“L’innocenza è svuotarsi ogni giorno”. Scrivere per Dino Campana, infermo d’assoluto
Poesia
Isabella Bignozzi
Non amo Ocean Vuong – ma non è questo il tema. Poesia troppo ‘americana’ – maglie larghe, impeto narrativo – a volte ingenua, immediatamente riconoscibile. Ocean Vuong è giovane – tra un paio di settimane compie 31 anni –, ha pubblicato tre raccolte di poesie, la prima nel 2010 (Burnings), l’ultima, tre anni fa, Night Sky with Exit Wounds, è stata ornata dal ‘T.S. Eliot Prize’. Il suo primo romanzo s’intitola On Earth We’re Briefly Gorgeus. In Italia Vuong è pubblicato da La Nave di Teseo (bravi), nella traduzione di Damiano Abeni e Moira Egan. Vuong è nato in Vietnam, i suoi l’hanno portato in Connecticut che aveva due anni, ora insegna ad Amherst, alla University of Massachusetts. Credo che la biografia – vietnamita, buoni studi, talento – abbia influito sul suo successo: Vuong scrive in inglese, non è più bravo di un lotto di poeti nostri – dico i primi che ho in capo: Francesca Serragnoli, Federico Italiano, Isacco Turina – ma non è questo il tema. Il fatto è che improvvisamente Ocean Vuong è diventato il poeta più ricco del pianeta. Per lo meno, il più fortunato.
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Il tema qui è la MacArthur Foundation. Quella di John Donald MacArthur (1897-1978), il fondatore della fatidica Foundation, è una storia pia, pura agiografia americana. Nato in Pennsylvania, non precisamente ricco, sfanga come giornalista, poi tenta qualche impresa senza successo – il fallimento è fondamentale nell’epos Usa – poi comincia con le assicurazioni, settore dove opera il fratello Alfred. Lì sfonda, fa un sacco di soldi, diversifica le attività. Sposa Catherine T. Hyland, più giovane di 11 anni, di ceppo irlandese, piuttosto capace nel supportare l’attività del marito, che gli sopravvive di tre anni. I due, nel 1970, danno vita a una fondazione, che ha sede a Chicago e svariate sedi secondarie, tra le più ricche del pianeta. Il motto di JD è: “Io ho fatto soldi, voi immaginate cosa farne”.
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Ogni anno la Fondazione MacArthur sceglie di finanziare alcuni talenti. Il bello è che, essendo una fondazione privata, fanno come gli pare. Non si accettano candidature e i criteri sono letali quanto vaghi: “Creatività eccezionale; Possibilità di progressi sulla base di una storia significativa; Potenziale che permetta un lavoro creativo ulteriore”. Il carisma è questo: “incoraggiare persone di eccezionale talento a proseguire le proprie inclinazioni creative, intellettuali, professionali”. In un articolo pubblicato qualche anno fa sul “Washington Post”, Five Myths about the MacArthur ‘genius grants’, Cecilia Conrad spiegava che la fondazione premia artisti come artigiani, poeti come scienziati. “Un comitato di selezione segnala alcune personalità, in modo anonimo… negli anni abbiamo premiato, tra i tanti, una ostetrica, una donna che ha usato il suo negozio di parrucchiera per promuovere letteratura tra le comunità latine, un liutaio”. Quando va bene – capitò all’astrofisico Joseph Taylor – qualcuno è messo nelle condizioni, negli anni, di vincere il Nobel, altrimenti, va bene lo stesso. In effetti, i soldi messi sul tavolo dalla MacArthur Foudation non sono pochi. 625mila dollari. Il poeta Ocean Vuong – che secondo me non è migliore di un lotto di poeti nostri – ha nel conto in banca 625mila dollari.
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Mi piacciono due aspetti. L’aleatorietà delle scelte. Non devi mostrare il curriculum, non ti metti in coda. La fondazione scommette sul futuro. Inoltre. Amo la parola rischio. La borsa di studio è assegnata “per continuare a innovare nel proprio campo, per continuare a correre dei rischi e perseguire la propria visione”. I rischi si pagano. Li pagano loro.
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Romanticamente, credo che la povertà forzi il poeta e lo scrittore alla grande opera. Minchiate. La povertà, a volte, provoca frustrazione, morte. “Uno dei grandi fraintendimenti è che la creatività sia un lampo improvviso, che non richieda supporto. Non è così. La creatività ha bisogno di competenza, ha prove da superare, progetti da realizzare. A volte un esperimento non produce i risultati previsti: indica soltanto una nuova direzione da prendere. E senza un supporto finanziario, quella direzione non la puoi prendere”. Così dice Cecilia. Come si sa, esempio tra i tanti, Cormac McCarthy era povero in canna e con un matrimonio sgangherato: grazie a un paio di borse di studio riesce a pagarsi gli anni per scrivere Il buio fuori. Altrimenti, lo avremmo perso, chissà.
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Certo, poi gli americani sono geniali nel marketing. Le sontuose borse di studio sono andate anche a Valeria Luiselli, giovane (classe 1983), messicana, casa a Brooklyn, tradotta in Italia da La Nuova Frontiera e a Emily Wilson, la classicista sponsorizzata ovunque come “la prima donna che ha tradotto l’Odissea in inglese”. Brava. Peccato che gli anglofoni siano più arretrati di noi di 70 anni. Rosa Calzecchi Onesti, infatti, allieva di Mario Untersteiner, su istigazione di Pavese traduce l’Iliade nel 1950, per Einaudi, a cui seguirà la versione dell’Odissea. Per altro, l’impresa fu replicata da Maria Grazia Ciani che traduce, per Marsilio – in modo impeccabile – Iliade (1990) e Odissea (1994). Non mi pare, però, che né l’una né l’altra siano promosse con altrettanta enfasi nel nostro tarlato sistema culturale, come l’Everest della cultura scientifica ‘al femminile’. Svegliamoci, signori, abbiamo il genio sotto il cuscino e non ce ne accorgiamo.
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Mi piace il sistema delle fondazioni private? Diciamo che preferisco la Sicilia alla Florida e l’olio d’oliva alla CocaCola. Solo che. Negli Usa il denaro non puzza e lo usano per fare cultura, con spavalderia. Chi fa tanti soldi – forse perché ha il ginevrino Calvino nella tasca dei pantaloni – si compra l’eternità facendo il mecenate. Foraggiano la propria cultura egemonica? Obviously, cosa dovrebbero fare, finanziare la nostra? Ma siamo noi a fare i sudditi – guardate i libri in libreria: ci sono pile di autori georgiani o rumeni? E a fare la figura dei parassiti quando siamo felici perché nel ranking mondiale delle università quella di Bologna “guadagna tre posizioni, passando dalla 180esima alla 177esima”, evviva, mentre le prime tre posizioni sono tutte americane (MIT, Stanford, Harvard). Il potere dei soldi? Certo. Ma anche quello del cervello. (d.b.)
*In copertina: Ocean Vuong