È una strana sensazione essere praticamente in totale accordo con Paolo Flores d’Arcais. La cosa è facilmente spiegabile una volta preso atto che il suo Questione di vita e di morte (Einaudi, 2019) non aggiunge e non toglie niente all’annoso dibattito sul fine vita. Il giornalista-filosofo si limita a riprendere le tesi espresse in centinaia di articoli suoi e di tanti altri – persino Feltri, che pure non gli è propriamente assimilabile sul piano ideologico, sottoscriverebbe probabilmente dalla prima all’ultima riga del testo. E, in effetti, sarebbe bastato un articolo un poco più lungo della media – diciamo un pezzo da Almanacco di Micromega – per esplicitare il suo pensiero, invece di allungare il brodo fino a mettere su il numero minimo di pagine per dare vita a un pamphlet.
La tesi avanzata, al netto di ripetizioni, ridondanze e un ammorbante affastellamento di esempi, è presto detta. A meno di non tirare in ballo una presunta volontà divina, nessuno può decidere per me quando sia giunto il momento di porre fine alla mia esistenza. Se la sofferenza fisica si è oramai fatta intollerabile, è assurdo chiedermi di prolungarla, magari per la balzana convinzione che Dio voglia pormi al cospetto di una prova. Si lasci libertà di scelta. E, fin qui, è abbastanza chiaro a qualunque laico che la tesi espressa non fa una grinza. Visto che la medicina lo permette, è sadico domandare a chi soffre, se lo ritiene opportuno, di non restituire anzitempo la vita al nulla da cui è stata tratta. Del resto, come giustamente si fa notare nell’opera, le argomentazioni contro il suicidio sono tutte posate su fondamenta incerte, su sovrastrutture antropologiche (“la mia vita appartiene a Dio”, “Non dispongo a mio piacimento della mia esistenza perché sono un essere in relazione agli altri”). Tanto più che il lavoro in questione non è certo un’apologia del suicida sui generis. Si sta parlando di persone gravemente malate, anzi destinate alla morte nel giro di un tempo limitato. Che Piergiorgio Welby, per esempio, avesse tutto il diritto di dire no a un’esistenza ormai ridottasi a una condanna è questione su cui ci vuole anche un certo coraggio ad avanzare delle riserve – soprattutto se non ci si trova confinati, come lui, su un letto.
D’Arcais ha inoltre ragione nel far notare che in fin dei conti è da lungo tempo che l’uomo non si limita a far fare alla natura il suo corso. Senza antibiotici, molti di noi sarebbero andati al creatore – o più probabilmente sarebbero tornati al caro vecchio Nulla Eterno. Non si capisce quindi perché non si possa intervenire artificialmente sulla malattia terminale, per porre fine alle sofferenze. Volendo poi essere radicali fino in fondo, ci si potrebbe interrogare, come faceva Pasolini, su quanto sia degna di essere vissuta una vita che deve sé stessa a un consistente apporto di medicinali e all’intervento umano, per esempio chirurgico. Il poeta di Le ceneri di Gramsci non aveva tutti i torti a dire che il mondo è pieno di persone consapevoli di non essere destinate alla vita dalla Natura stessa. Per semplificare e forse essendo un poco brutali nella versione in prosa: la vita umana afferma sé stessa quando dotata naturalmente di quella potenza che glielo consente, altrimenti perisce. Se così non accade, si protrae da usurpatrice, sapendo di occupare un posto nel mondo che normalmente non le spetterebbe. La questione è chiaramente molto controversa e l’istinto di sopravvivenza trova forse una delle sue manifestazioni anche nelle cure mediche che nei secoli abbiamo sviluppato. Certo, la suggestione pasoliniana, comunque, resta come un inquietante e abissale interrogativo.
Sono meno propenso a dare ragione a d’Arcais per la sua indignazione contro la Chiesa Cattolica che, ostinatamente, porta avanti la sua battaglia antiprogressista. Premesso che anche al suo interno le posizioni sono variegate e sulla questione la Bibbia non è chiara: un credo è un credo e non è una filosofia. La parola di Dio – ammesso e non concesso che ve ne sia una in merito – non si discute come un qualunque ragionamento filosofico, se si è credenti. Quindi è del tutto normale che, come sulla questione dell’aborto, la Chiesa abbia dei valori non negoziabili. Anzi, direi che, in ambito di fede, non esiste proprio niente di negoziabile. La religione, qualunque religione, è in ultimo eversiva anche contro la stessa democrazia, incompatibile a qualsivoglia legge umana. Se credo e Dio mi comanda di uccidere mio fratello, o di fare una strage, io devo farlo e non c’è limite sociale che tenga. Va da sé, non per niente, che la religione è fanatismo – sia detto in senso positivo. Altrimenti si cade nella secolarizzazione e nella postmodernità più fluida, finendo per essere, come Papa Bergoglio, più fenomeni pop che uomini di Dio.
Per concludere, il discorso del Direttore di Micromega, come tutti i discorsi ideali, conosce un grave limite. Sulla carta, quanto dice è sacrosanto. Bisognerebbe poi vedere l’applicazione pratica di questi principi – e più che mai in Italia. Quando si è sentito dire – mi pare in Olanda – che bisognerebbe limitare le cure per gli over 70 e quando, più in generale, ci si rende conto di una preoccupante tendenza a ridurre il budget per le spese mediche nelle varie nazioni, il sospetto nasce spontaneo: e se, con una scusa o con l’altra, magari quella che non ci sono più soldi per pagare le pensioni, qualche esistenza venisse bruscamente accelerata anche contro la sua volontà? Come diceva la buon’anima – quel politico che non sarà stato certo un filosofo, ma aveva ben chiaro come va il mondo –, a pensar male si fa peccato, ma non si sbaglia quasi mai.
Matteo Fais