Nel 1934, in maggio, Osip Mandel’štam, provato da anni di silente persecuzione, preda di allucinazioni notturne, viene arrestato. L’ultima stilettata velenosa che si era concesso era la poesia contro Stalin, il “montanaro del Cucaso” dalle “dita tozze, grasse come vermi” e i “baffi da scarafaggio”, per cui “ogni morte è una fragola”. Commutarono la pena nel divieto a soggiornare a Mosca, Leningrado e altre città. Tra la lista delle destinazioni concesse, Mandel’štam scelse Voronež. Gli anni del massacro non spensero la sua vena lirica, sempre più certa, luminosa, dolente; “gli forniscono aiuto economico l’Achmatova, Pasternak, Sklovskij, Višnevskij”. Ancora nel 1937 gli è impedito soggiornare a Mosca. Nel maggio del 1938, dopo mesi di stenti e tentativi di vita, il poeta è arrestato. “Dopo tre mesi viene emessa la condanna: cinque anni di gulag per attività controrivoluzionaria”. Da allora, del poeta non si sa nulla. Molti anni dopo sapremo che è morto di stenti in un campo di transito nei pressi di Vladivostock, due giorni dopo il Natale del 1938. Il suo corpo sperperato nella preghiera del gelo. La lettera che pubblichiamo, bellissima, l’ultima lettera di Nadja al marito poeta, mai ricevuta, specie di dialogo con il bianco e le sue ombre, conclude l’“Epistolario” di Osip Mandel’štam, edito da Giometti & Antonello, a cura di Maria Gatti Racah. Aveva conosciuto Nadežda, ‘Nadja’, nel 1919, l’aveva sposata a Kiev nel 1922. Nadežda, custode dell’opera del marito, sarà figura capitale della ‘resistenza’ intellettuale al regime sovietico. A lei Iosif Brodskij, nel 1981, dedica un saggio importante, raccolto in “Fuga da Bisanzio”. “La vidi l’ultima volta il 30 maggio 1972, in quella sua cucina, a Mosca. Il pomeriggio stava per finire e lei sedeva, fumando, nell’angolo, nell’ombra profonda proiettata sul muro della grande dispensa… Nadežda Mandel’štam sembrava un avanzo di un grande incendio, sembrava una minuscola brace che brucia se la tocchi”.
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22 ottobre 1938
Osja, amico mio lontano! Mio caro, non trovo le parole per questa lettera che tu, forse, mai leggerai. La scrivo allo spazio. Magari tu ritornerai e io non ci sarò già più. Questo allora sarà l’ultimo ricordo di me.
Osjuša, la nostra vita da bambini, che felicità è stata! I nostri litigi, i nostri battibecchi, i nostri giochi e il nostro amore. Ora non guardo nemmeno più il cielo. A chi dovrei mostrare le nuvole che scorgo? Ricordi quando trascinavamo i nostri miseri banchetti alle nostre povere case randagie, da nomadi? Ricordi com’è buono il pane quando cade dal cielo e lo si mangia in due? E l’ultimo inverno a Voronež. La nostra felice miseria e le poesie. Ricordo: tornavamo dalla banja, avevamo comprato delle uova, o forse delle salsicce. Passò un carro di fieno. Faceva ancora freddo e io m’assideravo nella mia giacchetta (forse è il nostro destino: so quanto freddo hai tu). E quel giorno mi si è impresso nella memoria: ho sentito, chiaro da far male, che quell’inverno, quei giorni, quelle disgrazie erano l’ultima e la migliore felicità che avevamo in sorte.
Ogni mio pensiero è rivolto a te. Ogni lacrima e ogni sorriso è per te. Benedico ogni giorno e ogni ora della nostra amara vita, amico mio, mio compagno di viaggio, amata, cieca guida mia… Come cuccioli ciechi sbattevamo l’uno contro l’altro, e stavamo bene. E la tua povera testa delirante e tutta la follia, con la quale scaldavamo i nostri giorni. Che felicità era e come abbiamo sempre saputo che proprio quella era la felicità.
La vita è lunga. Com’è lungo e difficile morire da solo, da sola. Possibile che proprio a noi, inseparabili, tocchi questo destino? Noi, cuccioli, bambini… tu, angelo, l’hai forse meritato? E tutto va avanti. Io non so nulla. Eppure so tutto e, come in un delirio, vedo ogni tuo giorno, ogni tua ora nitida e chiara.
Sei venuto da me in sogno ogni notte e io continuavo a chiederti cosa fosse successo e tu non rispondevi. L’ultimo sogno: sto comprando del cibo nel lurido bar di un lurido albergo. Con me ci sono dei completi sconosciuti e io, dopo aver comprato tutte queste cose, capisco che non so dove portarle, perché non so dove sei tu. Quando mi sono svegliata ho detto a Šura: Osja è morto.
Non so se tu sia vivo, ma da quel giorno ho perso ogni tua traccia. Non so dove tu sia. Puoi sentirmi? Sai quanto ti amo? Non ho fatto in tempo a dirti quanto ti amo. Non riesco a dirlo nemmeno ora. Dico soltanto: per te, per te… sei sempre con me e io – selvatica e cattiva, che mai ho saputo semplicemente piangere – io piango, e piango, e piango. Sono io, Nadja. Dove sei? Addio.
Nadja