28 Gennaio 2018

Ode spericolata – con tanto di esempi – delle mogli degli altri. Perché la felicità è una questione un po’ truffaldina

“Perché la vita è tenerezza/ Perché si muore di tristezza”, o almeno così cantava Paolo Conte in quella sua vecchia canzone, Lo scapolo. Non sono sicuro della tenerezza, ma la tristezza è certo una costante. Per fortuna, non si è sempre soli a grattare la propria rogna. Saltuariamente capita che, a farci compagnia, ci sia quella fascinosa categoria, anch’essa citata dal vecchio avvocato di Asti, delle mogli degli altri. E si fa presto, presi ognuno dalla propria malinconia, a ricorrere alla copula per alleviare la pena.

Mio padre me lo diceva sempre: “Tu sei un artistoide, un mezzo fasullo, nessuna donna vorrà mai sposarti”. Non aveva tutti i torti. Le donne sono creaturine meno romantiche di quel che sembra. Se si sposano, vogliono un uomo con la grana e il lavoro sicuro. L’artista, piuttosto, se lo scopano. Sanno che, di solito, è uno spiantato, per niente avvezzo alla stabilità lavorativa e affettiva. Comunque, hanno capito che è ben difficile sia la stessa persona a portare a casa il pane e il godimento. Ce ne vogliono almeno due. E due (almeno) sono quelli che varcano la soglia di casa loro.

Mi ricordo quella ragazza, una giovane sposa. Proprio una di buona famiglia. “Ma mi porti così nel tuo palazzo? Non sarebbe meglio se entrassi prima tu e poi io? Sai, almeno non ci vedono insieme. Lo dico per te”. “Tranquillo, tanto qui sono forestiera. Non conosco nessuno”. Mi cucinava sempre delle belle cenette. Ci sedevamo anche di fronte alla televisione dopo, tenendoci per mano. Le foto del suo matrimonio facevano bella mostra di sé sui ripiani della libreria. Guardandole, pensavo che la felicità ha una natura truffaldina: è più facile fingerla che provarla. Il marito stava fuori. Germania. Aveva perso il lavoro in Italia, ma ne aveva trovato uno molto ben retribuito nella terra della Merkel. Ah, le gioie del cosmopolitismo! Gran bella casa, a ogni modo. Tutti gli asciugamani appaiati e ordinati in piccole pile. Era quasi un gradevole spettacolo estetico. I pavimenti luccicavano come smeraldi. La prima volta che le saltai addosso, mi fermò: “Comunicazione di servizio: non voglio figli e non sono protetta”. “Perdonami, devo andare a frugare nella mia borsa per prendere…”. “Tranquillo, campione, non tutte le vie producono gli stessi effetti”. Sottile, no? Beh, era colta, pure laureata. Sopra il suo letto – mai visto un giaciglio tanto comodo – una gigantografia degli sposi fuori dalla chiesa. Lanci di riso, genitori sorridenti, amici festosi e parenti in delirio. La serata si chiuse con lei che, in un sospiro di animalesca soddisfazione, mi chiedeva: “E tu dove ti eri nascosto?”.

Con un’altra la frequentazione è stata più lunga, ma altalenante. Troppi sensi di colpa da parte sua. Ma si sa, fa tutto parte del copione. Ogni tanto la chiamavo, dovevo insistere un po’. “Sì, ma solo per oggi. Perché mi sento giù, perché ho bisogno di certezze”. Ah, beh, le certezze! Dopo aver copulato sul divano del mio studio, le domandavo di lui. Avevo sempre avuto il sospetto che, come dire, le facesse comodo. Ma le donne, si sa, sono perfide: “Ma tu e lui vi conoscete bene. Prendete entrambi lo stesso ingresso, a volte perfino nello stesso giorno”. Era disgustoso, ma divertente. Ridevamo. “Che troia!”, le dicevo simpaticamente tra uno sghignazzo e l’altro.

Eppure, certo, stasera che “la mia città è sparita/ sarà stato certamente il vento”, mi sento solo e non c’è nessuna. “E mi han dato il mio ruolo di farle godere/ Mi capivano tutto e volevano sapere/ Ma nessuna è disposta a dividere con me/ Una notte come questa, una tristezza come questa”. Ma non importa. Alcune sono sparite, altre torneranno, come torna l’assassino sul luogo del delitto. Di certo, tutte rinnoveranno il tacito patto tra di noi, perché “É meglio per loro, io solo lo so”.

Matteo Fais

Gruppo MAGOG