
Maria: mangime per i cuori, crocefissa senza pietà
Cultura generale
Il segno ricondotto a ragione numerica, l’incommensurabile domesticato in misura, l’anormale stazzato in norme: questo è il sogno remoto dell’uomo, Babele che come un rostro spacca, spertica, scortica i muti ghiacciai celesti. Così, nei secoli, tra i circoli cabbalistici, si è tentato di metrare il corpo infinito di Dio – che genio: l’estro matematico per risolvere quesiti teologici –, di enumerare le falangi angeliche, di contare i denti di Satana. Certo, l’ombra di una cifra adesca il remoto: nel gergo mistico l’esegesi riferisce di un fatto il capovolto, la penombra, il bislacco; eppure: tutto deve essere calendarizzato, nulla sfugga alla tagliola del numero, la creazione ha il sigillo di una data, il Tempio di Salomone è dedotto da accuratissime misure, come se Dio – l’effimera dei nomadi, fumo, tuono, fuoco e voce, adatto a incivilirsi tra tende – si potesse inscatolare in un parallelepipedo d’oro, marmo, pietra, lucori, infine, umani, vili.
Utopia d’uomo: il dio nascosto, essenza essenziale, buco nero, numerabile, il “motore”, l’“essere supremo”, il “disegno”, l’energia prima, e via geometrizzando, elogio del sommo Architetto che tutto ragionevolmente erige, con avvelenata sagacia, a cui si può accedere tramite aristocratica ascesi, perizia d’intelletto. Palle. Perciò, quando Dio si scardina diventando carne, cosa che si tocca, gli puoi mordere l’ascella, puoi ficcargli la lingua in bocca, nessuno gli crede: si presta fede al numero, all’eletta cifra, Eden sperimentabile, mai al corpo (solo da morto, in effetti, tornato ineffabile, reliquia da smerciare, corona di spine da svendere ai reali d’Occidente, Gesù è preso per Messia, per divino contrabbando). “Il mondo non lo riconobbe. Venne fra la sua gente e i suoi non lo accolsero” (Gv 1, 10-11), si dice di quel Logos che sperpera, per sragionamento, ogni altro logos. Futile gioco, da palestrati intellettuali, valutare quanto il Logos di Giovanni si raffini in quello di Eraclito che, dice l’Oscuro, “gli uomini non comprendono mai, né prima di porgervi orecchio, né dopo averlo ascoltato”; al Messia, che di ogni cosa sa l’invaso e l’invisibile, non importa “conoscere l’intendimento che governa tutte le cose attraverso tutte le cose” – compito statistico e teurgico del sapiente – e non “accenna” come “il Signore che ha l’oracolo in Delfi”: semmai, combatte.
Sfida la ragione al punto che non si può non incorrere nel tradirlo, il Nazareno. Il Vangelo di Giovanni sembra un precipizio: Dio in Gesù si mette tra gli uomini, si dà in pasto – “Se non mangiate la carne del Figlio e non bevete il suo sangue, non avete vita in voi” – per prendere le distanze da tutto: mangiatemi, illogica sterzata del dio cannibale, e dimenticate. Il suo è un censimento avviluppato in solitudine: alle folle parla, il Figlio, per agguantare il singolo; alle masse preferisce gli eletti, i favoriti, che irrita – “Dopo aver udito, molti dei suoi discepoli dissero: Questo discorso è duro, chi può ascoltarlo?”, Gv 6, 60 – fino a favorirne la fuga, dio di tutti gli abbandoni e gli abbandonati – “Da quel momento molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui”, Gv 6, 66 – fino al tradimento dell’ultimo, dell’unico, della pietra, Pietro. Gesù sa che è ragionevole tradirlo – l’uomo, sa, vuole un legislatore, un tiranno, semmai un liberatore; vuole un dio che lo uccida non Dio che muore per lui, vuole soccombere all’incubo sacro mica ammazzare il Santo – e predispone lo scacco, lo smacco: le folle sceglieranno sempre Barabba, un re ordinerà sempre la tortura, il prediletto per sempre ti volterà le spalle. L’irragionevole non ha ambito negli abitati umani; il miracolo è frainteso per magia, o, peggio, scambiato per scienza sacra.
Eppure, “le risposte uccidono le domande”, scrive Lev Šestov, il grande pensatore russo che si è scagliato, bestia incauta e vilipesa, contro la protervia della ragione, “il massimo dell’idiozia è l’idea di una verità che costringe”, scrive, in un libro miliare – perciò quasi introvabile – Atene e Gerusalemme. “Ciò che è più importante è al di là dei limiti del comprendibile e dello spiegabile, cioè al di là dei limiti di ciò che può essere comunicato con la parola”, dacché le lettere, equivalenti al numero, esigono la definizione, la comparazione, la comunicazione. Eppure: di cosa parliamo, che cosa ci diciamo se non l’approssimarci, vaghi, tra un tributo di falene, all’indicibile? “L’onestà intellettuale ha portato Spinoza e dopo di lui Leibniz, Kant e tutti i filosofi moderni alla convinzione che la Bibbia non contenga la verità, che essa si riduca ad un insegnamento morale, che la rivelazione sia un prodotto dell’immaginazione, e che invece i postulati della ragione pratica abbiano un valore e un’utilità altissimi. Che ne consegue? Ne consegue, voi direte, che bisognerà dimenticare la Bibbia e seguire Spinoza e Kant… Ma se si provasse per una volta a concludere in un altro modo, se si dicesse: ‘di conseguenza’, bisogna mandare al diavolo l’onestà intellettuale, disfarsi dei postulati di Kant e imparare a parlare con Dio come gli parlavano i nostri antenati… E se la ragione si fosse impadronita del suo potere illeggittimamente? La nostra sottomissione ai suoi decreti non sarebbe in questo caso una miserabile schiavitù?”.
La ragione, va da sé, l’onestà intellettuale – categoria della menzogna – ci fa credere che non ci sia alternativa alla ragione, che il minore dei mali sia il bene. Anche il ‘mondo nuovo’, il regno di questo mondo estratto dai Vangeli – i poveri sono gli autentici ricchi, gli ultimi saranno i primi, solo il sommo peccatore può convertirsi in giusto – è propalato con superficialità euclidea dai missionari della nuova novella, che costellano il proprio tempo di Caritas e di buone azioni, legalisti del cuore, candida apostasia. Eppure, non è questa la novità – di mondi capovolti, di lupi che si scopriranno agnelli e di vasti processi irenici è piena la storia delle religioni –, l’autentico, scabroso scandalo. Il grumo irragionevole è lì, in quel nido di carne sanguinante, irriconoscibile, sconosciuta, ormai anonima, volto trasfigurato dalle botte, senza più lignaggio né nome, smesso il Messia, che dice, sulla croce della tortura, “Ho sete”, e poi, tetélestai, “è compiuto”, e “rese lo spirito”, mentre un soldato, con la lancia, lo buca, corpo macellato, per misurare a che profondità è la morte. Chi lo segue, ora, quello, con quale ragione?
Vagabondi senza tenda né capo, vampiri di vita, da sempre scalzi, scabri, con Alessandro Dehò tentiamo un Nuovo Alfabeto del Sacro. Questa è la R di Ragione.
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La fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano s’innalza verso la contemplazione della verità.
(Lettera enciclica Fides et Ratio del Sommo pontefice Giovanni Paolo II ai vescovi della Chiesa Cattolica)
Mentre dal Vaticano una lettera enciclica tentava la ricomposizione di una frattura in atto da tempo. Mentre uno scherzo del destino trasformava l’ennesima bocciatura alla mia persona in una possibilità. Mentre due vite stavano per intercettarsi e dare vita a un’amicizia indelebile. Mentre la mia fede stava franando nell’ennesima appartenenza ideologica di stampo progressista. Mentre io stavo fratturandomi sperando in una nuova maturità. Mentre il Novecento sgranava gli ultimi grani del suo misterioso rosario. Mentre la vita, come sempre, scorreva, io lo incontrai. E nulla fu più come prima. Claudio, una rivelazione. Io ragazzino obiettore di coscienza su quel ramo del lago che volge a mezzogiorno, luogo che però mi era stato imposto dalla Caritas e non scelto, lui, Claudio, filosofo a scontare nello stesso luogo una pena per l’altrui incomprensione. Stava per diventare prete lui, fermato dall’ennesimo sgarbo di una Chiesa incapace di riconoscere l’unicità di una personalità, per loro, troppo complessa.
Io non so parlare di “ragione” se non in una storia. La ragione per me non è ala che si può armonizzare con la fede, tra cormorani mutilati e testimoni dal volo da tacchino, imprigionato da anime belle che giuravano a sproposito che si potesse volare solo abbracciati, io in Claudio imparai la ragione della carne, l’impasto con la fede, l’amore e il dolore. Lo sguardo ironico e fisso verso la realtà. Il culto del libro che chiede sempre traduzione esistenziale, che accade, che stravolge le regole. Ma non fa subito così.
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Conosci te stesso (Fides et ratio)
Claudio era il mio opposto. Veniva da una laurea in filosofia e io, invece, dall’ennesima umiliazione da scuola tecnica e professionale. Lui lucido e perfetto io onnivoro e malamente appassionato. Lui sicuro e io in cerca di una guida a cui affidarmi. Il terreno di gioco scelto dal fato era però comune, una casa di accoglienza per minori allontanati per decreto dalle loro famiglie. Io e lui pesci fuor d’acqua, la passione per il cinema d’autore fu la scintilla. In una lettera che conservo gelosamente, dopo un anno passato nello stesso respiro, lui, il filosofo, ringraziava me, il ragazzino, per avergli svelato una parte nuova di sé. Io piangevo, finivo il servizio civile e piangevo, perché la ragione e la fede non sono un’enciclica ma il coraggio di un uomo di ringraziare per il cammino condiviso, per le discussioni, per le complicità, per la cura e la pazienza. La ragione non è arma affilata per accoltellare l’avversario, non è ala per un volo impossibile, è uno sguardo, uno sguardo profondo sulla vita dell’altro, uno sguardo che scopre ciò che da soli non si può vedere. Claudio, la ragione impastata di fede, era uno sguardo appuntito sull’invisibile. Io dopo quasi trent’anni anni non ho ancora visto in me ciò che in lui faceva brillare gli occhi.
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CAPITOLO I LA RIVELAZIONE DELLA SAPIENZA DI DIO (Fides et ratio)
Claudio fu la ragione che rivela la sapienza di Dio. Una ragione ironica e libera. Ma la libertà della ragione ha un prezzo altissimo. Claudio non fu mai capito ma nella sua vita sempre, sempre, seppe incassare nel suo corpo ogni colpo. Non un martire idealizzato, non il santo innocuo ma un pugile fastidioso, tecnico, mite e indomabile. La ragione è assestare pensieri implacabili, affondare e accettare che l’altro reagirà. Inevitabilmente. Le sue gambe reggevano con grazia colpi che avrebbero abbattuto un peso massimo. Alla sera ci trovavamo, all’angolo, ad elencare ferite e suturare senza rancore le incomprensioni della vita. La sua scelta religiosa di comunità era di una solitudine feroce. Io scelsi anni dopo lo stesso sogno chiamato fraternità, e scoprii che la ragione e la fede pretendono lo stesso destino di emarginazione, a cui ancora oggi, per codardia, cerco di sfuggire.
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CAPITOLO II CREDO UT INTELLEGAM (Fides et ratio)
La ragione crede, solo ciò che è creduto si apre alla comprensione. Nessuno sconto faceva Claudio, ciò che leggevo, ciò che ascoltavo, ciò che divinizzavo veniva passato al setaccio del dubbio. Lui entrava nel mio mondo e accettava di conoscerne i riferimenti ma non divenne mai maestro ammiccante, la distanza e la differenza per lui erano spazi più sacri di un altare. E credeva in me. Incredibilmente e senza ragioni apparenti. Io sono stato creduto prima che essere credente. Creduto così come ero. L’unica ragione che non mi spaventa è quella di chi si mostra capace di credere, di aprirsi alla vita così come si mostra. Ho paura invece delle menti lucide che in nome della ragione autogiustificano tutto. Ho visto professionisti della teologia, sorridenti e apprezzati, usare del loro pensiero per macellare vittime, sacrificate a intellettualismi privi di pietà. Ho visto e vedo lucidi pensatori affogare miseramente in autogiustificazioni pietose. La ragione di chi si crede è diabolica.
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CAPITOLO III INTELLEGO UT CREDAM (Fides et ratio)
Capisco per credere. Un giorno chiesi a Claudio un consiglio di lettura da alternare ai miei abituali compagni di viaggio: Tonino Bello, Christian Bobin, Lorenzo Milani… E lui mi regalò Timore e tremore di Kierkegaard. Lo lessi con l’unico obiettivo di arrivare in fondo, di non deluderlo. Scalavo una parete rocciosa con mani da bambino, ad ogni riga cedevo, le lettere franavano, infilzavo una parola dopo l’altra con la speranza di arrivare finalmente alla conclusione. “Ne avrò capito la metà” confessai candidamente truccando per eccesso la percentuale, “Beato te”, mi rispose lui, “io non sono ancora arrivato a tanto”. Fu una delle lezioni più grandi, la sua ragione faceva a pezzi la mia illusione di dover comprendere sempre tutto. Mi stava mostrando un mare dall’orizzonte infinito. Mi stava mostrando il vertiginoso baratro dentro ogni cosa. Mi stava spingendo a perdermi. Anni dopo avrei studiato teologia su dispense fatte per ridurre in schema comprensibile grandi pensatori. Da una parte la vastità e dall’altra la riduzione. La ragione ridotta a dispensa è mangime per gli illusi.
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CAPITOLO IV IL RAPPORTO TRA LA FEDE E LA RAGIONE (Fides et ratio)
Claudio credeva, pensava lucidamente e credeva fermamente. Credeva in Dio. Non è scontato. Io credevo in Claudio, credevo nell’uomo, credevo nella versione politica del vangelo, credevo contro le guerre, contro la fame nel mondo, contro le ingiustizie. Un giorno, ricordo bene, dalla mia impalcatura ideologica da oratorio, da quella infantile appartenenza a gruppi di volontariato del commercio equo e solidale, gli dissi “…però, se anche Dio non ci fosse io sarei comunque contento di vivere per i poveri”. Stavamo guardando una partita di calcio e lui rispose “senza Dio io mi ammazzerei”. Silenzio. Sto ancora lottando con quel silenzio. E sento che l’unica ragione di cui possa fidarmi è quella che tiene una pistola carica ad altezza tempie.
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CAPITOLO V GLI INTERVENTI DEL MAGISTERO IN MATERIA FILOSOFICA (Fides et ratio)
Alcuni giorni a Roma, insieme, estate di tanti anni fa, ricordo che commentavo certi interventi del Vaticano apparsi sulla “Civiltà Cattolica”, se non ricordo male, sull’abolizione della pena di morte. Eravamo in vacanza, io cercavo complicità, un pretesto per quel gioco triste degli schieramenti che ancor oggi “anima” la cronaca ecclesiale, ricordo di aver citato il passaggio di un articolo che con ironia costringeva al silenzio un qualche gruppo politico avverso alla sensibilità di Claudio. Poco più di una battuta bassamente clericale. Non lo presi in contropiede. Ricordo il suo sguardo più che le sue parole. Mi dava torto. Segnava una scorrettezza di metodo. Non è detto che il magistero abbia sempre ragione solo perché è magistero. La ragione è vigile, anche in vacanza. La filosofia vive di una libertà che nessun magistero può calpestare. Nemmeno per una battuta fiacca e stupida. Nemmeno se passeggi per le vie del Vaticano. La ragione è libera.
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CAPITOLO VI INTERAZIONE TRA TEOLOGIA E FILOSOFIA (Fides et Ratio)
La storia con Claudio finì presto, troppo presto. Io dopo l’anno di Obiettore di Coscienza andai prima a lavorare qualche anno come infermiere professionale e lui, dopo essere stato ordinato prete, fu incaricato di seguire un liceo, insegnate e padre spirituale. Poi per me ci fu la decisione di entrare in seminario e per lui il dramma di ammalarsi: leucemia. Io avevo lavorato in Ematologia. Claudio morì. E io rimasi solo. Alla fine la ragione profonda della nostra amicizia sto cercando di interpretarla ancora oggi, giuro, ogni giorno maturano in me parole, gesti, silenzi, come se lui trovasse carne in me. E così se penso alla Ragione e alla Fede io non posso che raccontare la sua storia. Continuo a essere appassionato e disordinato, ho delle falle nella mia formazione che non si colmeranno mai, mi manca una cultura ordinata, mi muovo per lampi e mi vergogno ancora di certe ignoranze. Ma ora che sono molto più vecchio di quando Claudio fu seppellito in un cimitero della periferia milanese, ora, rido di me e ringrazio quel filosofo che senza ragione aveva iniziato a volermi bene. Sono ancora molto più creduto che credente.
Per onorare una certa obbedienza allo schema della Fides et Ratio dirò solo che non so se teologia e filosofia sappiano interagire, non ho le competenze per dirlo ma io e Claudio abbiamo interagito dal primo istante all’ultimo. Lui mi raccontava le sue fatiche con la chiesa e io gli raccontavo le morti per leucemia che vedevo. Non so se per ragione o per fede o per entrambe le cose ma ci siamo narrati i destini. Di questo sono dolorosamente sicuro.
Alessandro Dehò