“Passeggiata”: Il caos – va sempre così – è incubato nel linguaggio, un incubo. Il Ministero dell’Interno, tramite circolare inviata ai Prefetti della Repubblica, ha equiparato i figli ai cani. Insomma, è lecito portare a passeggio i cani, in era di virus. Ma pure i figli (purché minori). La circolare del 31 marzo si esprime così: “per quanto riguarda gli spostamenti di persone fisiche, è da intendersi consentito, ad un solo genitore, camminare con i propri figli minori in quanto tale attività può essere ricondotta alle attività motorie all’aperto, purché in prossimità della propria abitazione”. Il Ministero concede ai genitori – uno per volta – di “camminare” con i figli, purché si limitino a fare il giro del quartiere.
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Attenti: a una “concessione” – camminare un genitore alla volta con i figli, intorno a casa… al guinzaglio? – seguirà una restrizione. I governi agiscono secondo la pratica atavica del bastone&carota. Ciò vuol dire che la clausura durerà ancora a lungo – ai figli, d’altronde, sarà abbuonato l’anno scolastico. Ogni sistema concentrazionario – che si consolida con l’emergenza: tramutare un invito in obbligo è la manna e la miniera dei governi – si stabilisce nello tsunami di decreti, nella fioritura dei provvedimenti. Importante è scatenare il contrasto, evocare il fraintendimento: più le parole sono vaghe più si può giocare di fino, tra gli interstizi del senso, ingabbiando, gabbando. Così, il primo aprile – pesce d’aprile! – il Ministero pubblica un chiarimento alla circolare (per altro chiarissima), dato che le Regioni stanno insorgendo, non bisogna, proprio ora, “abbassare la guardia”. Eccolo: “è stato specificato che la possibilità di uscire con i figli minori è consentita a un solo genitore per camminare purché questo avvenga in prossimità della propria abitazione e in occasione spostamenti motivati da situazioni di necessità o di salute. Per quanto riguarda l’attività motoria è stato chiarito che, fermo restando le limitazioni indicate, è consentito camminare solo nei pressi della propria abitazione”. Parole, parole, parole. Garbugli.
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La “precisazione del Viminale” riguarda “attività motoria e passeggiate con i figli”. La parola del giorno, appunto, è passeggiata. La passeggiata non è una marcia, ha in sé il senso del gratuito, dell’indefinito, dell’affronto. Si ‘passa’ attraverso qualcosa quasi per caso. Desideriamo tanto, in questo tempo fermo, in cui il cielo è rigoglioso come un prato e gli uccelli garantiscono un filare di canti, passeggiare; continuamente ci è detto che passare al di là del virus “non sarà una passeggiata”. Si passeggia costeggiando un paesaggio, ma soprattutto per scoprirsi spaesati. La quiete della passeggiata è rotta dal “rito di passaggio”: si cresce sanguinando, provandosi, nel giogo del fuoco. Senza il rito il passeggiatore non passa: resta l’elegante flâneur del tempo perduto, delle impotenti possibilità. Senza ambizioni, il passeggiatore varca il bosco, la sua mano è un sole per il cervo e un abbeveratoio per il lupo; il flâneur, educato all’insolito, ambivalente, passeggia per la città, ammirando uno stucco, stucchevole, un poco schifiltoso.
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Il grande passeggiatore della letteratura europea è Robert Walser. “Un mattino, preso dal desiderio di fare una passeggiata, mi misi il cappello in testa, lasciai il mio scrittorio o stanza degli spiriti, e discesi in fretta le scale, diretto in strada. Sulle scale mi venne incontro una donna dall’aspetto di spagnola, di peruviana o di creola, che ostentava non so quale pallida e appassita maestà”. Questo è l’incipit – screziato di esotico – del suo racconto più noto, La passeggiata. Anche Nathaniel Hawthorne chiamava il suo studio “stanza degli spiriti”, o “stanza stregata”; d’altronde, la sua passeggiata sulle rive scabre di Liverpool, tra arbusti, dune e il mare grigio, insieme a Herman Melville, è letteratura pura. In effetti, potremo scrivere una storia della letteratura per passeggiate. Se la passeggiata concessa dallo Stato è pari all’ora d’aria del carcerato, quella di Walser ha una mistica libertà: “Il mondo mattutino che mi si stendeva innanzi mi appariva così bello come se lo vedessi per la prima volta”. Il passeggiatore, stordito dallo stupore, potrebbe non fare mai più ritorno dalla sua passeggiata: l’imprevisto è provvidenza.
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In una delle sue Passeggiate con Robert Walser, Carl Seelig ricorda il giorno – era il 2 gennaio 1944 – in cui i due passeggiatori decisero di “rendere omaggio a Hölderlin”. Il grande poeta tedesco ha dato destino poetico al passeggiatore, o meglio, al “viandante”. Il poeta è un vagabondo, accetta la transitorietà come norma dell’imperituro, vive nell’incavo dell’insicurezza, non sa chi è e non gli importa: vaga tra i mondi e le identità, non ha nulla perché deve custodire tutto. Tra le diverse versioni di Der Wanderer preferisco quella raccolta nel quaderno di Homburg:
Sud e Nord sono in me. Mi infiammò l’estate d’Egitto
col suo alito mi rese pietra,
E l’inverno del polo in me uccise la vita,
Ardevo e guardavo lontano nelle aride distese
Africane; dall’Olimpo scendeva una pioggia di fuoco.
E dal profondo sentivo sospirare la terra,
E volentieri tra le nuvole nascondeva il suo volto,
Non con il male di un’amorevole freccia, come il Dio dell’amore
Ma con duro scettro la colpiva il raggio infuocato.
Lontana, la montagna riarsa fuggiva come uno scheletro vagante,
Cavo e spoglio e solo, il suo cranio guardava dall’alto.
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Durante quella passeggiata, Walser esce con uno dei suoi aforismi, limati nel diamante: “Quando uno cerca il bello, il più delle volte gli viene gentilmente incontro”.
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L’opera di Basho, il grande poeta e monaco giapponese, è frutto di perpetue passeggiate. Uno dei suoi fascicoli più belli è stato scritto nel “Romitaggio della Dimora Illusoria”, “una capanna abbandonata” con “la tettoia avviluppata da artemisie e da bambù nani”, da cui “filtra l’acqua”, “rifugio di volpi e tassi”. Il fascicolo di haiku, introdotti dal racconto dei suoi vagabondaggi, s’intitola, appunto, Il Romitaggio della Dimora Illusoria. Il poeta valica monti, varca fiumi, accede in foreste insondabili: vive veleggiando sul caso, consapevole che ogni forma è vana, un incidente onirico, un sonno perfezionato (“Svanita in un sogno è la gloria di tre generazioni”). “Non intendo dire che io mi nasconda tra prati e montagne perché odi il mondo e ami la solitudine. Sono piuttosto simile a chi, fragile di salute, evita il contatto con la gente. Ripenso agli anni e ai mesi infelicemente vissuti, alle colpe commesse a causa della mia inadeguatezza… ora tempro il mio corpo abbandonandolo a venti incostanti, mi affatico l’animo per cogliere la bellezza di un fiore e di un uccello”. Il vagabondaggio è essenziale all’opera del poeta. Ryunosuke Akutagawa ha scritto che per Basho la poesia era come “l’arte della spada”, riportando le memorie di un suo allievo: “Comporre è come tagliare un grosso albero. Bisogna essere capaci di colpire al limite dell’elsa con un fendente, come quando si spacca in due un melone. Come quando si affondano i denti in una pera”.
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Scrivere come affondare i denti in una pera. Il poeta morde – altri mangeranno ciò che lui ha preparato.
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Mi è concesso passeggiare – posso concedermi di rifiutare ogni concessione. La finestra della stanza, già da tempo, è un Everest – gli occhi procedono in rampicata. (d.b.)
*In copertina: Hokusai, “36 vedute del monte Fuji. Vento del Sud, cielo sereno”, 1830