
“Ti amo come il mare ama un sassolino sul fondo”. Kafka & Milena
Letterature
Marilena Garis e Riccardo Peratoner
La dimensione tragica dell’esistenza viveva nel sangue della grecità. Per intenderla, forse, occorrerebbe uno sguardo ormai perso, morto con quella antica gente. Sono troppi i sovra ordini mentali cui quella cultura introduceva presto, fin dall’alba della vita. Già in fasce, la dolce e rassicurante voce della madre preparava il neonato ad una visione atavica, pronta a sbocciare nel bambino, a fiorire nel futuro adulto e ad appassire nella stoica luce fioca che rischiara a stento l’occhio del vecchio; e a chi non era concesso dal fato di completare quel percorso in tutte le sue tappe, era subito offerta una prospettiva di appartenenza al Tutto che attiva la vita e procura la morte, come se questi ne fosse parte e causa.
L’uomo greco era preparato ad accogliere in sé quella dimensione senza farsene il cruccio che se ne fa oggi l’uomo moderno. Per il primo, tragico non è sinonimo di triste o drammatico, ma evoca una persistente attrazione irrespingibile, un furore dell’appartenenza al ciclo violento e inarrestabile del vivere nella natura madre. Sarebbe tuttavia un errore e una sottovalutazione supporre che quell’educazione, quei valori inculcati nelle fertili fasi della crescita, lo dispensassero dalla sofferenza. Si trattava di un dolore altro, diverso, di un modo differente di affrontarlo. Ogni cosa triste, in sé, può assumere i contorni di una gelosa fierezza se ci si riconosce come uniti ad essa nell’orgoglio di una relazione, nella propria reciproca inclusione. L’uomo antico vive nella grazia di quello spazio aperto, dove l’essere e la natura (che concede e sottrae) si confondono; dove aguzzino e martire non esistono, perché nessuno infligge e nessuno subisce. Egli si sentiva parte del suo mondo, pienamente integrato con esso.
Per noi, codificare e intendere la sofferenza può essere (solo) nel senso di penuria, privazione, sopportazione e il nostro sguardo volge all’inevitabilità, alla rassegnazione, al meno; a quel tempo si viveva immersi in una dimensione eroica. La stessa accettazione delle inviolabili regole dettate dagli Dei e veicolate dalla natura era accolta senza tema, con temperamento e coraggio. Oggi l’uomo-codardo vive fuori dal mondo che l’ha generato e con quel mondo combatte, inscenando un perenne inseguimento predatore-preda. Il più grande danno dell’aver smarrito quello sguardo greco sta nel vedere quella tristezza, quella dimensione tragica come un elemento esterno, sgradito e dal quale è necessario proteggersi.
Si potrebbe dire che l’estrema manifestazione della durezza della vita – che è la morte – sta all’uomo moderno come una causa, una cacciatrice che lo insegue e da cui si deve nascondere, finché può, mentre l’uomo antico era egli stesso vita e morte, allo stesso tempo, perennemente e costantemente fuso in esse. La violenza e la durezza di quegli Dei pagani e di quella natura tanto benigna, quanto maligna non erano che lo specchio in cui l’umanità si rifletteva.
L’uomo antico, annegato in quello sguardo aperto, ha concepito il mito, che è forse la forma più istintiva e primigenia in cui si riflette quel rapporto.
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Nella storia della discesa di Orfeo negli Inferi, si può dire che Euridice sia un personaggio passivo, totalmente assoggettato alla infausta decisione del compagno? In fondo, si può davvero dire che la decisione infelice sia quella di voltarsi all’ultimo, ad un passo dal traguardo di una (desiderata, da chi?) riunificazione o, piuttosto, quella di scendere negli Inferi, violando l’ontologica separatezza in cui devono permanere i due mondi che stanno al di qua e aldilà? E poi, ancora, Euridice si può considerare un personaggio autonomo o rappresenta un vuoto che è già presente in Orfeo prima della sua dipartita, un’assenza insopportabile cui egli si volge plasticamente per mezzo del suo canto lirico?
Le domande – come semi congelati – da sempre riposano in quella terra fertile che è il cuore dei poeti, lo sottomettono al mito e il mito attraversa tutta la storia della letteratura per giungere fino qui, ora.
Nessuna risposta si presenta uguale ad un’altra. Già i primi ad esprimersi – Virgilio e Ovidio – erano in disaccordo: il primo, poeta tragico, si orienta ad una lettura drammatica, con un’Euridice che biasima il compagno per il folle gesto e precipita nell’Aldilà travolta dai peggiori sentimenti; il secondo, poeta elegiaco, ne offre una versione triste, ma dolce e romantica, con un’Euridice comprensiva del gesto provocato dal troppo (e immenso) amore di Orfeo, per nulla in collera con lui. Come avrebbe potuto esserlo?
In entrambi, per l’Orfeo che resta in vita, Euridice incarna il martirio della sopravvivenza alla morte dell’amato, l’ologramma del tormento e della perdita, al quale si somma il senso di colpa per l’inavvertita svolta, per la dannazione di un gesto che mostra l’uomo in tutta la sua fallacia e fragilità.
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Dopo i sommi scrittori antichi, ai quali si è tutti successivi (cronologicamente) quanto necessari eredi d’arte, quasi ogni generazione di poeti è stata reinvestita dalla rivisitazione del mito.
La domanda che risuona in eterno è: perché l’Orfeo si volta? Perché trasgredisce il divieto impostogli da Ade e perde per sempre Euridice?
Si potrebbe rispondere, semplicemente, in una prospettiva pregna di realismo e decadenza: perché il dolore e la sofferenza attraggono più della gioia e della felicità. Orfeo si gira perché quando si sa di poter perdere qualcosa, lo si fa succedere; per attrazione del dolore, per desiderio di condanna, perché l’infelicità esercita un’oscura fascinazione sull’animo umano, quasi che con essa all’uomo fosse recata in dono la chiaroveggenza. Goethe e il suo Faust giganteggiano alle spalle della figura umana che si smarrisce nella smania di tutto conoscere, che si struttura nella dubitazione, nella delegittimazione si sé e pertanto provoca le occasioni del suo cadere, se non vi è altro a provvedere al suo posto.
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Letteratura e musica, attraversando la storia, offrono infinite alternative di lettura.
Jean Cocteau propone la versione più cinica di quel gesto: secondo lui, così facendo Orfeo ha voluto liberarsi di Euridice. Per quanto l’interpretazione possa lasciare delusi i romantici, non è priva di un acuminato realismo: la morte può rappresentare una liberazione da vincoli di cui in vita non ci si riesce ad affrancare. In un amore, talvolta, sta troppo, il “troppo” che in noi non si contiene e che forza le pareti del nostro essere fino a creparle. In controluce, si intuisce la figura di un Orfeo che scende nel Tartaro per verificare quello stato di netta separazione dei due mondi (vivi e morti) e, in ultimo, restituisce a ciascuno le sue appartenenze con una semplice svolta. L’essenziale banalità dell’incantesimo in cui Ade racchiude la risalita dei due al mondo dei vivi sembra in effetti costruita apposta per essere attivata in qualche modo, quasi che il custode degli Inferi sapesse già che così sarebbe dovuto accadere.
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Cesare Pavese si appropria d’una visione categorica sulla irreversibilità del passaggio all’Aldilà. Orfeo, venendo in contatto con il gelo della terra dei morti, è costretto ad interrogarsi sul senso di un ritorno da quel mondo. È possibile riavere una vita quando si scopre che quella vita non ha senso e ciò che attende è solo un vuoto eterno? Il poeta predilige una versione per cui Orfeo si volta per salvarla, per liberarla da un’esistenza che sarebbe – di lì innanzi – triste e tragica.
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Gesualdo Bufalino costruisce sul mito un racconto ironico. Euridice, giunta negli Inferi, beve l’acqua del Lete, il fiume infernale dell’Oblio, e mentre ricorda la sua vita terrena è colta da un pensiero controverso, da qualcosa che non le torna. Nel ricostruire gli eventi e la discesa del suo amante nell’Aldilà si convince che ogni evento è stato pianificato da Orfeo stesso per poterne fare un canto lirico. Il dubbio la trafigge: sarà forse che Orfeo è più innamorato della sua poesia che di lei e che, per poterne dire in versi, ha fatto in modo di perderla una seconda volta, voltandosi prima di giungere a destinazione?
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Rainer Maria Rilke parla del mito in Orfeo. Euridice. Hermes, riprendendo in seguito il suo legame con la figura del poeta antico nei Sonetti a Orfeo, opera della maturità che accompagna inscindibilmente il capolavoro delle Elegie Duinesi. Nella sua lettura predilige il mistero.
Euridice, accompagnata da Hermes nella risalita al mondo dei vivi, finisce per non ricordare chi fosse Orfeo. Il Dio parla a donna colma di una nuova bellezza, rilucente e spettrale, e le dice: “si è voltato”; lei, come dolcemente smarrita in un argenteo giardino nuovo, le risponde: “chi?”. Fluttua, in una ritrovata verginità spirituale, avvolta e protetta dal manto della morte. La consistenza eterea che definisce l’Euridice rilkiana è smaterializzata, non possiede più il ricordo – umano – dell’esistenza e non sa neppure dire chi sia quell’uomo che s’affanna per risollevarla ad altra vita e cosa possa egli volere da lei.
Il poeta capovolge il mito, supponendo che Euridice non voglia ritornare, perché ormai assorbita dal nuovo Regno. Persefone – la dea sposa di Ade – giunge in soccorso a quella sommessa ritrosia. Avendone pietà, inventa il sortilegio del “non voltarsi”, sapendo in anticipo che Orfeo non avrebbe potuto rispettare quella regola. In tal modo ottiene che egli addossa a sé la colpa di quanto accaduto, sostituendola all’irrimediabilità del morire. La mestizia è così riconsegnata ai vivi, l’eterna pace ai morti.
La visione rilkiana è chiara: i trapassati, ormai, persistono in una dimensione parallela e non possono più parlarsi con i vivi. Devono affrancarsi dal legame con questi ultimi, perché qualcosa rischia di trattenerli alla loro pregressa dimensione. Il riscatto si compie quando i vivi li lasciano andare e svuotano le loro menti mortali dallo svilente ricordo dei morti – che li ritrae quando essi erano (ancora) vivi – e quando il poeta, tratto in un istante di ispirazione scevra di umano sentimento di possesso, si libera di quel desiderio di trattenere e canta il luogo dove essi possono manifestarsi, in quella loro nuova forma. Un luogo-forma popolato da forme, non più umane, ma solo di esse ombra, linfa, segno.
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Italo Calvino inverte il mito nelle due opere in cui se ne occupa: prima ne Il cielo di pietra, parte della raccolta La memoria del mondo e altre storie cosmicomiche, e una dozzina di anni più tardi ne L’altra Euridice. Propone una rivisitazione di Orfeo ed Euridice in senso rovesciato, partendo dal presupposto che la stessa nascita di Euridice si occasionasse da una originaria (e opposta) sottrazione al regno che sta al centro del mondo: quello degli Inferi. Come se la donna – definita “cellula donna” – appartenesse da sempre al cuore informe del mondo, inghiottita nel suo interno e fosse stata rapita dal mondo dei vivi e così, per inganno, portata in superficie, attratta da un ignoto cantore. Plutone, sposo originario di Euridice, è un Orfeo “rovesciato”, che si lamenta della sottrazione a sé della donna da parte di un mondo di superficie sopraffatto da un canto orfico che è rumore, distrazione, perdizione.
Prospettive simbolistiche evidenti si porta dietro la figura del Re degli Inferi, che sono luogo ben meno opprimente di quello dipinto dal mito originario. Egli, appagato nella sua inversione, nel suo “star dentro” la Terra, invece che sopra di essa, è come se laggiù godesse di una propizia approssimazione al posto ove solo pulsa l’autentico esistere. In quella dimensione isolata, di distacco dal rumore del mondo, troviamo un Calvino che ricorda Rilke rinchiuso nella sua torre di Muzot – mausoleo terrestre foriero di antiche memorie. Il progressivo distacco, l’isolamento dalla realtà esterna sono per entrambi la via verso la rivelazione della scrittura.
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Ancora di Claudio Magris vale la pena dire. In uno dei suoi monologhi teatrali sostiene che le persone inconsolabili, attraversate dalla perdita, si consolano dicendo “sarebbe la persona stessa (morta) a non volerti vedere così”; e, si potrebbe aggiungere dopo quanto detto finora: “sarebbe la stessa persona morta che non vorrebbe tornare..”
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Se il mito canta dell’incomunicabilità irreversibile tra vivi e morti, se è chiara l’inopportunità di quel legame, allora perché, dunque, amare se ogni cosa, infine, si spegne? Perché amare se l’unico esito è la fine dell’amore? È davvero l’amore a morire quando il corpo trascende altrove o è altro a morire, qualcosa che mai avrebbe dovuto (nemmeno) nascere?: il nostro lacerante desiderio di avere, possedere, trattenere. Non è allora lezione, la morte, qualcosa che insegna a riconcepire quel vincolo mortale, quella schiavitù dell’esistere – per essere proprietà e proprietari del nulla? È un caso che amare e morire siano azioni – e parole – che suonano così prossime e vicine, quasi a condividerne l’ossatura e la sostanza? In quegli echi riposano dolcezza e durezza, a presagio di una doppia natura, di un doppio momento in cui si estrinsecano, quasi fossero l’inarrestabile avvicendarsi di stagioni.
Il mito sottopone un tema immortale: si può amare nella vita e nella morte, forse, ma di un diverso amore. La poesia offre le sue risposte: amore nel vivere è sovrapporsi, specchiarsi, per Rilke “celebrarsi e proteggersi nella reciproca solitudine”; amore nel morire è, forse, persistere nell’amare qualcosa che s’è trasformato perché esso ancora ci interroghi con le sue domande (apparentemente) respingenti, con i suoi “chi sei?, perché mi cerchi?, perché non mi lasci andare?”. Quell’incalzare dei morti, rivolto ai vivi, è ciò che smuove ancora qui, chi sta appoggiato sul lato in luce, a dire ai primi chi sono stati essi con noi, e nel far quello a costruire per loro un luogo dove essere, ancora, in eterno.
La poesia coglie le cose nel loro andarsene, non può trattenerle. La poesia è cantare la bellezza delle cose, sapendo che esse sono cadute e ci verranno tolte. Ecco perché poesia è “voltarsi indietro”, all’essenza delle cose. Anche in quel gesto di ispirazione poetica è possibile vedere una causa della svolta di Orfeo.
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Il regno di Zeus è il regno dell’ordine, che distingue mortali e immortali. Voler tornare indietro dopo aver varcato quel confine, non ha senso. Le rivisitazioni di poeti e scrittori, nella nuda essenza, vanno tutte in quella direzione. Bisogna lasciarli andare i propri morti! Lo si diceva anche nel vangelo: quando Gesù viene a sapere della morte di Lazzaro, lo piange; ma, quando lo chiama fuori dal sepolcro per resuscitarlo dice a tutti: “Liberàtelo e lasciàtelo andare”.
Per chiunque è difficile accettare che rinascere alla nuova luce della morte sia separarsi, perdere, abbandonare e non trattenere; ma ai morti quel separarsi appare diversamente: una dimensione di alternate attrazioni, in cui il legame inscindibile con la vita è ormai perso e non esercita più in loro – come ancora, invece, in noi – quel richiamo. Essi sono richiamati a diversa meta, di cui i vivi possono solo disegnare i contorni con la poesia.
Riccardo Peratoner
*In copertina: Frederic Leighton, Orfeo ed Euridice, 1864