Questo Francesco Dezio è uno scrittore ben strano: parla della realtà. Avete presente quelle cose brutte, tipo la gente che lavora in fabbrica, o quelli che guadagnano meno di mille euro al mese? E noi che ci eravamo ormai convinti che la letteratura fosse tutta incentrata su maghetti preadolescenti con i super poteri, o peggio ancora sui commissari di polizia – oh Signore, i commissari di polizia! E mica Dezio si è limitato a scriverne una volta sola di questi individui così poco romanzeschi. No, Signori! Sta testa dura ci ha costruito tutta la sua, per quanto ancora breve, carriera letteraria. E ciò, per di più, senza inserirci neppure una sfumatura di grigio, rosso, o nero. Solo vita di merda, lavori di merda, e via dicendo. Pensate un po’, leggendolo, potreste scoprire che l’esistenza non si svolge in una sala delle torture, dove un ricco signorino miliardario frusta sul culo giovani studentesse universitarie vergini – perdonate lo spoileraggio, ma vi ho appena risparmiato la lettura di cinquecento pagine piuttosto grigie.
Se anche voi, dunque, non vi identificate con quelli che navigano nell’oro o sono dotati di poteri magici, vi invitiamo a conoscere quest’uomo comune che a un certo punto ha deciso di fare lo scrittore, rivelandosi tutto fuorché una penna qualsiasi. Avvicinatevi gente. Guardate da vicino uno che iniziò, pur senza avere santi in paradiso, pubblicando con Feltrinelli (Nicola Rubino è entrato in fabbrica), per poi essere rilanciato da TerraRossa Edizioni di Giovanni Turi, il suo attuale editore. Noi siamo andati a intervistarlo in occasione dell’uscita del suo ultimo libro, La gente per bene.
Venite, gente, avvicinatevi. Benvenuti nella realtà. State solo attenti a non farvi mordere.
Francesco, chi è la gente per bene del titolo?
Tutti quanti si sentono per bene e tutti quanti siamo un po’ la gente per bene. Perfino quegli imprenditori che io attacco così ferocemente. Ognuno pensa di trovarsi dalla parte giusta, in particolare quelle categorie che l’unico bene che vorrebbero fare è il loro. Quelle stesse raccontate da Matteo Salvatore, un cantastorie foggiano, menestrello della disperazione dal talento istrionico, sfottente e genio ribaldo – una vita da farci un film – ripreso anche da Capossela, che nella canzone Padrone mio dice “Padrone mio, ti voglio arricchire”. Il pezzo mi ha accompagnato durante tutta la stesura del romanzo. Ma questa espressione antifrastica – la gente per bene –, così come il mio sarcasmo, si spiegano ancor di più alla luce dell’esergo, tratto dal Bianciardi di Il lavoro culturale, che penso calzi alla perfezione con questi temi: “La gente per bene aveva a noia questa folla di omaccioni massicci, troppo vestiti e troppo sudati, che certamente non odoravano di rose”.
Quella che racconti tu non è solo la storia di un uomo, ma di un Paese, l’emblema di quella realtà che tutti quanti stiamo vivendo…
Si potrebbe quasi parlare di una storia con la quale spiegare il risultato elettorale. Alla fine, come vedi, siamo pienamente sul pezzo. La gente per bene esce proprio in un momento in cui i nodi stanno venendo al pettine. C’è una grande rabbia sotterranea che attraversa il Paese e, sul fronte opposto, un’altra Italia che rifiuta invece di sentirsi raccontare simili storie in letteratura, preferendo lo stupido e vuoto intrattenimento. Certo, la narrativa è sempre più distante da questi temi, come dalla gente. Quasi la schifa. Non c’è proprio la volontà di raccontare come se la passano questi individui che non leggono, non sono borghesi, ma persone normali che fanno lavori di merda – quando hanno la fortuna di avere almeno un lavoro di merda! La letteratura non vuole descrivere ciò che abbiamo sotto gli occhi, il fatto che oramai si lavora al minuto, questo mondo insensato insomma. Ma, io, è di questa insensatezza che volevo narrare e l’ho fatto cercando di usare anche dei toni comici, perché questa grande disfatta è al contempo una grande commedia a cui non si trova soluzione purtroppo.
Restiamo su questo punto ancora un attimo. La storia che hai raccontato, dicevo, è anche una storia italiana, che ripercorre tutta la traversata del periodo repubblicano fino a oggi. Tu parli inoltre della tua terra, dell’esplosione del settore manifatturiero, nella fattispecie legata al mondo del divano.
La zona in cui vivo era una specie di triangolo delle Bermuda economico, sito tra Altamura, Santeramo, Matera. Conosciuto appunto come il polo del divano e che, a suo tempo, non aveva niente da invidiare ad altri distretti del Nord. Non a caso, noi eravamo considerati i veneti della situazione. L’altamurano è sempre stato conosciuto come un grande lavoratore, una bestia da soma. Non potevo esimermi dal raccontare anche questa realtà poco conosciuta. Ho compiuto tale operazione partendo dalle origini, per far capire come il mondo del lavoro sia andato sempre peggiorando, o, perlomeno, come le dinamiche di sfruttamento siano rimaste identiche lungo tutte le tappe della nostra storia.
In effetti, nel libro, anche il succedersi delle generazioni è un modo per descrivere l’Italia…
E un modo per dirla tutta, una volta per sempre. Raccontare come stanno le cose…
Cose che, peraltro, tu ben conosci…
Certo. Io parlo di un mondo che ho vissuto per anni, con cui sono andato a impattare, anche come tecnico delle industrie meccaniche, in particolare come disegnatore.
Come si scrive un romanzo sociale?
A me viene automatico. Non riesco a non affrontare queste tematiche. Tutto parte dalla rabbia accumulata che poi si tenta di mettere su carta, per fare il punto della situazione. È così che mi sono ritrovato tra le mani un romanzo di questo tipo. Volevo solo raccontare della mia incontenibile incazzatura.
Quali sono i tuoi precursori nella narrativa italiana?
Senz’altro il Bianciardi di La vita agra. Un altro è Ottiero Ottieri, con Donnarumma all’assalto, un romanzo dall’impronta fortemente realistica. C’è poi un altro illustre dimenticato, Tommaso Di Ciaula, che scrisse Tuta blu. Ire, ricordi e sogni di un operaio del Sud., uscito per Feltrinelli nel 1978. In quel testo raccontava appunto le vicissitudini, i sogni e la disperazione dell’operaio, o operaio massa come si diceva una volta, ma meglio ancora il metal-mezzadro, una categoria coniata per indicare chi si divideva, nell’attività lavorativa, tra la campagna e l’officina. Ho sempre letto con grande piacere tutto quel che concerne la letteratura operaista. Ma devo riscontrare con rammarico che non vi è niente di assimilabile nella narrativa attuale. Un tempo alla Feltrinelli, pensa un po’, c’era una collana denominata I Franchi Tiratori, in cui si dava la possibilità a dei signori nessuno di raccontare le loro storie. Tanto per fare un nome di quelli che spuntarono a quei tempi: Gavino Ledda, con Padre padrone. Oggi, invece, quel genere di narrativa è diventato marginale. Io, dalla Feltrinelli, per intenderci, mi sono sentito dire che certe tematiche sono un déjà vu. Chiaramente, non condivido questa visione. Ho casomai la sensazione che non si voglia dare spazio agli outsider, a chi non vuole stare dalla parte giusta della barricata.
Per come la vedo io, ma mi pare che tu condivida la mia visione, la letteratura si è fatta ancella della propaganda. Il tentativo è quello di cercare di restituire una visione il più edulcorata possibile della realtà, che non offenda e non induca alla riflessione sociale.
Esattamente. La letteratura è nelle mani della borghesia. È lei a scriverla e sempre lei ne costituisce l’acquirente principale, quello a cui pensano gli editori quando selezionano i testi. Testi che, poi, sono la spazzatura che viene data in pasto alla gente comune, dalle storie dei vari commissari Montalbano, a Fabio Volo. Si tratta di racconti privi di senso, che non esprimono niente, che non mi rappresentano, che non raccontano il mondo che ho vissuto. In ultimo, la narrativa deve essere una rappresentazione della realtà. Se l’editoria viene meno a questo proposito, tanto vale rifarsi solo ai classici e smettere di leggere i contemporanei.
Ne convengo. La classe sociale dominante impone la sua visione del mondo, attraverso tutti gli strumenti a disposizione, quindi anche la letteratura. Ma c’è un aspetto che mi ha molto colpito del tuo romanzo e sono quasi certo che pochi, nell’idiozia generale diffusa, lo noteranno. Il tuo personaggio non è uno dei soliti cretini convinti che il lavoro nobiliti l’uomo. Fondamentalmente, l’incapacità di inserirsi nel tessuto sociale, al di là del fatto che venga umiliato sul piano lavorativo o che proprio non trovi lavoro, al di là di questo, lui per primo sente una sorta di refrattarietà, un rigetto di quell’universo, perché sa che il lavoro, qualunque lavoro, non è uno strumento di affrancamento, o di realizzazione di sé. Per questo la sua è una rivolta, oltre che sociale, esistenziale, contro la stolta mentalità che osanna la fatica.
Sì, assolutamente. Infatti, ho insistito molto sulla cosiddetta mentalità degli imprenditori, sulle loro idee balorde: un’attitudine a metà tra il padrone e il buon padre di famiglia, attraverso cui vorrebbero assoggettare tutti, anche i dipendenti, rendendoli dediti alla loro causa, degli yes man che…
… Non devono lavorare per vivere, ma devono vivere per lavorare…
Alla fine, sì, la loro morale è quella: vivere per lavorare. Sai, mi hanno sempre fatto sorridere le loro biografie. Per questo ne ho creata una ad hoc, nel libro, su un modello di affarista del sud, la cui industria riesce anche a farsi quotare a Wall Street. Questo rappresenta un esempio per indagare la pochezza di simili individui. Nel romanzo, come avrai notato, ci sono vari punti di vista, quello dell’operaio così come quello dell’imprenditore. Volevo dare voce a entrambi.
Ciò che pensavo, leggendo la biografia dell’imprenditore dei divani, è che in realtà lui è uno schiavo, proprio come i suoi operai, perché è vittima di un circolo vizioso: la logica della produzione. L’unica differenza tra lui e i suoi sottoposti è che lui è uno servo con un reddito maggiore.
Di biografie di imprenditori ne ho lette a centinaia e posso confermare che, effettivamente, si sentono realizzati unicamente dal produrre. Per il resto non hanno alcun altro valore aggiunto, anche a livello umano. Sono privi di interessi, delle persone orribili fondamentalmente. Esseri unidimensionali. Se nella descrizione che ne do sembra che abbia semplicemente creato una macchietta, una caricatura, è perché loro stessi sono, spesso senza rendersene conto, la caricatura di sé stessi. Da questo punto di vista, non ho dovuto inventare granché.
Come hai scritto questo romanzo? Vorrei sapere delle tue scelte relative al registro linguistico, per esempio delle molte frasi in dialetto che hai inserito evitando di usare un italiano pulito. Mi piacerebbe anche sapere quanto tempo ci hai messo per portare a compimento il lavoro.
Per scriverlo ci ho messo circa un anno. Per il resto, devo dirti che mi piace molto giocare con il gergo. Si tratta di uno stile che ormai ho introiettato. Far parlare la gente in un libro non è semplice, rendere in modo realistico la commistione tra dialetto e italiano che sporca entrambi e crea una lingua di mezzo. È un esperimento che mi sono arrischiato a compiere, cercando di non eccedere, in modo tale che il testo potesse risultare comprensibile a livello nazionale. Credo sia fondamentale muoversi tra questi diversi registri, tanto quanto usare termini specialistici lì dove questi tornano utili a rendere gli aspetti più operativi del sistema.
Vorrei chiederti come è stato l’intervento sul testo di Giovanni Turi, tuo editore ed editor.
Si è trattato di un intervento di sottrazione. Giovanni ha eliminato un po’ di pagine inutili, per esempio il capitolo più sessualmente esplicito che risultava un po’ fuorviante. C’è da sottolineare, comunque, che fra di noi il confronto e la discussione sono stati costanti. Personalmente, io ho sempre teso a una revisione forte del testo, nel tentativo di giungere a una parola il più possibile esatta e, soprattutto, essenziale.
Matteo Fais