Testamento di un idolatra
Cultura generale
Domenica ho partecipato alla Messa celebrata al Santuario ‘delle Grazie’, sul colle di Covignano, a Rimini. Se non è la chiesa più bella di Rimini, questa – sorta intorno al ricordo di una apparizione mariana, nel XIV secolo – è quella più viva, che vibra di dolore, di intenzioni, di preghiere.
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La liturgia domenicale, appunto, si focalizzava sulla preghiera, sul senso del pregare, sfociando nell’undicesimo capitolo di Luca. “Gesù si trovava in un luogo a pregare; quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: ‘Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli’. Ed egli disse loro: ‘Quando pregate, dite:
Padre,
sia santificato il tuo nome,
venga il tuo regno;
dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano,
e perdona a noi i nostri peccati,
anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore,
e non abbandonarci alla tentazione’”.
Il brano si chiude esultando, dando vigore alla relazione, altrimenti dispari, tra uomo e Dio: “Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto. Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce?”. Che splendore. Pregare significa chiedere: che cosa chiede Gesù al Padre? I discepoli chiedono a Gesù, in una specie di gara con Giovanni (in qualche modo, occorre trovare metro di comparazione e congedo all’incomparabile): insegnaci a chiedere. Ciò che viene dato, non è l’incenso del potere, un incedere in volontà. “Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!”. L’uomo è cattivo per natura, ma sa fare il bene, per natura, e il Padre ricambia la richiesta in Spirito Santo.
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Il cuore è come si chiede, di che struttura è la risposta. Dal capitolo di Luca sboccia la preghiera canonizzata, il Padre Nostro, che ha vertigine a piramide (nome, regno, pane, peccato, tentazione).
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Ammetto il peccato: mi sono inerpicato alle Grazie per ascoltare l’omelia di don Carlo Rusconi. Tra le tante cose, don Rusconi ha curato, per EDB, due volumi fondamentali per chi si occupa di Bibbia: il Manuale di introduzione all’ebraico biblico e il Vocabolario del greco del Nuovo Testamento. La versione del Vangelo di Luca che ho ricalcato, in effetti, è quella, ora canonica, della Cei, in giro dal 2008. Quella che, recepita qualche anno dopo dall’attuale pontefice, ha destato quel tot di scalpore negli ignavi e ha fatto titolare Famiglia Cristiana – cito uno tra le decine di articoli – “Papa Francesco ‘corregge’ il Padre Nostro: ‘Dio non induce in tentazione’”. Don Rusconi, leggendo il Vangelo, ripristina l’antica traduzione (Cei 1974), recitando “e non ci indurre in tentazione”. Nell’omelia spiega: “è preferibile dire il Padre Nostro secondo l’uso che vi hanno insegnato; non che la nuova traduzione sia eterodossa, assolutamente, piuttosto, è un po’ più ‘buonista’, forse moraleggiante, di fatto non rispetta la lettera del testo”.
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Più tardi – il dialogo continua in sacrestia, perché don Rusconi ci tiene a farsi capire bene – la spiegazione. L’antica versione della Cei corrispondeva alla Vulgata di Girolamo – et ne nos inducas in tentationem – e soprattutto al greco di Luca. Il verbo greco di riferimento, eisfero, significa, esattamente, “portare dentro”, dunque “far entrare; indurre”. Inducere è l’esatta traduzione latina di eisfero che è corretto dire “indurre”: “condurre dentro, far penetrare”. Non farci entrare nella tentazione. L’abbandono, proprio, non c’è, è un abuso linguistico.
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Semmai, occorre capire cosa sia la tentazione. La traduzione dei Vangeli a cura di Giancarlo Gaeta per Einaudi, pubblicata dieci anni fa, è sufficientemente chiara: “e non metterci alla prova”. S’intende la tentazione come prova. “Dio prova continuamente la sua creatura, perché, a meno che non soffriamo della sindrome di Peter Pan, per passare dalla manciata di cellule nel corpo di nostra madre all’essere uomini che hanno la capacità di contemplare il volto del Padre, bisogna crescere. Crescere è faticoso; si cresce attraversando la prova”, dice Rusconi.
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Al borbottio del pulpito, come di consueto, don Rusconi appoggia ferree citazioni. “La pratica di Dio nel mettere alla prova l’uomo si esplica, ad esempio, in Genesi 22: ‘Dopo queste cose, Dio mise alla prova Abramo’”. La Vulgata insiste, senza ciò provochi sussulti, sul ‘tentare’, sul tentativo della tentazione: tentavit Deus Abraham. Inoltre, don Rusconi accenna al capitolo 12 della Lettera agli Ebrei, la cui potenza scuote per assertività al sangue. “Soffrite per vostra correzione! Dio vi tratta come figli; e qual è il figlio che non viene corretto dal padre? Se invece non subite correzione, mentre tutti ne hanno avuto la loro parte, siete illegittimi, non dei figli”. La prova insomma – che sfa in correzione – è il segno del rapporto tra uomo e Dio. La versione Cei del 2008, in questo caso, è speculare a quella precedente. Girolamo è più curdo, ergo adulterini et non filii estis!, corrispondendo al greco, “che dice letteralmente ‘bastardi’”, chiosa Rusconi. La prova frutta dolore, lo dice la stessa lettera (“Certo, sul momento, ogni correzione non sembra causa di gioia, ma di tristezza; dopo, però, arreca un frutto di pace e di giustizia a quelli che per suo mezzo sono stati addestrati”), che non nega la natura profonda di Dio: “il nostro Dio è fuoco che divora” (Deus noster ignis consumens est).
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Di questo fuoco che consuma, che s’infiamma nell’implorazione, dice il Padre Nostro. Non si può negare l’agonismo tra uomo e Dio, che si provano a vicenda, producendo braci, fino all’abbandono vero, la resa all’abbraccio. Il cristianesimo è alcova di lotte, scintilla nella prova – altrimenti, si è fedeli per far felice il prete, per non dare problemi al prossimo, per non porsene. (d.b.)
In copertina: una immagine dal “Vangelo secondo Matteo” (1964) di Pier Paolo Pasolini