29 Luglio 2019

Nasce “Odiare ti costa” per punire, leggi alla mano, chi ti offende sui social. Buone intenzioni per un progetto ambiguamente giustizialista e assai discutibile. La libertà vale di più

Nasce “Odiare ti costa”, campagna contro l’odio in rete, promossa dall’avvocato e attivista Lgbt Cathy La Torre (Studio legale WildSide Human First) e dalla scrittrice e filosofa Maura Gancitano (fondatrice dell’associazione Tlon). L’obiettivo dichiarato è trovare strumenti legislativi per arginare le offese sui social, con particolare attenzione a quelle sessiste, razziste e omofobe in quanto più frequenti.

Le promotrici portano ad esempio soprattutto gli auguri di stupro e di morte ricevuti da Carola Rackete (Cathy La Torre è tra l’altro sua legale) e Laura Boldrini. Ci tengono però a sottolineare che “anche Giorgia Meloni è stata vittima di insulti sessisti e minacce sulla sua bacheca, ed è egualmente vergognoso ed egualmente da condannare” perché, pur essendo evidente l’area ideologica delle artefici, “non è un’iniziativa politica”.

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I dettagli della campagna non sono ancora stati completamente rivelati, per ora c’è solo un invito: spedire a una mail, sotto forma di link, tutti i commenti di odio reperibili on line, ricevuti in prima persona o da altri, espressi verso persone famose o comuni. L’obiettivo è fare in modo che ogni commento offensivo comporti una sanzione pecuniaria, da cui appunto il nome, “Odiare ti costa”. In pratica, colpire l’odiatore nel portafoglio, visto che un cuore a quanto pare non ce l’ha.

Da osservatrice dei social (opinionista? cazzeggiatrice? perdigiorno? scegliete voi) quest’iniziativa mi ha suscitato l’immediata domanda: cui prodest? La verità è che in rete siamo molto meno anonimi di quel che crediamo. I dispositivi con cui ci connettiamo sono identificabili e geolocalizzabili. In caso di reati effettivi, la polizia ha il diritto di chiedere agli ISP (Internet Service Provider) tutti i dati relativi all’IP. Chiamarci sui social Mario Rossi o Stella Marina non ci garantisce alcuna immunità, se non dalla curiosità morbosa del vicino di casa. In caso di pedofilia, terrorismo, ma anche diffusione di contenuti privati, ricatti, minacce ripetute, furto d’identità e ora anche revenge porn, la legge già tutela le vittime. Oltre a questo, sappiamo che Facebook – ricordiamolo, piattaforma privata – ha al suo interno un sistema di segnalazioni e sospensioni di account, certo imperfetto, insufficiente o a volte eccessivo e facile alle cantonate, ma comunque presente e perfezionabile, oltre a fornire a tutti gli utenti lo strumento individuale e potente del ban.

Cosa vorrebbe quindi aggiungere, alla legge dello Stato e ai regolamenti interni dei social, l’operazione “Odiare ti costa”? Non è ancora chiaro dove voglia collocarsi, ma alcuni segnali inquietanti emergono, primo fra tutti il nome. Sarà forse il mio un cavillo linguistico, ma come si può pensare di sanzionare non un’azione, ma un sentimento, per quanto negativo?

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La legge, al momento, è chiara: augurare il male non è reato, a meno che non si risolva in una minaccia concreta. Ti auguro di morire, ti auguro di essere stuprata, ti auguro di essere riempito di botte, non sono minacce. Certo, sono esternazioni pessime, rivelatrici di profondi malesseri, angosciosi stati d’animo, rabbia repressa, invidia, forse desiderio, spesso disprezzo di sé, vuoto dell’esistenza, per lo più associati a molto tempo da perdere. Ma non sono reati, al momento. Vorrebbe quindi “Odiare ti costa” istituire nuovi illeciti?

Il diritto è complesso e in alcuni di questi commenti si potrebbe di certo ravvisare l’ingiuria. Si tratta però di molti commenti, sparsi su molti post, scritti da autori spesso sotto pseudonimo. Insomma, un lavoro immane, che intaserebbe uffici e tribunali normalmente dediti a questioni un po’ più importanti. Forse, quindi, lo scopo è scandagliare tutto il web (appaltando agli utenti stessi buona parte del lavoro) alla ricerca di tutto ciò che ora inevitabilmente sfugge, per occasionalità o per scarsa rilevanza. Anche vista in questo modo, rimane un po’ inquietante questa psicopolizia social, per tre ordini di motivi.

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Il primo è legato al mezzo. Il social è come il mondo reale? Offendere su un social è come farlo per strada? Questo sostengono le promotrici, ma non è proprio così. Le parole hanno il loro peso, ma la presenza materiale non è irrilevante. Sui social siamo incorporei, e questo ci modifica. Una frase di odio detta guardando negli occhi l’altro, e anche in quel caso va esaminato il contesto, non è paragonabile alla stessa frase scritta da un estraneo a un estraneo, specie se famoso. Un uomo che dice alla donna che ha davanti “ti auguro di venire stuprata” si trova lì, con la sua materialità, la sua fisicità maschile, la sua maggior forza fisica. Lo stesso uomo alla tastiera di un pc, per quanto sgradevole e disprezzabile nella sua esternazione, trasmette sì un concetto violento, ma dalla consistenza di un fascio di elettroni. Una persona, di qualunque sesso, che dica a un altro “ti ammazzo”, sia in un ufficio o in un bar, lo sta dicendo a quella persona, ma chi lo dice a un contatto social, lo dice alla rappresentazione dell’altro e all’effetto che questa ha su di sé, come in un gioco di ombre. A meno di situazioni particolari per frequenza e accanimento, di cui appunto la legge già si occupa, non sta augurando di morire a quella persona, quanto piuttosto al capo arrogante, alla compagna che l’ha tradito, al marito che se ne è andato, al lavoro perduto, ai figli ingrati, al vigile che gli ha fatto multa, a tutto ciò che nella sua vita, a torto o a ragione, lo massacra ogni giorno. Con questo non si vuole giustificare ciò che è evidentemente sbagliato, ma “il medium è il messaggio” di McLuhan è una grande verità, che vale anche per gli insulti.

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Il secondo è legato alla forma. Prima di parlare di risarcimenti, bisognerebbe definire cosa è insulto. Il social, proprio grazie alla sua forma multimediale e prevalentemente scritta, è un contenitore variegato e multiforme. A meno che non si decida che solo alcune espressioni ben definite, quali ad esempio i già citati auguri di stupro e di morte, sono insulto, ci si troverà di fronte al trasformismo e alla creatività del popolo social, che avrà pur dato voce, come disse Eco, a legioni di imbecilli, ma anche a falangi oplitiche di fottuti geni. Non ci vorrà quindi molto prima che gli auguri di stupro si mutino in “le auguro di perdere la sua virtù sotto colpi di virile violenza”, o quelli di morte in “auspico riceverà presto la visita della signora con la falce”. Che fare allora? Se la sostanza è la stessa, ma la forma cambia, potrà il commento essere classificato come satirico, oppure l’eccesso aulico richiederà un obolo ancor maggiore?

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Il terzo è legato ai soldi. Confesso che inizialmente, vedendo la pagina Facebook di “Odiare ti costa”, non ho capito subito che avesse aspirazioni giuridiche. Credevo fosse semplicemente una nuova pagina social, di quelle che vivono di altre pagine social, certo meno costruttiva di The Frontpage Post, che seleziona il meglio in senso letterario, meno divertente di Commenti memorabili e meno irriverente del Signor Distruggere dei tempi d’oro, ma comunque con un suo significato: segnalateci i cattivi, che li sputtaniamo un po’. Cosa che hanno comunque già fatto esponenti di tutti gli schieramenti politici, da Salvini alla Lucarelli. E anche qui ci sarebbe da discutere, chiedendosi se sia giusto che un grande influencer, con la potenza di fuoco mediatica che si porta dietro, metta alla berlina il povero disgraziato di turno, il cui stato fisico e psicologico non è nemmeno verificabile. Ma al di là di questo, il fatto che in “Odiare ti costa” ci siano di mezzo dei soldi rende tutto ancor più rilevante, perché si sa, il resto sono chiacchiere, ma come diceva Bukowski, i soldi sono una cosa seria.

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Voglio credere che l’operazione sia davvero apolitica, e ancor più che non sia limitata solo agli insulti legati al genere e all’orientamento sessuale. Essendo infatti questi temi a me cari, non vorrei venissero ulteriormente sviliti rendendo reale la percezione che donne e gay siano in realtà dei privilegiati, quando nella realtà concreta, e specie nelle fasce economicamente più disagiate, non lo sono affatto. Voglio quindi credere a ciò che è stato dichiarato, cioè che la tutela sarebbe la stessa per tutti, uomini e donne, gay e etero, neri e bianchi.

Ora, nell’ultimo anno, i Salvinimerda che ho letto su Facebook non si contano, e suppongo anche questi siano perseguibili, tanto quanto gli odiosi insulti a Rackete e Boldrini, ma anche a Renzi, Bonino, Conte e così via. Ieri ho letto un post che diceva “Albano fa schifo”. Ora, la mancanza di un semplice ‘mi’ può trasformare un parere personale, per quanto duro, in un insulto. Partirà quindi un assegno per Cellino San Marco? Non oso pensare quanti soldi entrerebbero nelle casse dei nostri politici e vip di vario genere, già piuttosto abbienti, sotto forma di risarcimenti da parte degli odiatori, per lo più, suppongo, di reddito medio o medio basso. Vogliamo davvero togliere anche solo 100 euro a un operaio o a un impiegato, per quanto moralmente abbietto, per portarli nelle casse di uno qualsiasi dei succitati? Io stessa, pur mediaticamente irrilevante, in occasione di post controversi ho ricevuto la mia dose di odio. Forse impegnandomi potrei arrivare a mettere insieme, a fine mese, uno stipendio medio senza più lavorare. Certo, non arriverei ai livelli dei famosi, che potrebbero farsi la terza villa grazie alla questua dell’odio. Chissà, che le promotrici stesse non sperino, sotto sotto, di ricevere molti insulti?

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Volendo poi puntare sull’effetto deterrente, dove verrà posto il limite tra insulto e opinione personale, prima che si sfoci nella censura? Già il politicamente corretto avanza ogni giorno di più, e più che mitigare l’odio lo rafforza.

Non voglio sminuire il fenomeno. Gli auguri di stupro, o frasi come “buon appetito ai pesci” non sono accettabili, da qualsiasi posizione politica li si guardi. Non meriterebbero più attenzione di un matto che urla per strada, ma su un social possono creare effetti branco sgradevoli, e andare oltre quel che chiamerei “il prezzo della popolarità”. Credo però che il social non sia il mondo reale, e che a meno di reati effettivi e già sanciti dalla legge ciò che avviene sul social debba essere sottoposto alla legge del social: il ban, la contestazione da parte degli altri utenti, la segnalazione. Nei casi reiterati, anche la sospensione definitiva dell’account. L’utente ne potrà creare un altro, ma non all’infinito: già ora Facebook chiede spesso il numero di cellulare. Forse una maggiore efficienza delle regole interne potrebbe evitare la nascita di forme ambigue e discutibili di giustizialismo, come “Odiare ti costa” potenzialmente può diventare.

Viviana Viviani

Gruppo MAGOG