19 Maggio 2022

Il frate che arrivò in Tibet. Storia di un ritratto perduto e ritrovato

Il ritratto di un frate cocciuto

Era tornato a salutare la madre, nel 1738, a Pennabilli, da dove mancava da venticinque anni. Cosa avrà pensato Orazio Olivieri, missionario cappuccino, rivedendo quei due roccioni, su uno il convento, sull’altro il castello? Lui era stato sul tetto del mondo, in Tibet, in mezzo a vette vertiginose, nel regno che dà origine ai quattro grandi fiumi dell’Asia. Gli saranno sembrate piccole, le aspre pendici del Montefeltro, quieto il paese rispetto alle brulicanti città dell’India e del Nepal, un rivoletto il Marecchia, a fronte della maestà selvaggia dello Tsangpo, che in India diventa il Brahmaputra. Verosimilmente, non avrà perso troppo tempo in sentimentalismi. Fosse stato per lui, forse non sarebbe neppure passato da Pennabilli. Non perché disprezzasse il suo paese o tanto meno la famiglia, ma perché da tempo si era dato tutto alla missione, e stava per partire, per la seconda volta, per il cuore dell’Asia. Ha già 58 anni, e i viaggi estenuanti, le migliaia di chilometri fatti a piedi o con i mezzi più diversi, la severa vita francescana, hanno ridotto all’essenziale quello strumento di preghiere e di missione che è il suo corpo. Il sole senza filtro del Tibet ha resi il viso e le membra colore del cuoio, come quello dei locali, e l’aria asciutta e fredda hanno eliminato ogni grammo di grasso. Tutto quello che era il mondo, lo aveva ormai lasciato. Sapeva che già ritornare a Lhasa sarebbe stato un obiettivo difficile. Solo Domenico da Fano che era stato Prefetto della missione tibetana prima di lui aveva fatto due volte il viaggio da Roma a Lhasa, un viaggio che richiedeva oltre un anno. Rivedere l’Italia, tutti sapevano che sarebbe stato quasi impossibile. Ma non era questo che chiedeva al Signore. Nessuno dei missionari cappuccini aveva idee del genere in mente. Il loro cammino non era di un individuo; se un fratello moriva, gli altri continuavano a camminare.

I superiori, su pressione dei famigliari, gli chiedono di fare visita a Pennabilli. In paese lo si conosce come personaggio importante, prefetto di una missione cattolica ai confini del mondo, la famiglia è nota, e viene accolto con calore. È tarda primavera, le giornate già si allungano ma le notti, in montagna, sono ancora fresche. I suoi lo vogliono ritrarre. Non c’è la fotografia, ma ci sono bravi pittori che in pochi tratti sanno restituire l’essenziale di un volto. Basta poco, ma Orazio è ferreo. La sua non è falsa modestia. Ma ogni gesto, ogni parola, sono legati a doppio filo alla sua fede, una fede granitica, anche dura, rigorosa. Sia la sua religione sia il buddhismo. che ormai conosce quanto un lama tibetano, hanno reso cristallina la sua visione. Fissare un volto su una tela non è forse la più grande delle illusioni? Che cosa vale una faccia, che sarà presto consumata dalla morte? A cosa serve pensare di avere qualcosa di un parente, di un figlio, in un quadro, se non resta nel cuore e nella fede?

Ma altri sono più umani, comprendono l’affetto terreno di una madre, di una famiglia. Sebastiano da San Gianni, guardiano del convento di Pietrarubbia, un altro roccione che sta ai margini del monte Carpegna, suggerisce uno stratagemma: si chiami un pittore, che lui conosce, un bravo artista, Giovanni Bistolli, che ha lavorato parecchio nella zona, e si intrattenga padre Orazio su una conversazione, di materia spirituale, alla quale certamente non si negherà, e intanto, complice il clima mite e una finestra aperta, il pittore, abile e svelto, coglierà a matita o carboncino l’essenziale del volto, che poi finirà a olio in bottega. Non lo sappiamo nei particolari, ma potrebbe essere andata così.

Bistolli disegnò e poi dipinse a olio su tela, inserendo sotto la figura del frate con un crocefisso in mano un lungo cartiglio in latino che ne celebrava le gesta, quasi a farne un candidato alla santità. Forse era proprio questo che il cappuccino non avrebbe voluto, aggiunto al suo volto.

Orazio partì poco dopo con dieci confratelli. Dopo incredibili peripezie arrivarono a Lhasa, come riporta il cronista della spedizione Cassiano da Macerata, “anni 2, mesi 4, giorni 25 … avendo fatto dalla Marca sino a questo luogo miglia italiane diciottomila trecento ottant’uno”. Purtroppo la missione, dopo tanti sforzi, fallì, e dovette chiudere. Orazio tornò in Nepal e a Patan, il 20 luglio del 1745, lasciò questo mondo. La fine di trentatré anni di missione avevano stroncato quella volontà che teneva insieme il corpo e l’anima.

Morì ignaro che la sua effige, contro il suo volere, sarebbe sopravvissuta nell’unico ritratto che mai gli fu fatto, per mano di Giovanni Bistolli che lo sbirciava di nascosto.

Partendo da quello, un altro ritratto, questa volta una più moderna incisione su rame, che consentiva la duplicazione, fu fatta per opera del riminese Pietro Santi, probabilmente nel 1780, centenario della nascita. Con un guizzo di creatività di fine ‘700, l’autore aggiunse sullo sfondo una palma, albero del tutto sconosciuto in Tibet, e un mare con nave a vela.

Da quel momento per un secolo e mezzo non vi sono testimonianze della tela. Solo l’incisione restò.

*

Un cercatore appassionato e una compagnia di ventura

Jim Woolsey era l’ultimo degli hippies. Americano della Pennsylvania, era stato nella US Navy e poi a Woodstock. Aveva lavorato come tecnico del suono nei tour dei Grateful Dead e poi, dopo tante e tante vicende, si era innamorato del Tibet. Buddista a modo suo, lavorava volontariamente a Dharamsala, India, sede del Dalai Lama in esilio. Ha creato la mappa software della prima tastiera per PC in tibetano. Jim fin dagli anni ’80 conosceva Elio Marini originario di Sarsina la terra di Plauto e di San Vicinio, il taumaturgo che scaccia i demoni per mezzo dell’esorcismo. Elio gli racconta che sua moglie, Valeria, è di Pennabilli. Jim si gratta la barba da quacchero (“Sono un quacchero malguidato” diceva di sé) e con la sua voce da basso commenta: “Pennabilli, Pennabilli, there was a monk from there who went to Tibet…” (“c’è stato un frate di lì che è andato in Tibet”).

Elio è incuriosito. Non c’è un motivo preciso. Non è un orientalista, non è un buddista e neppure un devoto, è una persona che ha visto l’India e un po’ di mondo, ha girato l’Europa nel suo Westfalia e insegna economia. Ma questo frate quasi ignoto lo colpisce. Ed è l’inizio di una ricerca che continuerà per trent’anni e che non è ancora finita. Chiedetegli perché lo fa, e vi risponderà che lo fa per piacere, per passione, per curiosità, quando ha tempo e quando ha voglia. Io vi posso dire che per me c’è una chiave in tutto questo ed è l’avventura. Appartengo anch’io a questa generazione, che è nata sognando l’avventura. Forse l’ultima generazione? Non so, ma dentro ognuno di noi c’è un esploratore, c’è una scena che si ripete: un amico suona alla porta e ti dice: “Senti, io parto”.

“E dove vai?”

E ti dice un posto che non sai neppure dov’è e poi: “Vuoi venire?”.

Tu ci pensi e poi dici: “Prendo la borsa”, e andate.

E come ogni amante dell’avventura, è affascinato da chi ha affrontato lunghi viaggi, visto paesi lontani, tentato ardue imprese.

Con questo basso profilo, comunque, Elio ha accumulato negli anni una mole enorme di dati, conoscenze, oggetti, libri, articoli, relazioni e quant’altro su Orazio della Penna, quanto nessuno al mondo. È in contatto con il Vaticano, con l’Ordine dei Cappuccini, con ricercatori universitari, biblioteche, musei, missioni in India. Ha scritto e curato libri, siti web e articoli. E ha fatto un’altra cosa: viaggio dopo viaggio, ha ripercorso passo passo gli itinerari che i missionari cappuccini del ‘700 seguivano per arrivare dall’Italia al Tibet: dall’Italia alla Francia, poi per mare fino al Bengala, poi lungo i fiumi e a piedi fino al Nepal e infine, passo dopo passo oltre i 5000 metri dei valichi Himalayani e infine a Lhasa, la residenza dei Dalai Lama prima che la Cina occupasse definitivamente il Tibet nel 1959.

In questi viaggi e in queste avventure a volte era da solo, altre volte si sono aggregati compagni, per il principio “Prendo la borsa”.

Il ritratto ritrovato

Se Jim ha fatto scattare la curiosità per Orazio, un costante flusso di energia e di azione organizzativa sono venute da Claudio Cardelli. Claudio è una delle anime dell’Associazione Italia-Tibet, che sostiene il lavoro del Dalai Lama e del governo in esilio e l’autodeterminazione del popolo tibetano. Una posizione coraggiosa, che tiene alta in questi tempi difficili la bandiera della libertà. In anni di impegno e di passione, ha documentato in video e in foto la vita del Tibet, e ha assunto dal 2108 la presidenza dell’Associazione. Claudio è un altro giramondo. Ha percorso su ogni mezzo l’India e i paesi dell’Himalaya. In moto, è sopravvissuto al traffico delle metropoli indiane ed è arrivato ad altezze dove i carburatori non respirano più. Poteva una persona come lui non aggregarsi alla compagnia?

Da parte mia, ho accompagnato Elio in alcuni tratti della ricerca. Insieme siamo andati a Lhasa a cercare la campana della missione che era custodita nel Jokang, il più sacro dei templi di Lhasa, l’abbiamo trovata e ne abbiamo fatto un calco, dal quale è stata realizzata una copia che squilla sul roccione di Pennabilli riempiendo la vallata. Due volte Elio, con il supporto prezioso di Claudio ha ottenuto infatti che il Dalai Lama visitasse il paese, e la seconda volta inaugurò la campana.

Quel giorno c’ero e c’era Jim, venuto appositamente dagli USA, e c’era Claudio accanto all’“Oceano di saggezza” e al suo staff. Ma Elio e la sua compagnia di ventura non potrebbero fare nulla se non avessero un filo, un principio, del quale forse neppure loro si rendono conto sempre, col quale a volte giocano e nel quale altre volte credono profondamente. Perché sono (siamo) anche una generazione di sognatori, la generazione dell’amore, della pace e della musica.

Orazio è un simbolo soprattutto per quello che non è. Non è un missionario che accompagna conquistadores armati, non è un fanatico che converte con la forza e la persuasione una popolazione primitiva, non è un astuto consigliere di sovrani. I cappuccini curavano la gente, senza chiedere compensi. Studiavano la lingua, i costumi e la religione, e le rispettavano. Un documento ufficiale del 7° Dalai Lama è meglio di tante spiegazioni:

“Voi che siete venuti da molto lontano con la mentalità che non è rivolta a cibo, guadagno, fama, donne e sostentamento siete riusciti di grande utilità a molte creature … non hanno compiuto alcuna specie di azione cattiva neppure quanto la radice di un capello”.

Orazio è il simbolo di un confronto tra religioni, quindi culture, quindi lingue, mentalità e persone distanti tra loro, che si incontrano come stranieri ma si riconoscono e si misurano come uomini. Dal confronto, dal misurarsi reciprocamente nasce il dialogo, e il dialogo unisce le menti e tiene a bada la violenza. Così, quando il Dalai Lama è venuto a Pennabilli, Elio e la compagnia hanno fatto di tutto perché le autorità religiose cattoliche, e non solo, fossero presenti.

Insomma, il ricordo di Orazio della Penna e della sua missione hanno un significato, che Mons. Pietro Sambi ha ben sintetizzato in un motto: la scoperta e il rispetto dell’Altro.

*

Dodici monache e un quadro

Tanta la documentazione ritrovata in tutti questi anni, manca il ritratto di cui si conosce l’esistenza da un racconto coevo di Antonio Maria Zucchi Travagli. Le ultime notizie risalgono al 1925 quando viene esposto a Roma in occasione dell’Anno Santo nella grande Esposizione Missionaria Vaticana. Da quel momento, però, se ne perdono di nuovo le tracce. Non ci sono foto né indicazioni.

Elio lo cerca da anni. Sia a Pennabilli sia a Roma. Invano.

Ragionandone insieme, si arriva a un’ipotesi: il quadro non è mai stato restituito al proprietario, che era un arciprete di Pennabilli. Forse perché non gli venne data importanza oppure come tanti altri oggetti di quella esposizione era stato donato per il grande museo missionario costituito qualche anno dopo a Propaganda Fide, oppure la tela è rimasta a Roma in qualche scantinato, oppure… oppure…

Proprio in quei giorni Elio viene contattato da Suor Claudia, la madre superiora del convento della monache agostiniane di Pennabilli. Si tratta di un’istituzione antica. Un complesso di edifici arroccati su uno dei due picchi, quello dei Billi, in pietra e coppi. Sopra di esso si erge una grande croce di ferro. Il monastero, come molti altri, negli ultimi decenni aveva visto un costane declino nel numero delle occupanti, stante la crisi delle vocazioni. Da alcuni anni, tuttavia, una serie di giovani donne si sono avvicinate alla vita religiosa. La stessa vita è cambiata: le monache di clausura non sono più ‘sepolte vive’, non sono limitate nei loro interessi. Sono ragazze spesso colte e che hanno vissuto nel mondo, e che continuano a coltivare i loro studi o le loro arti. Oggi il convento di Pennabilli ospita quattordici religiose, alcune delle quali giovani e giovanissime, nelle varie fasi di avvicinamento alla professione solenne.

La superiora, suor Claudia, chiede informazioni su Orazio della Penna. Elio non è certo reticente, e viene fissato un incontro. Durante il colloquio, avvenuto con tutta la comunità seduta in circolo, Elio, accompagnato da Claudio e Gigi Mattei, un pennese che frequenta la comunità delle suore assieme alla moglie Fiorenza, presenta con la consueta passione la storia di Orazio e della propria ricerca.

Ci sentiamo qualche giorno dopo e mi racconta dell’incontro: mi dice che le monache sono rimaste entusiaste della storia e che sono disposte a dare una mano per uno dei progetti più importanti, che rappresenta un po’ il punto di arrivo della ricerca di tanti anni: un luogo attorno al quale raccontare la storia di Orazio e della ricerca.

Fissano un nuovo incontro per il dodici febbraio. Il giorno stesso, un sabato, ci sentiamo per telefono. Ogni tanto facciamo insieme lunghe passeggiate, per fare un po’ di esercizio e chiacchierare di tutto. “Oggi non posso” mi fa Elio “Devo andare dalle monache a Pennabilli”.

“Ah, bello” dico io. “Vuoi venire?” “A che ora?”. “Due e mezza”.

Partiamo e passiamo a prendere Claudio a Secchiano in Valmarecchia, sulla strada per Pennabilli. È nella vecchia casa di famiglia dove vive la signora Anna, sua madre: 99 anni, utilizzatrice disinvolta di SMS. A Pennabilli abbiamo appuntamento con Gigi e sua moglie, davanti al convento.

Le monache ci ricevono nel loro oratorio, dove spicca un bell’affresco del ‘400 di San Pietro papa. È una grande sala con muri di pietra intonacati. Le religiose sono tutte lì, in piedi ad accoglierci. È un impatto non da poco per un laico. Sono tutte lì, sorridono con gli occhi (siamo tutti con la mascherina anti Covid), la metà almeno sono giovani, alcune più mature, e una più piccola, Veronica, la più anziana, in clausura dal dopoguerra e piena di spirito.

L’abito nero, la cuffia e il velo, il crocefisso di legno, la cintura di cuoio, le rendono uguali, e tutte insieme, schierate, sono un colpo d’occhio. La veste uguale per tutte costringe a cercare l’umana individualità in quei tratti del volto che si vedono, e si resta così, un po’ imbarazzati, di fronte a questi sorrisi. Esprimono per tutto l’incontro un’allegria intensa, semplice e spontanea, che è certamente la vera vitalità di chi si dedica a Dio, ma che suona ancora più grata in donne e in ragazze.

Vengo presentato, gli altri si salutano affettuosamente.

È tutto molto spontaneo e semplice, non hanno cerimoniosità né timori né timidezze. Siamo noi, forse, ad averne. La superiora, Claudia, esordisce dando inizio all’incontro. “Dobbiamo raccontarvi dei fatti che sono accaduti”.

Non ricordo bene le parole esatte perché ciò che accade dopo le ha cancellate dalla memoria.

“Circa un mese fa, ci siamo messe a ripulire una stanza, perché è arrivata Alessia, e volevamo prepararla per lei. Nella stanza c’era un sacco di roba, dentro casse e scatole. Soprattutto c’erano dei ricami, molto belli, fatti dalle monache che sono state qui tanto tempo fa, cose di grande valore. Poi abbiamo trovato una cosa particolare, che voglio mostrarvi…”.

E così ci alziamo e seguiamo Claudia. Su una parete della sala che non potevamo vedere, alla nostra sinistra, c’è qualcosa appesa al muro e coperta di un telo. La monaca con un gesto lo fa cadere e viene fuori il ritratto perduto. Lo riconosciamo subito perché è uguale all’incisione, della quale è l’originale, infatti. Ci avviciniamo: è lui. Non c’è dubbio. C’è il volto, il crocefisso abbracciato, il cartiglio sotto.

Non vi dico l’esultanza delle suore e delle novizie nel vedere le nostre facce. Elio quasi vacilla.

Il quadro perduto è stato trovato.

In un monastero di Pennabilli, quasi un secolo dopo la sua scomparsa.

E la compagnia di ventura ha incontrato dodici monache.

*

Morale della favola

Elio ripete spesso di essere stato più volte sorpreso perché: “Le cose mi sono venute incontro”.

Ed è vero, e la storia che ho raccontato ne è un esempio: chi si aspettava che la tela di Bistolli fosse finita in un baule nel convento delle Agostiniane, smontata dal telaio e arrotolata da chissà chi e per chissà quale motivo? Ma soprattutto, come poter prevedere un fatto del tutto casuale, e cioè che le monache la ritrovassero senza cercarla?

È anche vero, però, che lui non è che sia stato ad aspettare mani in mano. Ha girato mezzo mondo, è stato tante volte a Roma a spulciare gli archivi di Propaganda Fide e del Vaticano, ha visitato conventi e biblioteche cappuccine e compulsato ogni sorta di fonti. “Saranno anche venute incontro” gli dico, “però le hai anche cercate”. E non può mica negarlo.

Il Dalai Lama a Pennabilli, nel 1994: di fianco a lui, alla sinistra, Claudio Cardelli; Elio Marini è il primo da destra

Era questo più o meno il dialogo che abbiamo avuto dopo aver rivisto la bozza di questo testo fino al capitoletto che state leggendo. E quindi siamo andati a parlare della ricerca, la Quest, motivo ricorrente nelle leggende e nei miti, da quella del Vello d’Oro a quella del Graal a quella del tetto del mondo. Una figura simbolica complessa nella quale la ricerca esteriore è specchio di quella interiore, e l’una rimanda all’altra.

“E quando noi umani incontriamo qualcuno che cerca, un viandante come il musafir dei racconti arabi, o un pellegrino, come il lama di Kim, o un cavaliere errante o un esploratore, siamo incuriositi dalla sua ricerca, siamo attratti dal suo viaggio, e spesso, senza sapere perché, lo seguiamo. Perché?”.

“Perché vediamo qualcuno che sa dove va, che ha una meta davanti a sé”.

“E perché le cose vengono incontro a chi cerca”.

“E per questo forse che chi cerca non è mai solo”.

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