“La voce si libera dalla sua origine, l’autore fa ingresso nella sua stessa morte, la scrittura comincia”, Roland Barthes, 1967.
Fare letteratura, secondo Barthes, è “il negativo dove si perdono tutte le identità, a cominciare da quella di chi scrive” (La Morte dell’Autore, 1967). Il Testo con la T maiuscola dovrebbe essere, di conseguenza, completamente indipendente dall’identità – e dall’esistenza stessa – del suo autore: “è la Lingua a Parlare, non l’autore”. In Il piacere del Testo (1975) Barthes rivisita la famosa immagine del testo come tessuto o tela del ragno, introducendo l’idea che “il Testo sia creato e definito in un intreccio perpetuo”, e “perso in questo tessuto – in questa trama – il soggetto si disfi, come un ragno che si dissolva nelle secrezioni che creano la sua tela”.
Amata o detestata, condivisa o categoricamente respinta, l’idea della morte dell’autore è indubbiamente uno dei pilastri delle teorie letterarie del nostro tempo. Cosa succede se si prova ad applicare la scomparsa dell’autore non a un’opera originale, ma invece alla sua traduzione, e in particolare a quella serie di traduzioni o trasposizioni femminili o femministe di grandi opere letterarie del passato? In questo contesto, che influenza ha il genere di chi traduce sulla traduzione? E quale potere sui lettori contemporanei nell’approccio a testi (Testi) fondamentali del nostro patrimonio culturale nonché del nostro modo di pensare?
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In Dire Quasi la Stessa Cosa (2003) Umberto Eco sostiene che, nell’approcciarsi alla traduzione di un testo, spesso non si possa davvero capire “quale sia la cosa [che dovremmo tradurre]” e in alcuni casi sia difficile anche solo determinare “cosa voglia dire dire”. Secondo Eco, guardare alla traduzione come un processo per riuscire a “dire la stessa cosa in un’altra lingua,” per quanto consolatorio, è riduttivo e semplicistico. Invece, considerate la complessità e le differenze linguistiche e culturali tra cui il traduttore deve mediare, il meglio in cui si possa sperare è “dire quasi la stessa cosa”. Il lavoro del traduttore è allora anche – se non soprattutto – quello di fare scelte e aggiustamenti, nella speranza di riuscire a veicolare il significato e il valore generale dell’originale a una contemporaneità che non solo parla un’altra lingua, ma è caratterizzata da un insieme di norme sociali e culturali completamente diverse da quello in cui il testo si è formato. L’atto del tradurre diventa allora non solo un’interpretazione a partire da un’originale, ma un vero e proprio atto creativo, che dà vita a un’opera completamente nuova, con lo scopo di comunicare lo stesso significato.
Ne segue che la figura del traduttore può essere vista almeno parzialmente – per lo spazio creato dal quasi di Eco – come quella di un architetto di qualcosa di nuovo, con in mente l’originale e l’obiettivo di rispettarne attentamente la forma scritta. A questo punto, tornando al problema iniziale, il traduttore dovrebbe morire come l’autore? O le caratteristiche del corpo che scrive hanno un peso nella traduzione che non può essere ignorato?
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“Universalmente” propone Borges nel saggio Due Maniere di Tradurre “immagino ci siano tipi di traduzione: una è la pratica della letteralità, l’altra della parafrasi”. In Versioni Omeriche sostiene che, data l’esistenza di questi due modalità opposte, “la traduzione sembra destinata a generare un dibattito estetico,” estremamente polarizzato, che non ammette un vero e proprio punto di arrivo.
Nel novembre 2017 è uscita, edita da Norton, la prima traduzione dell’Odissea in lingua inglese di una donna, la professoressa Emily Wilson: un esempio illuminante di questo tipo di problematica, nonché un caso editoriale estremamente celebrato nel Regno Unito e in tutti i paesi anglofoni. Secondo il Guardian, il lavoro di Wilson sull’Odissea sarebbe destinato a “cambiare per sempre il nostro modo di comprenderla”.
Prima di allora la traduzione dei poemi omerici in lingua inglese era stata un’attività esclusivamente maschile. Ci sono state solamente delle riscritture femminili, come Il Canto di Penelope (2005) di Margret Atwood, che racconta il punto di vista di Penelope degli eventi narrati nell’Odissea. La studiosa Sherry Simon nel suo libro Gender in Translation (1996) ha spiegato come “il femminismo sia stato una delle forme di identità culturale più potenti ad affrontare l’espressione sociale e linguistica”. Eppure si è dovuto attendere fino al 2017 per poter leggere una traduzione integrale in inglese dell’Odissea per mano di una donna, preceduta solo da quella di Caroline Alexander dell’Iliade, nel 2016.
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La traduzione della Wilson è articolata in pentametri giambici, una scelta poco comune, come spiega lei stessa nell’introduzione: “la maggior parte dei traduttori di Omero non ha tentato di usare una metrica regolare, anche se il testo è spesso disposto sulla pagina come se fosse in versi”. L’originale Greco è in esametri, “il metro convenzionale per i versi narrativi della Grecia arcaica”, la scelta del pentametro giambico è motivata dal fatto che sia “il verso convenzionale per la narrativa in versi inglese”, presente in Chaucer, Shakespeare, Milton, Keats e molti altri. La traduzione di Wilson ha l’esatto numero di versi dell’originale greco.
Wilson non solo ha tradotto il poema, ma riconosciuto e accettato il suo ruolo come (prima) traduttrice donna dell’Odissea, mantenendo, nei confronti delle questioni di genere, un atteggiamento in apparenza piuttosto chiaro: mentre nei traduttori precedenti si identifica la tendenza a utilizzare un linguaggio sessista a loro contemporaneo con lo scopo di tradurre quello utilizzato nell’Odissea, Wilson nella prefazione al testo spiega come abbia cercato di “evitare di importare tipologie di sessismo contemporanee” e allo stesso tempo “far luce sulle particolari forme di sessiamo e patriarcato che sono effettivamente presenti nel testo”. Adottando questa politica si potrebbe tuttavia correre il rischio di tradire – più che tradurre – il testo originale, in cui alcuni episodi hanno uno stampo marcatamente sessista. C’è da chiedersi insomma se sia possibile veicolare il significato dell’Odissea senza utilizzare un linguaggio apertamente sessista. Secondo Wilson questo sarebbe possibile perché il sessismo che caratterizza l’Odissea è di natura diversa e “solo in parte familiare alla nostra visione del mondo”.
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Per esempio, nella scena in cui le dodici ancelle accusate di aver giaciuto coi Proci vengono impiccate, alla fine del poema, la maggior parte dei traduttori precedenti “usa un linguaggio offensivo”, con parole come “sluts” o “whores” (lett. troie, puttane). Wilson non trova alcuna giustificazione linguistica che possa motivare questa scelta, mentre ritiene che l’uso di questi termini dia l’idea, non presente nell’originale, “che queste donne vengano punite per un comportamento genuinamente discutibile, come se la loro storia sessuale giustificasse in effetti la loro morte”.
Wilson ammette che la sua, “come ogni altra traduzione, sia un testo diverso dal poema originale,” e ritiene “necessario ripensare i termini in cui parliamo della traduzione”: “non esiste una traduzione”, scrive nella nota introduttiva, “che offra qualcosa di simile a una finestra trasparente attraverso cui il lettore possa vedere l’originale”. Ecco perché, attraverso l’atto del tradurre, è possibile prendere una posizione nei confronti di un testo e della società a cui ci si rivolge. Wilson legge “il grande Poema di Omero come un’articolazione complessa e veritiera delle dinamiche di genere che continuano a tormentarci”: “L’Odissea ci regala una traccia della profonda paura degli uomini davanti al potere delle donne, e ci mostra il terribile danno recato alle donne, e forse anche agli uomini, dalle strutture sociali androcentriche che ci hanno zittite e limitate”.
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Dopo aver letto la traduzione di Emily Wilson risulta quindi difficile condividere un’applicazione della morte dell’autore alla figura del traduttore. Nel momento in cui ci si approccia a un testo già formato, contrariamente a quando lo si crea, prendere una posizione è necessario per poter fare un buon lavoro. Posizione che difficilmente può prescindere da chi siamo, dal momento storico e dal luogo in cui ci troviamo. Per dirla con Virginia Woolf, la tela che è la traduzione, è “attaccata, magari con leggerezza, ma sempre attaccata, alla vita a tutti e quattro gli angoli”. La tela della traduzione è risultato del complesso intreccio che si forma tra il testo originale, le condizioni in cui si traduce e la persona del traduttore. Da questo processo si viene a creare un nuovo intreccio, forse ancor più interessante: quello formato dall’insieme delle traduzioni di un testo attraverso il tempo, lo spazio e le persone che l’hanno tradotto – con le loro differenze – e che è, in definitiva, un universo di infinite possibilità per il testo di continuare a vivere.
Matilde Moro
*In copertina: il Polifemo di Giulio Romano a Palazzo Te, Mantova