Che cosa è necessario sapere e che cosa invece si può ignorare della storia che ci riguarda? Non si può che rifiutare la storia come maestra di vita, come scriveva Montale: “accorgersene non serve/ a farla più vera e più giusta”. La storia è fatta di muri prima che di parole, muri che non conoscono pace. Lungo alcuni di questi muri storici si è soffermato, con lo sguardo attento della sua telecamera il regista, fotografo, documentarista e scrittore Maurizio Fantoni Minnella che, lungo le intense pagine del libro Il lato d’ombra. Visioni palestinesi (Alpine Studio, 2022) ci restituisce una visione struggente, senza pace di una pagina di storia che non finisce mai. Dalle alture del Golan al deserto del Negev e al Mar Rosso, passando attraverso realtà israeliane e palestinesi, tra luoghi sacri e grandi rovine, dai kibbutz al deserto, da Tel Aviv a Gerusalemme, per un viaggio-immersione di quarantanove giorni, un diario di lavoro, il periplo cinematografico che attraversa i luoghi di un conflitto eterno: Israele, Cisgiordania, Gerusalemme Est, Striscia di Gaza. Come straniero curioso, si è addentrato nei nodi irrisolti di una Terrasanta da cui quel Dio sembra essersene andato, lasciando un vuoto dietro sé. Muri e fili spinati, check point e le lunghe ombre dei grattacieli. Il “Muro di sicurezza”.
“Le storie ai bordi del Muro non conoscono pace, sono un continuo turbinio di sospiri, di voci di rabbia, di balbettii infantili poiché intorno al Muro nasce la vita che prosegue al ritmo delle azioni tramandate. Il Muro genera odio. Da quest’ultimo scaturisce la repressione”.
E, poi, c’è il Muro del pianto. In questa dialettica di muri religiosi si è insinuato lo sguardo di Fantoni Minnella che voleva dare una forma visiva alle riflessioni sul muro, comprendere perché un popolo come quello ebraico, che ha subito la persecuzione più atroce, possa umiliare un altro popolo, ignorandone l’esistenza. La domanda parte dall’inizio.
“Perché siamo qui? Per dimostrare che ovunque si vada, c’è sempre un muro reale o invisibile su cui piangere. Israele ne ha inventato uno agli albori del ventunesimo secolo e lo ha regalato ai palestinesi perché anch’essi possano versare lacrime e sangue. Un muro che nel tempo si copre di varchi di fortuna che sembrano barricate. Muro che si trasforma in un’interminabile narrazione di forme, colori, linee e frasi fulminee delle verità che non lasciano scampo”.
Poi sceglie e scrive e descrive lo sguardo della cinepresa: “Individuiamo due luoghi nevralgici dove filmare il muro in tutta la sua lunghezza: l’uno è Betlemme nel sud della Cisgiordania, l’altro Qalqilia, un grosso villaggio della West Bank al confine con la cosiddetta Linea Verde, chiuso su tre lati dal Muro di sicurezza e controllato dai soldati israeliani sul rimanente lato da cui entrano ed escono i suoi abitanti”. La cinepresa strappa verità e sorrisi e struggimento dai volti di chi incontra, come quello di un energico autista improvvisato che rivela: “il muro ci avvolge come un sudario”. Il muro interpella la comunità ebraica e Fantoni Minnella registra una voce del dissenso, quella di Moni Ovadia, ebreo di origine bulgara, che non arretra da una dura critica nei confronti dell’intoccabilità d’Israele rispetto alla questione palestinese e verso coloro che impediscono il dissenso verso lo stato ebraico e le sue politiche neocoloniali. Anche visitare Gaza, incontrare Vittorio Arrigoni (a cui è dedicato il libro) che verrà ucciso pochi anni dopo ha il sapore amaro di un colpo di pistola.
Fantoni Minnella, com’è cambiata la Terra Santa dal suo viaggio?
“In realtà ci furono altri due viaggi che precedettero il nostro lavoro cinematografico sul campo il cui risultato furono quattro lungometraggi, due mediometraggi e un cortometraggio dal titolo emblematico, Muro contro Muro, in cui si contrapponeva dialetticamente il muro degli ebrei con quello di sicurezza israeliano. Da allora poco o nulla è cambiato rispetto alla condizione umana e sociale del popolo palestinese. Il progressivo e destabilizzante aumento delle colonie ebraiche (settlements) in Cisgiordania, dall’ininterrotto scippo delle abitazioni palestinesi a Est di Gerusalemme, i continui raids aerei israeliani nei cieli di Gaza dove abbiamo girato uno dei nostri film, hanno via via allontanato dall’agenda politica non solo il processo di pace ma anche quello di costituzione di “due stati per due popoli”. Se esiste una nota positiva in questo disastro, questa riguarda la presenza di una minoranza (di fatto piuttosto esigua) di israeliani sinceramente schierati per la pace e quindi contro l’arroganza dei coloni e per il trattamento riservato ai palestinesi nella loro quotidianità ordinaria”.
Che impressione le ha fatto registrare le dure parole del regista Mohammed Bakri? Che cosa significa essere palestinese oggi?
“Innanzitutto è stato un onore per noi essere ricevuti nella sua casa alla periferia di Nazareth. Al di là della sua importanza come attore anche fuori da Israele (Mohammed Bakri ha lavorato con registi come Costa-Gavras, i fratelli Taviani e Saverio Costanzo), e come autore di importanti film documentari, Bakri rappresenta con coraggio, dignità e autorevolezza la coscienza critica del popolo palestinese nella sua accezione più ampia. Recentemente è stato nostro ospite, anche se da remoto, a “Poevisioni-Rassegna di cinema poesia e realtà” da me diretta, all’interno del Festival internazionale di Poesia di Genova. Se volessi accostarlo a un’altra figura di palestinese, allora, senz’ombra di dubbio, pronuncerei con emozione il nome del grande poeta Mahmud Darwish (1941-2008)”.
Come si spiegano le ragioni del silenzio che si percepisce attorno a questo tema?
“Si tratta di una domanda a cui si può rispondere in un solo modo: tutto ciò che non rientra nell’agenda stabilita dalla politica e conseguentemente dalla stampa internazionale viene sistematicamente ignorato. Oggi la causa palestinese sta veramente a cuore a pochi. E che cosa dire poi dei morti palestinesi. Dimenticati in nome di altre guerre care all’Occidente. Ignorati in quanto morti di serie B (ricordiamoci che nella logica militare d’Israele, un israeliano ucciso vale almeno dieci palestinesi!…). Del resto siamo così invasi dalla propaganda filo-sionista, quasi da poter rimuovere quei morti dalla memoria collettiva o peggio, rubricarli come incidenti necessari al ristabilimento della sicurezza e dell’ordine!”
Quali sono i muri che oggi percorrono e radicano la nostra storia?
“Innanzitutto quelli che innalziamo dentro noi stessi verso gli altri, verso chi non riconosciamo come parte della nostra comunità, cultura e religione. Quando si festeggiò per la caduta del Muro di Berlino, si pensò ingenuamente che quello fosse l’ultimo, che la “fine della Storia” avrebbe garantito un futuro di pace e di prosperità ma non fu così. Altri muri (da quello tra Israele e Territori Occupati voluto dall’allora primo ministro Ariel Sharon, a quello che separa il Messico dagli Stati Uniti, passando per quello eretto tra il Marocco e il Sahara spagnolo contro il popolo Sarawi), stanno lì a dimostrare quanto gli uomini e le nazioni siano prigionieri della propria idea di sovranità”.