22 Febbraio 2018

Il padre di tutti i romanzi “fantastici”. Riflessioni piranesiane intorno al “Castello di Otranto” di Horace Walpole

Osservando le sedici incisioni delle Carceri d’invenzione che Giambattista Piranesi realizzò tra il 1745 e il 1750, ci viene da pensare, dopo l’impatto di una inevitabile inquietudine suscitata dall’immaginario che immediatamente evoca, e, da uomini del Novecento quali ancora siamo, non potendo fare a meno di correre subito a immaginare quale impressione dovette subire Escher nell’osservarle per la prima volta, a come il sogno (e, di rimando, l’incubo) possegga, nella sua natura intrinseca, una geometria – o, meglio ancora, una architettura. Voglio dire, Piranesi, prima di ogni teoria psicanalitica, applica il suo sapere tecnico a un immaginario, a un subconscio. E cosa esprime, attraverso la tecnica, cioè attraverso la sua conoscenza dell’architettura? Che le carceri sono, prima di ogni cosa, un labirinto. Cosa significa? Che Piranesi ha attribuito a una condizione di reclusione fisica una condizione totalmente psicologica. Qui non vediamo nessun uomo chiuso nelle quattro pareti di una cella; neppure il cancello ferrato che apre una prospettiva tra dentro e fuori, come dire tra il chiuso e l’aperto, tra il buio e la luce. La condizione carceraria è una proiezione, uno stato mentale in cui esterno e interno, chiusura e apertura coincidono. Ovvero, il problema che Piranesi pone dal punto di vista psicologico è quello di avvertire un senso di chiusura, di claustrofobia, pure lasciando aperta ogni porta o inferriata, pur lasciandoci vedere porzioni di cielo e nuvole spumose. Crea piuttosto dei punti di fuga e delle prospettive illusorie; moltiplica le possibilità dello sguardo, il quale si convince che attraverso quelle scale dovrà pur esserci un modo per liberarsi dalla tortura subita, salvo poi, spostando di poco l’occhio, accorgersi che pochi centimetri distante una eguale situazione si ripete; e si ripete, si direbbe, all’infinito – una nuova scala, una nuova via, una nuova possibilità che non porta da nessuna parte se non a una paralisi, a un’auto carcerazione. Insomma, il problema delle Carceri d’invenzione, il problema del labirinto è quello di sentirci divenire, nei nostri incubi, delle statue, di pietrificarci sotto l’occhio del Minotauro, di diventare noi stessi il Minotauro: il mostro che ci terrorizza.

Piranesi
Una tavola dalle ‘Carceri d’invenzione’ di Giovanni Battista Piranesi…

Sappiamo che Horace Walpole fu molto affascinato dalle incisioni piranesiane e ne scrisse con entusiasmo (ne riporta un passo Mario Praz nel breve saggio che dedica allo scrittore inglese): «i sublimi sogni di Piranesi, che sembra aver concepito visioni di Roma al di là di quanto essa vantava perfino all’apogeo del suo splendore. Selvaggio come Salvator Rosa, violento come Michelangelo, ed esuberante come Rubens, egli ha immaginato scene che farebbero sussultare la geometria ed esaurirebbero le Indie se dovessero venir tradotte in realtà. Egli ammassa palazzi su ponti, e templi su palazzi, e scala il cielo su montagne di edifizi. Eppure, quanto gusto nel suo ardire! Quanto travaglio e pensiero nella sua impetuosità e nei suoi particolari!».

Ma il fascino che Walpole subì dalle incisioni di Piranesi, come si tradusse poi nel suo celebre romanzo, Il castello di Otranto?

«Se il Tristram Shandy è il precursore riconosciuto di tutti i romanzi d’avanguardia del Novecento, a cominciare dall’Ulysses di Joyce, The Castle of Otranto» scrive Andrea Cane in un saggio dedicato al romanzo «va senza dubbio contato tra gli antenati sicuri della moderna letteratura fantastica. Un edificio medioevale con passaggi segreti e labirinti sotterranei, un protagonista malvagio ma di statura eroica, un’eroina perseguitata che si ritrova in situazioni terrificanti, descrizioni naturali e manifestazioni soprannaturali che accentuano l’atmosfera di paura e di mistero: per le storie letterarie Walpole è l’autore del primo romanzo gotico inglese». Sempre Praz ci fa notare che lo spirito gotico del libro nasconde in realtà un gusto rococò. Cioè che il vero spirito di Walpole non ha nulla a che fare col mistero, il terrore, le visioni impetuose di un Piranesi. Piuttosto usa Piranesi, e il gotico (e l’evocazione medievale tutta) con un atteggiamento decorativo.

Credo che Praz non sbagli nella sua valutazione, soprattutto se non dimentichiamo chi era Walpole, il suo atteggiamento anche nei confronti della vita. Dagli storici e dai commentatori ci viene descritto come un uomo mondano ed eccentrico. Era figlio di un importante statista, sir Robert Walpole, il quale di fatto svolse un ruolo di primo ministro durante il regno di Giorgio I e Giorgio II, e che quindi dominò la vita politica inglese dal 1721 al 1742, anno in cui fu costretto a dimettersi perché accusato di corruzione (quando negli anni Cinquanta del Settecento anche suo figlio Horace divenne membro del parlamento, questi cercò di riabilitarne il nome – e la stima verso suo padre Horace la dimostrò anche con la pubblicazione, proprio nel 1742, di Aedes Walpolianae, che era un catalogo delle opere d’arte raccolte e collezionate da sir Robert). Horace frequentò l’ambiente aristocratico fin da ragazzino, studiò nelle migliori scuole, insieme al poeta Thomas Gary compì, tra il 1739 e il 1741, il Grand Tour (tra Francia e Italia) e sviluppò un gusto che da una certa arte medievale (specie l’architettura), più che un’essenza ne ricavava una cornice. Se ci intrufoliamo nella casa-castello che fece realizzare in quattro anni a Strawberry Hill e che divenne presto famosa in tutta Europa, ci accorgiamo che il suo stile gotico non aveva nulla a che fare con le cattedrali che tanto amò e descrisse John Ruskin e che, più avanti, ispirarono la costruzione (proprio l’architettura) del capolavoro di Marcel Proust Alla ricerca del tempo perduto. Tutto quello che vediamo non ha nulla di misterico, oscuro, spettrale. Sembra invece una imitazione tanto curiosa da parerci comica (ed è bene tenerlo a mente questo aspetto comico, perché ci sarà utile anche nella lettura del romanzo). Dobbiamo comunque tenere conto che Walpole dichiarò che la sua casa di Strawberry Hill era stata il luogo ideale per la scrittura del suo romanzo.

Se l’ispirazione (come dire l’immaginario) viene quindi dalle tavole di Piranesi – e da un sogno che Walpole fece e che era cosparso di simboli che possiamo ritrovare nelle opere dell’artista veneziano –, e il contesto ideale della scrittura del libro era la sua casa, il terzo elemento utile a comporre un quadro d’insieme è l’individuazione di un modello letterario. Conviene far parlare lo stesso Walpole, che così si esprime nella prefazione alla seconda edizione del libro: «La vera e propria impazienza che prova il lettore, quando le grossolane facezie di personaggi volgari lo trattengono e gli impediscono di conoscere la grande catastrofe che egli si aspetta, aumenta forse l’importanza dell’evento principale e certamente prova che l’interesse del lettore è stato abilmente destato. Ma io posso invocare un’autorità più elevata della mia opinione per il mio modo di operare. Quel gran maestro della natura che fu Shakespeare è stato il modello che ho seguito. Lasciate che chieda se le tragedie di Amleto e Giulio Cesare non perderebbero forse una parte considerevole del loro spirito e della loro meravigliosa bellezza, se la comicità dei becchini, le insensatezze di Polonio, e le goffe facezie dei cittadini romani venissero omesse, o ammantate da un linguaggio retorico. L’eloquenza di Antonio, la più nobile e falsamente spontanea orazione di Bruto, non sono forse esaltate dall’artificio delle rozze e spontanee esclamazioni provenienti dalla bocca dei loro ascoltatori? Questi particolari ricordano uno scultore greco che, per dare l’idea di un Colosso nelle dimensioni di un sigillo, vi inserì un bambino che gli misurava il pollice».

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…imitazione di Piranesi da parte di Maurits Cornelis Escher…

Colpisce, in questa dichiarazione, la totale consapevolezza degli intenti. È indubbio che, come tutti i commentatori affermano, l’importanza del romanzo sia quella di aprire le porte a un genere che prima non esisteva. Scrive ancora Andrea Cane nel saggio già citato: «The Castle of Otranto è il primo racconto fantastico inglese dell’epoca moderna. Lo è – come vuole il suo autore – perché nel romanzo si compie l’innesto tra due convenzioni narrative tenute finora distinte; perché vi si fanno cozzare violentemente per la prima volta due sfere, quella del soprannaturale e quella del quotidiano (sia pure un quotidiano remoto nel tempo e nello spazio), considerate per decenni totalmente inavvicinabili tra loro in un manufatto letterario; e abbiamo visto che l’effetto è quello di una brutale irruzione dell’assurdo, d’una liberazione improvvisa da regole e preoccupazioni di verosimiglianza». E aggiungiamo che la pubblicazione del Castello produrrà degli esiti inaspettati – sia dal punto di vista del pubblico (perché il romanzo gotico divenne improvvisamente alla moda, contro ogni aspettativa dello stesso Walpole, il quale, proprio in virtù dell’insicurezza che il suo esperimento avrebbe trovato consensi, presentò la prima edizione del libro, nel 1764, come la traduzione di un romanzo cinquecentesco di uno sconosciuto autore napoletano, Onuphrio Muralto, canonico della chiesa di San Nicola a Otranto), sia dal punto di vista puramente letterario (e sono impensabili, senza Il castello di Otranto, romanzi che gli sono nettamente superiori qualitativamente e che dal genere hanno saputo esprimere anche un’originalità contenutistica, stilistica, formale; penso a Frankenstein, del 1818, di Mary Shelley, a Dracula, del 1897, di Bram Stoker, fino ai racconti di Edgar Allan Poe e addirittura al Giro di vite, del 1898, di Henry James). Ma dicevamo della consapevolezza di Walpole rispetto al suo modello. Una consapevolezza da una parte dichiarata e dall’altra no. Prima quello che non dichiara. Shakespeare, in realtà, non gli è stato utile solamente per l’aspetto compositivo della vicenda, insomma, per lo sviluppo della storia, dei suoi tempi e delle azioni dei suoi personaggi. Shakespeare gli ha ispirato anche la struttura del libro. I cinque capitoli del romanzo, come più di qualcuno ha notato, sono in realtà i cinque atti di un dramma. Ovvero, la struttura è da scuola drammaturgica, è puro teatro. E non è un caso che il romanzo abbia tanto poco del romanzo, voglio dire, che sia tanto poco descrittivo, che sia composto per la gran parte di dialoghi – anche i monologhi, va detto, sono perlopiù brevissimi, ridotti a poche battute – e che la vicenda stessa abbia una sua temporalità non tanto per quanto il narratore racconta, ma per come interagiscono l’uno con l’altro i personaggi, per come gli eventi si susseguono con continui cambi di scena. Un’altra cosa che Walpole non dice, è che Shakespeare non è stato affatto soltanto un «maestro della natura»; nelle sue opere già convivevano naturale e soprannaturale, fantastico e realistico, e non solo nelle tragedie che cita, come nell’Amleto, ma anche in commedie come Il sogno di una notta di mezza estate e La tempesta. Cioè, Shakespeare non gli ha fornito alcun modello psicologico o filosofico. Walpole è lontanissimo da un’indagine sull’umano, su ciò che di più profondo si nasconde nell’animo degli uomini. È vero, a smentire questa mia considerazione c’è il personaggio di Manfred, il principe illegittimo di Otranto, dove indubbiamente possiamo riconoscere l’impulso, prima che alla crudeltà, a un territorio che appartiene alla brama di potere; una brama che conseguentemente rende crudeli, o fa compiere azioni (e muovere pensieri) malvagi. Ma pure la sua personalità non avremmo il coraggio o l’azzardo di accostarla a quella di un Cesare né tanto meno a quella di Macbeth. La malvagità di Manfred ci appare troppo goffa per prenderla davvero sul serio, da darci insomma un’impressione di realtà. E pensiamo al momento in cui, trovato suo figlio morto sotto un enorme elmo il giorno prima delle nozze con Isabella, una morte che lo sconvolge non già per il dolore che immaginiamo possa provare un padre ma per la straordinarietà dell’evento, Manfred calcoli che quella che sarebbe dovuta essere la futura sposa di Conrad, potrebbe unirsi ora a nozze con lui per garantirgli un’erede al trono. Calcolo che metterà in moto tutta la vicenda, tutti gli eventi del romanzo. Ma la sua è un’idea, un’ipotesi tanto bislacca che, verrebbe da dire, non poteva far altro che produrre disastri – reali, tanto quanto soprannaturali.

Ora però torniamo a quanto Walpole dichiara apertamente. Quando scrive «Lasciate che chieda se le tragedie di Amleto e Giulio Cesare non perderebbero forse una parte considerevole del loro spirito e della loro meravigliosa bellezza, se la comicità dei becchini, le insensatezze di Polonio, e le goffe facezie dei cittadini romani venissero omesse, o ammantate da un linguaggio retorico», cosa ci sta rivelando esattamente? Sappiamo che, da lettore di se stesso, Walpole non volle omettere neppure i difetti della propria opera ma cercò di giustificarsi servendosi di un esempio illustre. Però, io credo che quello che stava dichiarando era qualcosa di più preciso. Che i difetti sulla sua opera non fosse lui a percepirli come tali, ma i suoi critici. Che quello che i critici leggevano come difetti, per lui erano il centro dell’opera. Dico che il reale interesse di Walpole alle opere e ai personaggi di Shakespeare non è affatto la «parte considerevole del loro spirito e della loro bellezza» ma proprio «la comicità dei becchini, le insensatezze di Polonio, e le goffe facezie dei cittadini romani». Ma se fosse davvero così, se tutto l’interesse di Walpole fosse canalizzato in ciò che di comico, insensato, goffo rivela l’arte di Shakespeare, in cosa consisterebbero la sua originalità o il suo limite?

Horace Walpole
Horace Walpole (1717-1797) ritratto da Sir Joshua Reynolds

Walter Scott, che nel 1811 introdusse un’edizione del Castello, aveva scritto: «È compiere un’ingiustizia verso la memoria di Walpole dire che tutto quello che egli amava nel suo Castello di Otranto era “l’arte del suspense e dell’orrido”; o, in altri termini, richiamarsi a quel segreto e riservato sentimento dell’amore per il meraviglioso e il soprannaturale, che alberga in un angolo nascosto del cuore di ognuno. Se fosse stato solo questo ciò che egli tentò, i mezzi con cui volle raggiungere i suoi scopi potrebbero essere giustamente definiti goffi e puerili. Ma gli scopi di Walpole erano già difficili da raggiungere e più importanti, una volta raggiunti. Il suo obiettivo era di tracciare un quadro dei costumi e della vita domestica dell’epoca feudale così come poteva essere stata, dipingendola inquieta e agitata dall’azione del meccanismo soprannaturale». Il giudizio di Scott non fa che confermare quanto dice già Walpole nella prefazione alla seconda edizione del libro: «L’autore delle pagine che seguono ha ritenuto possibile conciliare questi due tipi. Con il desiderio di lasciare le facoltà della fantasia libere di spaziare per gli sconfinati regni dell’invenzione, e quindi di creare situazioni più interessanti, egli ha voluto introdurre gli elementi umani nella sua opera secondo le regole del verosimile; in breve, ha voluto farli pensare, parlare e agire, come si può immaginare che farebbero uomini e donne veri in circostanze straordinarie». Credo che a Scott sia mancato uno scarto intuitivo, lì dove lui stesso aveva puntato lo sguardo. Il fatto è che la goffaggine e la puerilità del Castello non sono ascrivibili al sentimento d’amore per il meraviglioso e il soprannaturale, ma lo sono proprio nel tentativo formale che Walpole ha sperimentato, ovvero quel suo fondere la verosimiglianza a fatti straordinari. Cosa significa? Quando Walpole sostiene che il suo interesse era comprendere il comportamento degli uomini di fronte a «circostanze straordinarie», quello che ha ottenuto non è altro che un effetto comico. Provo a spiegarmi meglio. Se si fosse limitato a voler raccontare una vicenda squisitamente fantastica (o straordinaria, o soprannaturale), l’atteggiamento dei suoi personaggi sarebbe dovuto essere non altro che ordinario. Come se il fantastico fosse qualcosa di assolutamente comune. Il cortocircuito è ottenuto invece per contrasto: eventi straordinari accadono in un contesto in cui di fantastico non c’è nulla. Ed è esattamente questo che produce un effetto di comicità; perché gli uomini, di fronte a ciò che non risponde alle leggi di natura (o alle loro convenzioni sociali), divengono immediatamente ridicoli – ed è una cosa che riconosciamo subito nella retorica del loro linguaggio; insomma, nel modo in cui si esprimono. Ma l’involuzione umana, chiamiamola così, si sostanzia dal momento in cui capiamo che il loro essere divenuti ridicoli di fronte ad agenti straordinari, li ha trasformati in attori di se stessi anche quando non hanno niente di straordinario da fronteggiare, pure quando si trovano in situazioni tutto sommato comuni.

Ora capiamo meglio anche quando Mario Praz parlava di un rococò che si mascherava da gotico. Infatti, quegli elementi che ormai attribuiamo convenzionalmente al romanzo gotico e che prima di Walpole non erano certo tanto connotati (il castello medievale e i suoi passaggi segreti, i sotterranei e i labirinti ecc.) sono per l’autore del Castello di Otranto una decorazione, nient’altro che una scenografia dentro cui il dramma va in scena. Viene in mente la definizione sprezzante che Aristotele diede della commedia nella Poetica: «La commedia è imitazione di persone più spregevoli, non però riguardo ad ogni male, ma rispetto a quella parte del brutto che è il comico. Ed infatti il comico è in qualche errore o colpa, ma che non provoca né dolore né danno, come, per prendere il primo esempio che ci si presenta, la maschera comica, che è sì brutta e stravolta, ma non causa dolore».

Quello che percepiamo nel Castello di Otranto come teatrale non è teatro (la rappresentazione come strumento, mezzo conoscitivo) ma una sua cosciente imitazione. In Walpole il comico è ottenuto per mezzo di una messa in ridicolo del dramma, della tragedia, della ricerca stessa di una verità – per questo tutto ciò che di drammatico accade nel romanzo (e basti ricordare almeno gli episodi in cui Theodor ferisce e quasi uccide per errore Frederic, padre di Isabella; o quello in cui Manfred uccide, pure lui guarda caso per errore, sua figlia Matilda credendola Isabella) sentiamo che è solo un colpo di scena, che non è davvero reale e che, quindi, non «causa dolore».

Andrea Caterini

 

Il testo di Andrea Caterini, pubblicato per gentile concessione, è il saggio che inaugura una nuova edizione del “Castello di Otranto” pubblicata prossimamente dall’editore Theoria.

 

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