25 Aprile 2020

Nuovo Vocabolario del Virus: “tampone”, “libertà”. Cerchiamo di tamponare l’imprevisto, ma il libro adatto a questi tempi è “Ore d’ozio”

“Tampone”: Il “tampone” serve per tappare, è un oggetto atto a riempire un vuoto, “a chiudere un’apertura”. Per insufficienza di tamponi, ci hanno tamponati in casa: ma se chiudi una cavità, se ne divarica un’altra, più profonda. In particolare, il vocabolario Treccani ci offre l’immagine della barca che affonda: “tampone” è “Qualsiasi mezzo di fortuna (tappo, palla di cenci, stoppa pressata, ecc.) con cui si chiude provvisoriamente un’apertura prodottasi nelle pareti di un recipiente per arrestare la fuoriuscita del liquido, o una falla in un’imbarcazione, ecc.”. Come un cartone animato: chiudi una falla con un tappo, un tampone, se ne apre un’altra, un’altra, un’altra. Più chiudi qualcosa, più questa tende a esplodere. Se metto sulla scrivania, come oggetti, le parole che sviscera il vocabolario – fortuna, provvisoriamente, falla – costruisco l’esatto microscopio con cui descrivere l’azione dei governi di fronte all’imprevisto – prevedibile – del virus. L’operazione del tamponare si dice tamponamento, che significa anche che qualcuno mi è venuto addosso, sfasciandomi.

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“Libertà”: Il giorno della Liberazione, in clausura. Per liberarsi, l’Italia ha bisogno di un liberatore esterno e di una guerra civile. La guerra civile – Racconti della guerra civile era il titolo, poi abortito, che Fenoglio avrebbe voluto per I ventitré giorni della città di Alba – è nel carisma degli italiani, popolo di ingegnosi costruttori di borghi, di navigatori, di avventurieri d’impresa, di scaltri poeti e di soldati di ventura (a dirla bene). Italia è una idea: l’appartenenza si afferma verso l’ombra della città natale, nell’alcova della stirpe (la famiglia), sul divano di casa (l’unico privato di cui non ci espropriano). Pensare alla Liberazione ci fa capire che questa – la pandemia – non è una guerra; ma scatenerà una guerra civile. Chi opta per la salute e chi per la salvezza; chi vuole la vita e chi la tutela; chi preferisce libertà al liberatore. Chi crede che lo Stato debba esercitare un controllo capillare e chi pensa che debba semplicemente permettere a ciascuno la propria creatività.

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L’amico pittore Marcovinicio invia il suo urlo di battaglia per la Liberazione. Una cartolina, con furgoni fitti di partigiani, in Milano. Assarabass sembra un grido, il nome di una città dai sapori orientali – Samarcanda – una comune di artisti (lo è, in effetti). Marcovinicio viene da Domodossola, dove, il 10 settembre 1944, fu creata la Repubblica dell’Ossola: la bandiera, a strisce orizzontali, era blu, rossa e verde. Nel governo di allora c’era anche il grande filologo Gianfranco Contini. Chi non ha avuto familiari morti in guerra, in ciascuno dei campi di lotta, tra fascisti e partigiani? Da quel massacro non si è calcificata una identità, ma un’ipotesi che sta a noi adempiere – o sconfiggere. Il pittore non fa storia né politica: lancia un’ascia nel futuro, semina una profezia.

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In questo tempo di libertà dedotta, ho trovato il libro adatto. Ore d’ozio del sagace Kenko, un monaco vissuto nel Giappone del XIII secolo. “Nel vuoto di ore oziose prendo la pietra da inchiostro e tutto il giorno mi perdo ad annotare a caso le sciocchezze che mi passano per la mente, e un’ebbrezza misteriosa mi assale”, scrive all’inizio delle sue note. Quest’uomo, che bordeggia il caso, ha capito che il giogo della vita si lacera con un gioco, che l’abisso si celebra frequentando il futile, l’enigma delle penombre, d’altronde, è luce. Nel suo taccuino, che fulmina, ci sono passaggi di delirante attualità: “Sarebbe una vita invidiabile quella di rinchiudersi dentro casa, sì che non si sappia nemmeno se ci siamo oppure no, e si trascorressero così i propri giorni senza nulla attendere, invece di risolversi per un’avventata tonsura, come spesso fa chi è provato dallo sconforto per l’avverso destino”. Oziare vuol dire stare attenti alle cose senza aspettarsi nulla dal mondo; perpetuare l’onirico privi di oneri. “Non c’è nulla che rinfranchi di più lo spirito che starsene soli a leggere un libro ai piedi di un lume, e avere per amici uomini di epoche lontane”. Questo memorialista che ha fatto di tutto per nascondere le tracce di sé, vive estraneo al tempo, accertandosi del creato: “In qualsiasi caso della vita, come conforta guardare la luna!”. Vale per Kenko l’aureo delle ombre, l’etica del nascosto: “In ogni campo, è bene non mostrarsi troppo addentro nelle cose. Il nobile, anche se conosce l’argomento, ne parlerà forse sfoderando il proprio sapere?… Essere misurati nel parlare proprio nel campo che si conosce bene, e intervenire solo se si viene interpellati: ecco un comportamento eccellente”.

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Gli animali sono liberi. In una zona disparata di Riccione, un edificio degli anni Sessanta, doveva essere molto bello, è travolto dalle piante. Le piante vincono l’asfalto con facilità: sembra che perforino uno strato di fango nero. Il rampicante ha puntato un vetro, lo ha vinto, entra nell’edificio con più scaltrezza di un corpo umano. Ciò che un tempo fu abitato da uomini ora è tana per topi, felini, uccelli. Una gioia perversa ci pervade ammirando un corpo di cemento che crolla sotto l’impeto delle piante – ma ci manca la fermezza dell’albero e il coraggio della bestia, la sapienza di dimenticare. Piuttosto, non ci limitiamo a vedere la cosa per ciò che è – vita che bolle – la adorniamo di sensi e di rimandi. Mi viene in mente una scena di Collateral, il film di Michael Mann, con il lupo che attraversa la strada in una Los Angeles annichilita nel viola. Non ci affascina la bestia – da cui siamo irrimediabilmente distanti – ma il bestiario: la sfida che quella bestia ci consegna. Ma non c’è equilibrio senza lotta, e il lupo non chiede permesso. “Mi glorificheranno le bestie selvagge/ sciacalli e struzzi/ perché ho sarchiato acqua nel deserto/ aperto fiumi nella steppa/ per dissetare il mio popolo”, dice Isaia. Acqua nel deserto e amicizia con i selvatici sono un metro mistico. Sulla plancia di un pino marittimo l’airone ha messo casa. Sento il suo verbo, è come un ruggito – profondo, possente. In volo è una scia bianca, nel nido è nascosto, non so vederlo né cavalcarlo. (d.b.)

 

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