualcosa che fa icona a sé. Del tutto a sproposito, dal momento che nell’originale inglese Don Corleone non parla affatto con una voce così carica e caricaturale (ascoltare per credere).

E ancora: meglio il primo film del Padrino oppure il secondo? Un dubbio che al cinema non è capitato di sciogliere così spesso, visto il numero di sequel bruttissimi che sono stati girati per sfruttare ancora un po’ il successo del primo film. (I soliti bene informati sostengono addirittura di avere le prove dell’esistenza di un Padrino parte terza. Avendolo visto, possiamo garantire che non è affatto vero, non esiste alcun terzo film del Padrino).

Una questione che invece nessuno sottolinea mai – non si sa se in quanto non possa essere considerata dubbia, oppure perché nessuno la affronti e basta – è che in questo caso, diversamente da mille altri, non ha senso la fatidica domanda: meglio il libro o il film? (E rispondere che è meglio il libro, si sa, fa sempre apparire come gente di cultura, che approfondisce, non si limita a considerare banalmente soltanto quel che offre il cinematografo).

Il rapporto tra letteratura e cinema è sempre stato piuttosto complicato, e resta irrisolto. Certo, siamo abituati ai film tratti da libri importanti. Quasi sempre, però, l’esito è discutibile, spesso sconfortante. Puoi anche avere Gregory Peck nella parte di Achab, ma quella roba non ha niente a che fare con Moby Dick, se non per un vago richiamo alla trama. Ogni tanto qualcuno ha tentato – e tenterà ancora, sicuro – di cavare un film dalla Ricerca del tempo perduto, ma non si può cavare un film da Proust. Quel che sta davvero dentro il libro non può emergere dal rifacimento di balli in costume dalle principesse o dal racconto più o meno fedele di un adolescente attaccatissimo a mamma e nonna e innamorato prima di una ragazzina e poi di un’altra. Se Proust fosse tutto qui, sai che gran libro. Sì, certo: Il Gattopardo, Shining, mille altri. Anche in questi casi, però: o il film restituisce poco più della semplice trama – ed è il caso del Gattopardo, nonostante tutta l’attenzione messa nel corretto rifacimento storico –, oppure il libro viene talmente metabolizzato da un grande regista da diventare una cosa in larga parte diversa. Ed è il caso di Shining, oltre che del Padrino. (Saltiamo a pie’ pari la Bibbia – ci hanno provato anche con lei, al cinema. Non vale nemmeno la pena parlarne).

Quanto al Padrino, però non c’è nessun grande libro che funzioni come premessa, anzi. E quindi interessa parlare di un fatto notevole: come ha fatto un film del genere ad uscir fuori da un libro tanto brutto? Come è stato possibile il processo – occorre dirlo, a malincuore: veramente alchemico – che ha cavato fuori oro dal fango? O meglio, come diceva quello: com’è che al cinema può capitare che dai diamanti non nasca niente, mentre dal letame nascano i fior?

Perché il libro di Mario Puzo è davvero bruttissimo. Uscito nel 1969, negli anni è divenuto un vero best-seller – ovviamente anche trascinato dal successo del film –, e resta un testo esemplare per spiegare i difficili, se non impossibili, rapporti tra due Arti tanto diverse. Certo, i personaggi sono quelli, le scene capitali (più o meno) pure. Esistono digressioni e storie secondarie che al cinema, per fortuna, sono state tagliate: ma questo è normalissimo. Il fatto è che si tratta di un libro scritto male. In certi passaggi anche malissimo, oltrepassando largamente i limiti del ridicolo.

Le scene di sesso di Sonny, ad esempio, fanno sembrare 50 sfumature, al confronto, un’opera di Nabokov: “La mano le si chiuse intorno a un enorme palo di muscolo gonfio di sangue. Le pulsava fra le dita come un animale e, quasi piangendo con estasi riconoscente, lo diresse verso la sua umida, turgida carne. Il colpo nell’entrare, l’incredibile piacere, la fece rimanere senza fiato; portò le gambe quasi intorno al collo di lui, e allora, come una faretra, il suo corpo ricevette le selvagge frecce dei colpi, innumerevoli e torturanti; arcuando il bacino sempre più in alto, per la prima volta nella sua vita raggiunse uno struggente orgasmo; sentì la durezza ammorbidirsi e il caldo flusso dello sperma colare sulle cosce. Lentamente le gambe si staccarono dal corpo di lui e scivolarono finché raggiunsero il pavimento. Si appoggiarono l’uno all’altra, senza fiato”. Va bene, scrivere di sesso non è così facile. Scriverne peggio di Puzo, però, è altrettanto difficile: il palo di muscolo, le selvagge frecce dei colpi… Chissà se è un fatto di editing mancato oppure troppo scadente.

Michael Corleone in estatica contemplazione della Sicilia di suo padre e dei suoi avi? “Era talmente bella che si domandava come la sua gente potesse sopportare di lasciarla. Quanto crudele doveva essere l’uomo verso il suo simile, se si doveva giudicarlo dal grande esodo da quello che sembrava essere il giardino dell’Eden”. Al di là della maldestra scenetta bucolica, attribuire a Michael Corleone tutta quella sorpresa sulla crudeltà ontologica dell’essere umano appare perlomeno inconferente.

Se, tra il serio e il faceto, negli anni Il Padrino è diventato un citato e prezioso manuale di psicologia comportamentale per aspiranti leader (pare che anche Saddam ne andasse matto), va detto che non proprio tutte le analisi psicologiche appaiono così sofisticate e pertinenti: “Le donne detestano vedere i loro uomini avere troppo successo. Le irrita. Le rende meno sicure dell’influenza che, attraverso l’affetto, le abitudini sessuali o i legami matrimoniali esercitano su di loro”. Diciamo piuttosto che storia e cronaca abbondano di esempi di donne disposte – veramente – a tutto, pur di inverare l’idea che dietro il successo di ogni grande uomo si nasconde una grande donna.

In altri casi, invece, bisogna benedire i tagli cinematografici, perché nel film Vito Corleone non muore così: “Con enorme sforzo il Padrino aprì gli occhi per guardare il figlio ancora una volta. Il duro attacco cardiaco aveva reso cianotico il volto rubicondo. Era alla fine. Sembrò fiutare l’aria, l’alone giallo di luce gli ferì gli occhi. Sussurrò: «La vita è così bella»”. Neanche Marlon Brando avrebbe mai potuto conferire una qualche epica a un Padrino che muore biascicando una cosa del genere.

Alcune spiegazioni di carattere storico, poi, appaiono peggio che ridicole: “Quando la Sicilia fu liberata dagli eserciti alleati, gli ufficiali del governo militare americano credettero che gli imprigionati dal regime fascista fossero dei democratici, per cui molti mafiosi furono nominati sindaci di villaggi o interpreti dell’esercito. Il colpo di fortuna mise la mafia in grado di ricostituirsi e divenire più forte di prima”. Sostenere che quello fu un colpo di fortuna, e non piuttosto il frutto di un accordo cercato e voluto, primi fra tutti, da governo ed esercito americano in quanto tatticamente utilissimo, oltre a far sorridere gli storici, rende bene il valore del libro. Come siano andate davvero le cose, tra l’altro, era già notissimo anche negli anni Sessanta. (Nel film, invece, la mafia non viene mai nominata, pare in deferente rispetto degli accordi con uno dei capofamiglia di New York – in Italia adesso ci monterebbero subito sopra un processone).

I nomi dei personaggi secondari, poi, fanno spettacolo a sé: Amerigo Bonasera, Rocco Lampone, Anthony Stracci, Ottilio Cuneo… Se siete magnanimi, vi potranno magari sembrare nomi desueti, forse copiati da qualche lapide in ricordo dei morti della Grande Guerra; se lo siete meno, avrete la sensazione di trovarvi di fronte a nomi propri incrociati a casaccio con parole del nostro vocabolario e toponimi strappati via dalla cartina geografica italiana.

Si dirà: ma Puzo è stato anche co-sceneggiatore del film, insieme a Coppola. Il che è vero. Tuttavia, a parte il fatto che nessuno sa bene cosa davvero stia dietro quel “co-” e quale sia stato, in concreto, il suo reale apporto (a parte la condivisione degli utili in quanto co-sceneggiatore), il sospetto che la grandezza derivi tutta dal genio di Coppola è giustificato. Per fare un esempio (eclatante), l’eliminazione in simultanea dei capofamiglia newyorchesi ostili ai Corleone è organizzata mille volte meglio nel film, quando la stessa avviene durante il battesimo del nipote di Michael. E il montaggio alternato delle immagini della cerimonia con quelle delle esecuzioni dà vita a una delle scene più memorabili del film. Nel libro le scene sono separate: si accenna qualche pagina prima alla cresima del bambino, e poi si procede con gli omicidi – l’emozione non è proprio la stessa.

Puzo insomma ha messo di suo il materiale che aveva a disposizione in casa, ma che non aveva saputo dominare e dal quale aveva ricavato un libro appena mediocre. Fortuna ha voluto – o il caso, il Fato, quel che si vuole: il film era già stato rifiutato da registi all’epoca più famosi, tra i quali Leone, Bogdanovich ed Elia Kazan – che quel materiale finisse in mano a Coppola. E qui tutto è cambiato, perché è intervenuto il talento del regista, oltre alle musiche di Rota e alla grande prova di attori già giustamente celebrati come mostri sacri, qui ancora in stato di grazia, mischiati a giovani attori più o meno sconosciuti che hanno segnato il proprio destino anche grazie a questo film, vedi Duvall, Cazales, Al Pacino, così come poi accadrà per De Niro con il sequel.

A ulteriore conferma che la letteratura è una cosa e il cinema tutta un’altra. Molto banalmente, quand’anche sembrano comunicare la stessa cosa, in realtà restituiscono cose molto diverse – e questo del Padrino è solo un esempio tra i tanti.

Cino Vescovi

NOTA: Le citazioni sono tratte dall’edizione Il Corbaccio, 2000, trad. it. di Mercedes Giardini

 

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