«Lo specifico del politicamente corretto era proprio questo: riformare il linguaggio. Questa posizione, profondamente idealistica e anti-marxista, condusse, nel giro di un decennio, a conferire una centralità assoluta ai problemi del linguaggio, e a creare un fossato fra la sensibilità dei ceti istruiti, urbanizzati, e tendenzialmente benestanti, e la massa dei comuni cittadini, impegnati con problemi più terra terra, tipo trovare un lavoro e sbarcare il lunario. Fu così che venne bandita la parola “negro” (sostituita con nero), e per decine di altre parole relativamente innocenti (come spazzino, bidello, handicappato, donna di servizio), vennero creati doppioni più o meno ridicoli, ipocriti o semplicemente astrusi: operatore ecologico, collaboratore scolastico, diversamente abile, collaboratrice familiare». (Luca Ricolfi, “la Repubblica”, 31 ottobre 2021).
Cosa sta succedendo al glorioso quotidiano la Repubblica? Se lo chiede da tempo quella parte di lettori che si è sempre ritenuta l’area progressista e intelligente dell’opinione pubblica, rispetto al conservatorismo più o meno reazionario della destra e alle spinte settarie della sponda opposta di stampo comunista. Sono i lettori orfani del giornale che fu, quello tenuto sottobraccio come segno di distinzione, capace di vantare veri e propri fans che ne facevano oggetto di feticismo e identificazione culturale. Ciò che sta succedendo è facilmente riassumibile: dopo anni di lento declino, in cui il vegliardo fondatore – divenuto mostro sacro – si esibiva in editoriali più o meno visionari (famosi quelli in cui si metteva in dialogo con Dio tramite il vicario in terra), è arrivato il brutale cambio di proprietà, con la cessione in blocco alla società-cassaforte di casa Agnelli e l’inevitabile legame col gruppo industriale FCA. Come conseguenza, la testata si è incatenata a La Stampa, giornale storico di proprietà della famiglia, con tutti gli accorpamenti, le semplificazioni organizzative e l’unificazione nell’asse Roma-Torino che ne sono seguiti.
Va da sé che la qualità dell’informazione offerta da entrambe le testate è scaduta, ma ormai questo fattore è stato assimilato nel nuovo corso dell’informazione, dove il ruolo e la sopravvivenza dei media tradizionali devono conformarsi a un’evoluzione generale che viaggia per conto suo, senza curarsi di ciò che lascia dietro. Ma ora veniamo al sodo: che sta succedendo oggi a Repubblica, ci si domandava. Il più recente punto di svolta può esser fatto risalire al 31 ottobre scorso, quando il sociologo Luca Ricolfi vi ha iniziato la sua collaborazione, come ha sintetizzato efficacemente Luigi Mascheroni, “con una articolessa che si è fatta notare: ha scritto l’intero paginone centrale della sezione Cultura su un tema delicato – le follie del politicamente corretto e la sua degenerazione, la cancel culture – ma prendendolo dalla parte sbagliata rispetto alla linea ideologico-culturale di Repubblica”.
In quell’articolo, fonte di parecchi malumori, Luca Ricolfi individuava le cinque mutazioni che il germe del politicamente corretto ha subìto nell’ultimo ventennio, sviluppando una spirale di costrizioni sempre più stretta. Si parte dalla creazione del nuovo spazio pubblico dei social, dove oggi le discussioni arrivano a moltiplicarsi in modo esponenziale fino a diventare arene di litigi e brutalità, con la suscettibilità individuale e collettiva che viene portata agli estremi. Poi si passa al misgendering, ossia il “chiamare qualcuno con un genere che non gli va, ad esempio maschile se è o si sente una donna (o viceversa); o plurale maschile (cari colleghi) se ci si rivolge a un collettivo misto”: da qui l’imposizione nella comunicazione scritta dell’uso di asterischi e simboli alfabetici inesistenti per creare una supposta lingua “inclusiva”, che invece – nei fatti – finisce per escludere in quanto inattuabile. Il terzo passo è quello dell’affermarsi della pratica, anch’essa proveniente da Oltreoceano, della cancel culture, secondo cui tutta l’arte e letteratura presente e passata andrebbe giudicata con i nuovi parametri etici, “e censurata o distrutta ogniqualvolta vi si trovano espressioni, immagini o segni potenzialmente capaci di turbare la sensibilità di qualcuno”. La quarta mutazione porta alla discriminazione e alla conseguente esclusione dei non allineati: “Professori, scrittori, attori, dipendenti di aziende, comuni cittadini perdono il lavoro, o vengono sospesi, o vengono sanzionati, non perché abbiano commesso scorrettezze nell’esercizio della loro professione, ma perché in altri contesti, o in passato, hanno espresso idee non conformi al pensiero dell’élite dominante”, ossia di quella minoranza che, attraverso la coercizione psicologica e le continue pressioni politiche, vuole imporre alla maggioranza la sua neo-etica settaria e fanatica.
Infine arriviamo alla quinta mutazione, quella che ha anche dei risvolti comici: la identity politics, secondo cui “quel che conta veramente non è che persona sei ma a quale minoranza oppressa appartieni”. Così, per tradurre un libro di un’autrice nera non puoi essere bianco, se sei un uomo e scrivi di donne non sei credibile, per poter parlare di omosessualità o transgender e derivati devi essere omosessuale o transgender o queer e via dicendo. Se ci si azzarda a parlare di una di queste cose senza esservi coinvolti direttamente si viene accusati di “appropriazione culturale”. E qui viene da ridere, perché con una logica simile le persone comuni – non appartenenti alle specie oppresse e discriminate, che devono essere protette – non potrebbero nemmeno parlare del tempo quando s’incontrano per strada, perché non sono il colonnello Giuliacci, non studiano meteorologia e nemmeno sono barometri, quindi che possono saperne? E se si trovano a parlare del più e del meno, come la mettiamo? Su Repubblica arriverebbe l’habituée Chiara Valerio a dire che lei viene dalla matematica, e che chi non conosce bene la matematica non può parlare del più e del meno, perché sarebbe “un’epistemologia inammissibile”, e quindi alla gente non resta che alzare le mani.
Ora, per fare una pausa, passiamo a un episodio più frivolo ma non meno dannoso, scoppiato recentemente su Instagram, luogo divenuto ormai una specie di babele delle babeli. Un giorno, svegliatasi storta, la nota cantante Emma Marrone – star delle ultime edizioni del talent-show X Factor – ha incitato le sue seguaci a linciare il giovane e semisconosciuto giornalista Davide Maggio, perché durante una diretta sul social aveva espresso riserve sulla resa estetica delle calze a rete indossate da Emma nell’esibizione al Festival di Sanremo, in quanto non donerebbero alle forme “importanti” delle sue gambe. «Buongiorno a tutti nel medioevo, con il body shaming» è stato l’esordio dell’attacco di Emma, che ha sfruttato opportunisticamente il riferimento a un’epoca crudelmente oscurantista e alla nota pratica offensiva verso le donne. Ma è evidente che in quel contesto le due cose non avevano alcun senso, perché si trattava di una pura valutazione estetica su un evento speciale come Sanremo, dove non si intendeva certo screditare o offendere. Eppure, quelle parole d’ordine sono state usate come segnale evocativo per lanciare la canea verso il bersaglio. L’affaire “Gambe importanti”, è stato discusso per giorni, al punto che se n’è occupato anche il filosofo Stefano Zecchi su Il Giornale, dove ha messo in chiaro alcuni principi basilari: “l’abito è il nostro stesso corpo e parla di noi: il nostro modo di vestire è il nostro linguaggio, e come ogni linguaggio può essere elegante o volgare, di buon gusto o di cattivo gusto, assolutamente normale o trasgressivo. (…) La cantante desidera evidenziare le sue cosce? Padronissima di farlo e di suggerire a tutte le ragazze del mondo di seguire il suo esempio. Ma senza aggressività e inutile ironia posso dirle che con un abito diverso sul suo corpo poteva esprimere un linguaggio più bello. Non le interessa? Neppure a me interessa convincerla”. Il fatto è che Emma Marrone, esponendosi ufficialmente nella battaglia per i diritti delle donne, in spot e presenze televisive e sulla stampa, se vuole mantenere credibilità deve condurre le sue reazioni e argomentazioni nel modo più equilibrato e sensato possibile, mentre in questo caso non ha dato prova di saperlo fare.
Ora, tornando alla domanda iniziale: cosa diavolo sta succedendo a Repubblica? Per cercare di capirlo si deve ripartire dall’articolo galeotto del 31 ottobre che tante turbative ha creato, provocando il cosiddetto Trauma Luca Ricolfi (TLR), di cui ancora oggi si sta pagando lo scotto. La prima a tentare un rimedio, come riferiva Luigi Mascheroni, è “la scrittrice Chiara Valerio, subito assoldata da Repubblica per rispondere, ieri, all’intollerabile articolo di Ricolfi contro l’intolleranza della sinistra illiberale. E il compitino di Chiara Valerio (…) è apparso per quello che era: un articolo di riparazione per soddisfare la parte più facinorosa del giornale”. Un compitino fallito, aggiungiamo noi, perché in quell’articolo non si capiva quasi niente. Ad ogni modo, sembra che proprio dalle reazioni al TLR si sia sviluppata la malattia secondo noi più evidente del giornale, una sorta di schizofrenia in cui vengono date briglie sciolte a commentatrici e “intellettuali” che spesso smarriscono l’equilibrio e il buon senso.
Gli esempi abbondano. Fra gli ultimi, l’articolo uscito il 16 febbraio nella sezione Spettacoli, che fa capire la piega che sta prendendo l’oltranzismo femminista più becero: la commentatrice Silvia Fumarola attacca la fiction televisiva Màkari 2, andata in onda su Rai 1, in un trafiletto intitolato “Certe battute tenetele per voi”. Il casus belli è la scena in cui il personaggio Piccionello abbraccia Marina, la fidanzata che non vede da un po’, dicendole «Mi è mancato il tuo odore», mentre l’amico Saverio commenta: «Potevi andare al mercato del pesce quando picchia il sole». Qui la Fumarola va all’attacco: “Voleva essere una battuta? Offendere una donna – sovrappeso, normopeso, sottopeso – dicendo che puzza come il pesce fa ridere? È rispettoso? Non sappiamo cosa avessero in mente gli sceneggiatori, perché recitando la scena o riguardando il girato nessuno abbia detto: «Un po’ pesante, no?»”.
Dunque, se abbiamo capito bene, in una fiction televisiva le battute su una donna che manda cattivo odore – perché non si lava o per altro – non si possono fare. Essendo già vietate quelle che dicono grassa, grassona o cicciona, perché espressione di body shaming, oggi Silvia Fumarola da Repubblica dichiara proibite anche quelle che definiscono l’odore cattivo di un essere umano di sesso femminile. Se è di sesso maschile va bene, anzi: “Puzzi come una capra” è un’espressione frequente che molte donne ripetono con biasimo e fierezza; ma se è una femmina a non lavarsi per settimane, non è lecito dire che puzza. Soprattutto in una fiction televisiva. Perché il rispetto “riguarda anche il modo in cui si trattano i personaggi femminili nelle serie, perché la fiction è potente, attraverso il racconto veicola valori e disvalori, arriva a tutti. E le parole hanno un peso”, spiega la giustiziera Silvia Fumarola da Repubblica. La quale, non contenta di dettare le linee per lo storytelling televisivo del nuovo corso nazi-femminista, arriva a lanciare agli interessati un avvertimento dal vago sentore mafioso: “Non sappiamo cosa abbiano pensato il produttore Carlo Degli Esposti, gli editor Rai, in genere solerti. (…) Curioso che il produttore sia lo stesso di Studio Battaglia, avventure di uno studio legale al femminile, con un gruppo di donne che con forza e ironia difende i diritti delle altre donne”.
In genere solerti? Vorremmo sapere solerti in cosa: nell’adattare ogni narrazione a uno standard ipocrita e falso, imposto dall’esterno, che non esiste nella realtà? Solerti nello sterilizzare gli aspetti della vita di tutti, solo per non offendere il comitato centrale del Nuovo Fascismo Femminista che si è incistato nei media? Il messaggio lanciato da Repubblica al produttore Carlo Degli Esposti sembra chiaro: dovete stare attenti a come vi muovete e a quali messaggi veicolate, perché ci sono milioni di telespettatori che vi seguono e che, ovviamente, non riescono a pensare con la propria testa. Una “donna che puzza” non può esistere, lo ha decretato Silvia Fumarola. Allora, ci aspettiamo che venga messo all’indice anche il libro di Erri De Luca Storia di Irene, dove si narra di una bimba salvata in mare dai delfini, che cresce orfana, “fitta di peluzzi gialli, uno strato di fiori di ginestra. L’odore è salmastro, di barca da pesca”. La ragazzina mangia pesce crudo e allontana le api strofinandosi con lo sterco di capra, quindi immaginate la puzza; eppure rimane misteriosamente incinta, e “nessuno conosce chi è stato a mettersi sopra Irene”. Qui Erri De Luca ha peccato anche di sessismo patriarcale: perché dev’essere per forza il maschio a essersi messo “sopra”? Non può essere stata lei a cavalcarlo? Attendiamoci dunque una convocazione dal comitato centrale del NFF, a largo Fochetti.
Paolo Ferrucci