Si può scrivere un libro per consigliare alle persone di non scrivere libri? Si può scriverlo per gli sterminati eserciti di aspiranti scrittori e poeti che scrivono ma non leggono?
Paolo Bianchi è un recidivo. Idealista, testardo e incorreggibile. Nel 2016 scrisse un libro, Inchiostro antipatico. Manuale di dissuasione dalla scrittura creativa (Edizioni Bietti), in cui spiegava che gli scrittori sono tanti e i libri pubblicati forse troppi. Quel tentativo, consciamente vano, non deve avere persuaso molti di quelli che continuano a scrivere e sono disposti a tutto per farsi pubblicare, anche pagando. Ma Bianchi, ve l’ho detto, è un ostinato (in certi casi l’ostinazione è una virtù). Perciò ha sentito l’urgenza di pubblicare un altro saggio, dal titolo vintage, Dell’inutilità della scrittura (Editrice Bibliografica), per ribadire che occupare altro spazio con tonnellate di carta che trovano subito la via del macero è uno spreco di tempo, di fatica e di risorse. Ma chi lo ascolterà? Temo nessuno. Perché i suoi libri sono arguti e divertenti, ma per funzionare da buon medicamento (dell’orgoglio, della vanità, della sopravvalutazione di sé stessi) dovrebbero essere letti da chi abitualmente legge poco o niente, cioè dagli aspiranti e vanesi scrittori, troppo occupati a scrivere. (Francesco Consiglio)
Gli aspiranti scrittori sono sempre di più. Comprendo l’innato desiderio di esprimersi in forma artistica: è così da quando l’uomo primitivo incideva graffiti sulle pareti delle caverne. Ciò che non capisco è perché un giovane di vent’anni debba sognare di fare lo scrittore e non il musicista trap o l’influencer, che danno molti più soldi e fama.
Infatti sogna varie cose, come andare in televisione o vincere una gara di talenti o diventare virale su Instagram. Io dei sogni dei ventenni conosco poco. Immagino che a spingere molti a scrivere un libro siano due motivi: esprimersi al di fuori della propria cameretta, rivolgendosi a un pubblico di simili, per un bisogno di condivisione, e poi ottenere un riconoscimento sociale nella forma di un oggetto cartaceo, tangibile, che può essere autografato. Sono le stesse motivazioni di sempre, però adattate alle nuove forme tecnologiche e di comunicazione.
Oggi se un giornale vuole un parere su un fatto di grande risonanza sociale va a intervistare Fedez.
Sì, Fedez (con il quale condivido solo il codice di avviamento postale) e consorte, e più avanti anche i figli, anzi un po’ già adesso. Quei due, o tre o quattro sono un’azienda che propaga la rassicurante mediocrità di un’opinione già scontata. Non ho mai sentito costui dire nulla di scandaloso, la sua opinione poggia sempre su un terreno sicuro, è frutto di un’indagine di mercato. Viene confezionata di volta in volta in modo da compiacere i suoi acquirenti e venire avversata da quelli che non lo guardano in tv, né lo seguono sui canali sociali, né ascoltano la sua musica. È un “dico quello che vuoi, basta che mi paghino”. Il che sottintende che solo chi riesce a far soldi ha ragione.
Il campo editoriale mi pare sempre più una nicchia amplificata dai social. Finita l’intervista, scendo in strada e chiedo al primo che passa chi ha vinto lo Strega. Scommettiamo che non lo sa?
Lo Strega, così come molti altri premi (ammesso che i premi abbiano ragione di esistere, non vedo perché ci debba o possa essere qualcosa di competitivo nella scrittura) è l’incarnazione dei clan intellettuali, delle camarille e delle bande semiarmate che imperversano nell’editoria, nell’università, negli istituti di cultura, nelle emittenti di stato. Basta vedere come sono formate le giurie. È gente che tuttavia incide solo superficialmente sui gusti del popolo, di cui peraltro ha orrore. Lo Strega lo ha vinto un certo Jonathan Bazzi, un esordiente con cui la vita è stata poco generosa e che andava risarcito proprio da coloro che si fanno paladini dei deboli, mettendoseli all’occhiello nelle cerimonie pubbliche, possibilmente in diretta televisiva. Infatti è stato inserito all’ultimo, sesto rispetto alla cinquina dei finalisti. Come diceva Eduardo De Filippo, “Mettiti un povero al fianco, ci camperai tutta la vita”.
Se il problema è essere letti, allora è meglio pubblicarsi da soli, mettere la propria opera sul web, così anche la Sora Peppa può leggerla. L’alternativa è un esercizio di crudeltà che fa invidia al barone von Masoch: cedere i diritti a qualcuno che in cambio di una royalty del 2% (con franchigia a 400 copie) si guarderà bene dal promuoverti, e anche se volesse, non ha i soldi per farlo.
Come diceva il mio amico Andrea Pinketts, oggi tutta l’editoria è a pagamento. Vieni pubblicato solo se garantisci almeno un ritorno della spesa, perciò l’autore deve vendere sé stesso prima che il suo manoscritto. Nel pubblicarsi da soli si può gustare il piacere dell’indipendenza da un risultato economico. Però, privati dell’ombrello di un marchio conosciuto e di un’adeguata distribuzione, si rischia di non essere notati.
Ogni tanto nascono dei movimenti di protesta editoriale e cominciano a dire che l’editoria è mafia e bla e bla e bla. Ma alla fine chi vi fa parte ha il sogno di pubblicare con quelle stesse case editrici che addita come il cancro del sistema. Si nasce incendiari e si finisce pompieri. O in certi casi fortunati, pompinari. E allora di che stiamo a parlare? È solo vanità di vanità.
Lo è. Vanità e narcisismo. I movimenti letterari sono il tentativo di far fiorire nuove cricche, nuovi circoli in cui aiutarsi a vicenda. Non che ci sia nulla di male, però se l’intento è solo quello, senza un’idea letteraria e di contenuti alla base, lasciano il tempo che trovano. Anche i Futuristi facevano gruppo (salvo scannarsi fra loro ogni tanto), ma avevano una concezione molto precisa dell’arte e del messaggio che con questa volevano esprimere. Di recente abbiamo visto sorgere e morire movimenti come quello dei TQ (Trenta-Quarantenni) che si poggiava su una base anagrafica ancor più che generazionale. Un’operazione da sfigati con l’ossessione della visibilità.
I piccoli editori dovrebbero fare scouting, ma il loro ruolo è diventato quello di scrivere su Facebook prendendo per il culo gli aspiranti scrittori che mandano loro manoscritti impubblicabili. E va bene, il 99% di quei romanzi sarà merda, ma così questi piccoli editori gettano nel cesso anche la loro ragione di esistenza. Gli aspiranti scrittori dovrebbero essere le loro pepite d’oro!
Devo ammettere che alcuni li ho scoperti proprio così, seguendo le loro pagine Facebook con le goffaggini degli Aspiranti. Mi sono molto divertito. Però in fondo hanno ottenuto l’effetto di incuriosirmi sulla loro produzione, che in alcuni casi è anche molto buona. Io penso che editori che fanno scouting ce ne siano ancora, il primo che mi viene in mente è Pequod. Tuttavia è vero che il 99% e anche più di quei romanzi (o saggi, o memoir) sono illeggibili, perché poco interessanti anche nei contenuti, oltre che carenti nella forma, perciò posso capire la loro reazione a volte esasperata. Del resto, fa parte del loro lavoro. Se fai l’editore, la gente ti manda i manoscritti.
Ah, le librerie indipendenti, i librai indipendenti! Sì, è tutto più romantico, ma con un clic su Amazon ricevo il libro che desidero il giorno dopo a casa mia. Ed evito di uscire, magari piove, recarmi dal libraio, aspettare che lo ordini, nel migliore dei casi una settimana. È la modernità, bellezza, e tu non puoi farci niente.
Io sto dalla parte dei librai indipendenti, quando lo sono davvero. Purtroppo fra i molti che ho conosciuto ce n’erano di spocchiosissimi che pretendevano di imporre le proprie scelte ai clienti. E dunque non erano indipendenti, ma dipendenti dai propri gusti, spesso ideologici. Uno molto noto l’ho descritto nel romanzo Donne smarrite, uomini ribelli. Inutile dire che costoro hanno accelerato il processo della propria estinzione. Comunque qualche pazzo idealista rimarrà sempre.
Delle librerie di catena, che mi dici?
Sono dipendenti dal fatturato e dagli incassi immediati, in pratica non hanno interesse a vendere nulla che non abbiano in casa. Peccato che invece Amazon in casa abbia tutto, essendo il vero e proprio magazzino dell’editoria. Il suo sistema monopolistico è ingiusto e fastidioso, però Amazon ha anche il merito di mantenere in esistenza migliaia e migliaia di titoli che altrimenti finirebbero al macero. Anche eBay ha un po’ questa funzione. E fra le librerie, Il Libraccio, che infatti ha trovato una nicchia anche nelle Feltrinelli.
Ti sei accorto che la maggior parte degli editori non manda neppure le lettere di rifiuto? Tanti anni fa, quando l’editoria aveva un suo galateo, anche Einaudi ti scriveva due righe per farti capire perché il tuo romanzo non era pubblicabile. Oggi ti ignorano e basta. Come se a una richiesta la morosa ci dicesse: “Aspetta sei mesi, se mi vedi trombare con un altro è un no”.
Qualche decennio fa alla Mondadori c’era un “Ufficio cortesia” incaricato appositamente delle risposte ai lettori e agli Aspiranti. Oggi è impensabile, anche perché l’editoria si è impoverita, il personale è all’osso e semplicemente non ci sono il tempo e le energie per rispondere a tutti. Senza contare gli Insistenti, che per una risposta si galvanizzano e mandano una contro risposta alla quale bisognerebbe di nuovo rispondere, e così via… Non dimentichiamoci che spesso abbiamo a che fare con dei grafomani. E poi l’Aspirante è presuntuoso, dunque permaloso, e perfino vendicativo: è uno scassapalle seriale. Ti perseguita, cerca di rovinarti la vita.
L’impossibilità di stroncare. Oggi non puoi fare una stroncatura che subito ti arriva la controstroncatura. Perciò i libri recensiti sono sempre bellissimi se scritti dagli amici e fanno schifo se a scriverli è qualcuno al di fuori della tua compagnia.
Sì, è noto che gli scrittori si recensiscono fra di loro, o si intervistano fra di loro, proprio come stiamo facendo noi in questo momento.
Ah, ah, ah! Non sottilizziamo…
Si premiano anche fra di loro e si parlano addosso l’un l’altro nelle presentazioni. Un fenomeno spesso patetico e che non ha alcun effetto sui lettori.
C’è una proliferazione di corsi di scrittura tenuti da autori che hanno pubblicato poco o niente. Le scuole che dovrebbero essere serie, tipo la Holden, costano tantissimo, però almeno Baricco è sincero: ha detto che una scuola serve a conoscere i professori che sono gente del mestiere, a creare contatti, relazioni profittevoli.
Baricco ha ragione, del resto lui è un ottimo politicante, il che giova alla carriera di uno scrittore.