Amo la pioggia perché rende tutto contrario: fa scempio delle forme, del formalismo della terra da cui esplodono rospi, vermi, bisce, gli arcani del mondo sotterraneo. Il sole, questa gola gialla, scema. Gli alberi, in effetti, potrebbero camminare: l’uomo, in piedi, come il fuoco, considera assopite, grigie le sue mansioni di conquista. Le case, sotto la pioggia, hanno visibili emozioni; ogni scelta è lecita nel malcerto, sotto il maltempo. Da bambino, dormivo in una casa che pendeva sul fiume: l’acquazzone lasciava ipotizzare, almeno, un capodoglio a mezzaria; di solito, quando piove, un odore selvaggio, di volpe, entra dalle finestre, ci inebria.
Da tempo, tuttavia, la pioggia sigilla la mia innumerevole viltà. Il tetto di casa – in direzione del mare – è ingovernabile. Alcune tegole sono rotte, alcune slogate in più punti. La casa è stata costruita intorno agli anni Sessanta, nel sottotetto ho trovato ritagli di lamiera, scarpe spaccate, tra dune babilonesi di polvere, frammenti di piastrelle. Un pipistrello morto. L’acqua è micidiale, si dirama ovunque, e sul soffitto, nelle stanze della casa, sono fioriti arazzi contorti, a volte vi intravedo un unicorno. Il sottotetto dà un senso di pace: sembra di essere al largo, in oceano aperto; la pioggia consente ogni fantasia, la dilata. Naturalmente, cerco, da sotto, di aggiustare le tegole. Con alcune è facile: ritaglio dei pezzi di carta catramata, li incastro. Con altre è impossibile, vanno cambiate. Provo, tuttavia, sparando della colla, sperando di colmare la ferita. Il tetto è come un corpo martire e lo tappezzo di scaglie di ferro, sacchetti, cose così – un crocefisso arlecchino.
L’acqua, però, è micidiale, è entità sacra, gocciola dappertutto, s’insinua, come una mania, chiudi da una parte, sfoga dall’altra. Mi arrendo – armo dei secchi. Quando piove, salgo nel sottotetto, mi godo il rumore – bello come le campane –, svuoto i secchi, li riarmo. La mia battaglia metereologica è infinita: a volte spero che la casa crolli. Non c’è un abbaino che mi consenta di ascendere al tetto, dovrei trovare una scala adatta, imbragarmi, smontare la tegola, sostituirla. Non ne sono capace – chiedere aiuto mi rabbuia – il muratore a cui mi rivolgo (albanese, allegro, sagace) mi dice che ha lavori fino a fine anno, beato lui. L’altro ha gli occhi annacquati nell’alcol.
Dal tetto crepato, tuttavia, ho una visione sulle nuvole, uno spioncino sui reggimenti di Dio. Quando piove, di solito, vado a fare il bagno: il mare ha mille bocche e vorrebbe – lo sento – tramutarsi in angelo, volare. Secondo me, ci sono poeti che hanno il ritmo di una nuvola. Non è semplice avere lo stile di una nuvola: significa ambire alla mutevolezza, sterzare i toni, passare dal viola al candore, frenare il ritmo, conservare una sorta di ineffabile inafferrabilità. Il poeta che imita le nuvole non è ‘solare’, potente, esatto, liturgico – chessò, Shakespeare, Emily Dickinson, Wordsworth, Thomas S. Eliot –; non è ‘terreno’, diretto, erotico, sconfinato – Walt Whitman, D’Annunzio, Baudelaire. Secondo il mio estro – condannabile, va da sé – sono poeti connessi alla nuvola Paul Valéry, a cui mi affido mentre il tetto ondeggia come un lenzuolo (“Il vento si leva!… Dobbiamo tentare di vivere!/ L’aria immensa schiude e richiude il libro/… Rompete, onde! Rompete quel tetto con acque liete…”) e Wallace Stevens (“Il cielo vivo, turgido e fiorito,/ Il tuono brontolante in scrosci d’acqua,// L’alba ancora inondata dalla notte,/ I nembi che sfavillano in tumulto/… So che il mio pigro e plumbeo tintinnio/ è come la ragione nella tempesta”). Entrambi mi sembrano possedere misura aurea e austerità, stanno tra la terra e il sole, posseggono diverse forme: l’apparente sprezzatura nasconde ricami d’abisso.
Le nuvole, forse, sono il generatore dei nostri ricordi: senza le nuvole non potremmo possedere il passato.
In ogni caso, la nuvola è segno ambiguo: definisce la futilità dell’esistenza – “La nostra vita passerà come traccia di nuvola”, dice il libro della Sapienza –; è, soprattutto, il velo e il carro attraverso cui si presenta Dio: Egli è “colonna di nube” (Es 13, 21), “densa nube” (Es 19, 9), “nube oscura” (Es 20, 21). Dio appare aureolato di nubi, “la nube coprì la Dimora” (Nm 9, 15): le nuvole sono il sigillo del segreto di Dio, la tonaca intorno al Nome; chi può schiavare la nube, serratura sopraffina? Durante la trasfigurazione è da “una nube luminosa” (Mt 17, 5) che parla il Padre confermando a Pietro, Giacomo e Giovanni che “Questi è il Figlio mio, l’amato, in lui ho posto il mio compiacimento”.
Che magnificenza: Dio dimora tra ciò che svanisce, tra le nuvole, simili a “rugiada” e a “fumo”, insegna il profeta Osea, cosa labile, senza misura, deforme, che va. Forse è per questo che il poeta Gerard Manley Hopkins era ispirato dalle nuvole: le sue descrizioni sono così analitiche perché tenta la natura di Dio: “Il giorno era piovoso e il vento a ondate: certe parti del paesaggio erano cancellate dalla pioggia. Le nuvole a occidente erano tutte un lembo variopinto – bruno tela di canapa e azzurro latteo – un padiglione di raggi color giallo cupo si apriva lontano all’orizzonte… Tutta la valle più prossima era tempestata dalle allungate schegge dei rombi dei campi in violetto e marrone e verde” (19 ottobre 1874). Come Dio, le nubi sono inconoscibili; ci sono anche quando il cielo ne è privo; determinano la pioggia, che è una rivelazione, scritta, dall’alto verso il basso, sulla pergamena del mondo. Nell’antico testo mistico inglese, La nube della non conoscenza, è insegnato a pregare sillabando una umiltà scalza, priva di salterio: ascendere allo sconosciuto pretende di essere protesi all’al di là del linguaggio, stando fissi in un incendio, tra guaito ed estasi, “una breve preghiera penetra nei cieli”, un inno e un dibattito filosofico sviliscono, sviano. “Il cerchio della terra abbellito di rocce/ Non è come la nube, che a sera si perde,/ Si mostra insieme a un giorno dorato/ E la perfezione non ha lamento”, scrive Friedrich Hölderlin, poeta caduto dalle nuvole, nelle ultime poesie.
Secondo l’esoterista – e collezionista di spade – Juan Eduardo Cirlot, le nuvole “Presentano due aspetti principali: da una parte sono in relazione con la nebbia e con il mondo intermedio tra il formale e l’informale; dall’altra costituiscono l’oceano delle ‘acque superiori’, il regno dell’antico Nettuno. Nel primo aspetto, la nube simboleggia le forme in quanto fenomeni e apparenze, in continua metamorfosi, che nascondono la perenne identità della verità superiore. Nel secondo, le nubi sono generatrici di fertilità e possono ricollegarsi per analogia con tutto ciò che è volto a fecondare” (in: Dizionario dei simboli, Adelphi, 2021). In realtà, le nubi sono lo specchio della mente: la capacità logica esiste in funzione di quella fantastica, il numero supporta il disastro; il vero è nella metamorfosi. Dal capriccio delle nubi dipende la pioggia, che rinvigorisce i boschi: così, l’evanescente installa il duraturo, l’effimero distilla le forme visibili. Che gli alberi si tendano verso il cielo giustifica il loro destino di diventare nuvola.
Alle “nuvole nella tradizione mistica e nella modernità” ha dedicato una serie di conferenze Victoria Cirlot, la figlia di Juan Eduardo, raccolte da Medusa come Immagini negative. Sostanzialmente, racconta la Cirlot, con sfoggio erudito, “le nuvole sono meravigliose, nel caso della teologia negativa medioevale, perché servono come immagine negativa dell’esperienza di Dio nella sua assoluta alterità rispetto all’essere umano e alla creazione, e nella modernità perché permettono di costruire mondi altri, sostitutivi del nostro. In entrambi i casi, la loro meraviglia si basa sulla negazione”. In verità, Laputa, il castello sulle nuvole, è l’autentica alternativa al Leviatano, il mostro statalista: l’ironia di Jonathan Swift, in questo caso, va temperata con le tenerezze, esaustive, di Hayao Miyazaki.
Nel suo studio, tra l’altro, la Cirlot cita Baudelaire, un poeta terreno che mira le nuvole (“Amo le nuvole… le nuvole che passano… laggiù… laggiù… le nuvole meravigliose”, L’étranger) ed Eugène Boudin, paesaggista straziato dalla bellezza delle nuvole, che dipinge Cieli tumultuosi e Nuvole sopra il mare (come, prima di lui, John Constable, che scrutava i cieli di Hampstead). Intorno a Boudin, proprio Baudelaire scrive fogli notevoli: “Alla fine della visione di tutte quelle nubi dalle forme fantastiche e luminose, quelle tenebre caotiche, quelle immensità verdi e rosee, sospese e accumulate le uno alle altre, quali fornaci spalancate, quei firmamenti di raso nero o violaceo, sgualcito, arrotolato o squarciato, quegli orizzonti in lutto o grondanti metallo fuso, tutte quelle profondità, quegli splendori, mi salivano al cervello come bevanda inebriante o come l’eloquenza dell’oppio. È un fatto non poco curioso: neppure una volta, di fronte a quelle magie liquide o aeree, mi è accaduto di rimpiangere l’assenza dell’uomo”.
Sul mio tetto si arroccano le nubi, non credevo che le tegole potessero diventare cifre, elementi di una cabbala notturna, fredda. Tutta questa costellazione di dati, nomi, citazioni non salda il mio tetto, che continua, con biblica ostinazione, a gocciolare, a traballare; eppure, ha il pregio di rendere quel tintinnio sensato. Con le dita, da uno spiraglio delle tegole, posso afferrare una nuvola, la imprigiono nel sottotetto, ha il muso di un carnivoro.
*L’articolo è decorato con dipinti di Eugène Boudin