17 Dicembre 2019

“…e quasi scoppia a piangere, e questo la rende ancora più bella, ancor più desiderabile”. Le poesie inedite di Imre Oravecz

Quando, trent’anni fa, il governo comunista ungherese cercò di stuzzicare il narcisismo del poeta con un premio, una specie di patto con la morale, egli rifiutò. Trattato come dissidente, Imre Oravecz, classe 1943, scrisse una lunga lettera – recentemente pubblicata su “il Giornale” – per negare il prestigioso Premio ‘Attila József’, per annientarlo. “Da quando esiste la letteratura esistono anche i premi letterari. Ci sono premi prestigiosi e ci sono quelli poco importanti. Ci sono quelli che sono un onore per lo scrittore e altri che sono onorati se lo scrittore li accetta. Così è il mondo, questo è il suo ordine. Tuttavia, lo scrittore non scrive perché aspira a un premio. Inoltre, forse uno scrittore si può considerare davvero tale solo quando non aspira più a nulla. Né ai premi, né ad altro”. Che potenza etica, che poetica dell’esistere. Una simile potenza trasuda dal suo romanzo lirico, “Settembre 1972”, pubblicato quest’anno dalle Edizioni Anfora, riconosciuto tra i grandi libri di questa annata editoriale. Imre Oravecz, lo sa chi lo legge, è soprattutto poeta. Grazie alla generosità e al talento editoriale di Mónika Szilaghy, pubblichiamo alcune poesie di Oravecz finora inedite in Italia, che costituiscono parte di una raccolta prevista in pubblicazione per il prossimo anno.

***

Incontro

Era un mattino d’estate,
rugiada posava sui fili d’erba impolverati,
e in lontananza strideva, rombava la vagliatrice,
andavamo a Csikójárás, a giornata, passando da Vágás e dal torrente Baj,
quando da Recsk ci raggiunse il camion scoperto, grigio,

rallentò mettendosi al passo con noi,
ci precedeva un carro,
e non riusciva a sorpassarlo,
perché di fronte arrivava un ribaltabile,

aspettammo
finché la polvere sollevata ricadde,
poi ci guardammo,
e come a un cenno affondammo rapidi le mani in tasca,
e gettammo ai reclusi le sigarette già pronte,
perché avevamo sentito
che era la cosa che più gradivano,

non ne seguì alcun guaio,
il Csepel non frenò,
i berretti piatti non intervennero,
sedevano in fondo al pianale, mitra stretti tra le ginocchia, visi rigidi, impassibili,
e fecero come
se non si fossero accorti di nulla,

eravamo fieri di noi stessi,
e ci rendemmo conto

di quanta paura avevamo avuto,
solo quando il veicolo accelerò nuovamente,
e scomparve in direzione della sua vicina meta, il cantiere stradale,
perché ci mettemmo a correre,
e ci fermammo solo alla ferrovia,
dove solevamo deporre la zappa, la bisaccia,
ci stendevamo pancia a terra, poggiando l’orecchio alle rotaie,
e orecchiavamo, come nei film di partigiani,
se giungeva o no il treno.

(1) Famigerato campo di lavoro nell’epoca socialista.
(2) Marca del camion.

*

Esecuzione

La giovane moglie cincischia col grembiule,
gli occhi le si riempiono di lacrime,
e quasi scoppia a piangere,

questo la rende ancora più bella, ancor più desiderabile,

beh, suo marito proprio non arriva, dice l’esecutore seduto al tavolo della cucina,
e continua a giocherellare con il registro dell’ammasso,

arriva, arriva, è che la monta va per le lunghe,
risponde la donna, e si sente
invadere anche da un altro tipo di eccitazione,
e ha la voce roca,
come quando da ragazza un giovanotto l’andava a trovare,
ciò l’intimorisce e la fa ammutolire,

ma certo, l’asseconda il giovane di bell’aspetto,
sa che mente,
aveva visto il contadino dalla finestra del comune,
andava nel bosco, col carro,
per questo aveva programmato così la visita,
e comunque nessuno fa montare due cavalli contemporaneamente,

guardi, dice, e fa cenno al collega di uscire,
il suo sguardo scivola sul muro, sul diploma per il Corso per Agricoltori Spiga d’Oro,
da lì sul calendario a muro Terra Libera,
in cui allegre colcosiane sovietiche raccolgono il cotone in maniche di camicia,
poi ancora sulla donna,

possiamo intenderci, non sono uno così cattivo io,
e con sguardo significativo fissa negli occhi la donna,

lei non dice nulla, ma se ne sta immobile in ciabatte in mezzo alla cucina,
e abbassa gli occhi,
lotta con sé stessa,
poi lentamente si sbottona la camicetta,
ma il liquidatore fa cenno di no,

si alza, va dietro alla donna,
la bacia sul collo,
e con delicatezza le spinge in avanti la testa,
giù fino all’altezza della vita,

è ancora l’uomo ad alzarle la gonna e la sottoveste,
ma le mutandine se le toglie lei da sola,

all’inizio si vergogna,
visto che nemmeno fa per resistere,
come una puttana, come una zingara, pensa tra sé,
poi le viene in mente il frumento per la semina,
rinvenuto fra lo strame,

questo la tranquillizza,
il viso le si arrossa, non ha più sensi di colpa,
ora piace anche a lei,
è solo per lei un po’ inusuale così da dietro, in piedi,
con suo marito è abituata a quattro zampe, sul letto,
le è ignota questa usanza cittadina,

scosta dal seno la mano dello sconosciuto,
gliela sposta indietro sui fianchi,
si china ancora di più,

inarca la schiena,
afferra con forza la sponda del letto di fronte,
prende lo slancio,
e inizia a muoversi ritmicamente a contrasto,

chiude gli occhi,
la crocchia le si scioglie,
e non la disturba neanche
essersi dimenticata di girare la chiave,
o che nella culla il bimbo può svegliarsi,
perché le paperette si sono spaventate e schiamazzano forsennate nella cassetta.

Imre Oravecz

*traduzione italiana di Vera Gheno

**In copertina: lo scrittore ungherese Imre Oravecz (1943)

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