05 Agosto 2020

“La vita è un’arena per gladiatori dell’anima”. Il capolavoro di Norman Mailer, “Il nudo e il morto”

Il capolavoro – a volte accade così – nacque, innocentemente, nella menzogna. Norman si chiamava, in verità, Nachem Malech, nato nel New Jersey, classe 1923, da famiglia ebraica. Edotto a Harvard, Norman Mailer voleva divorare la vita: a vent’anni impalmò Beatrice Silverman, la prima delle sei mogli – che gli diedero nove figli – s’era convinto di diventare il più grande autore americano di ogni tempo, non voleva andare in guerra. Fallì entrambe le intenzioni – ma il tentativo fu più clamoroso dell’esito.

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Voglio dire. Norman Mailer fu un uomo di mondo, del suo tempo. Fu impegnato – tra l’altro, per i Democratici si candidò a sindaco di New York –, mondano, inappagato seduttore (la sua biografia di Marilyn Monroe adombra una ambrata relazione). Girò una manciata di film, collaborò con Sergio Leone, scrisse di tutto, anche poesie. Doveva essere insopportabile e divertentissimo – pensava che lo scrittore potesse aggiogare la Storia alle sue voglie. In effetti, all’epoca i suoi libri fecero storiaThe White Negro, Le armate della notte, Il parco dei cervi, Un sogno americano – poi la storia passa, va, come carta velina, e ora Norman Mailer – andato in altri mondi nel 2007 – sembra uno splendido oggetto di antiquariato, una tigre di bronzo. Non riuscì a diventare il più grande scrittore americano di ogni tempo. Neanche il più grande del suo tempo – se contiamo Saul Bellow, Flannery O’Connor, Philip Roth, Truman Capote… Lo obbligarono a imbarcarsi verso le Filippine, durante la Seconda guerra. Leggete The Fight, il reportage del 1975 sull’incontro tra Muhammad Ali e George Foreman a Kinshasa, ma il suo libro più bello, Mailer lo ha scritto in guerra, aveva 24 anni, fu un bestseller.

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La guerra, in quel grumo di mondo, si può dire in due modi, dissonanti. Il primo è narrare dei fatti il fango, il concreto cordoglio. Penso al film in forma di dittico di Clint Eastwood, Lettere da Iwo Jima e Flags of Our Fathers (2006), che racconta il fronte da sguardo americano e nipponico. Oppure, va narrato il groviglio dei ricordi, le macerie sentimentali, l’attesa sonnambula, come ha fatto Terrence Malick in La sottile linea rossa. Detto altrimenti, Il nudo e il morto, esordio tra i più clamorosi e benedetti della letteratura, è un libro turgido e imperfetto, ingenuo e intrepido, enciclopedico (oltre 800 pagine). Tradizionale. Norman Mailer ha collezionato premi – compreso un Pulitzer nel 1969 –, non riusciva a vivere scevro dalla polemica, aveva un carnale bisogno di nemici. Nessun altro libro fu portentoso quanto il primo. Nulla da spartire, comunque, con i più grandi libri di guerra scritti in Italia, Il partigiano Johnny (sia lode a Fenoglio) e Kaputt (sua enormità Malaparte).

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Il romanzo, per energia, tensione ‘popolare’ e una certa crudezza, ebbe, appunto, un successo planetario. Stampato da Rinehart & Company nel 1948, atterrò in Italia due anni dopo, per Garzanti, traduce Bruno Tasso. Il romanzo tornò – stessa traduzione – per Baldini & Castoldi, nel 1998. Chiara Stangalino ha curato una nuova traduzione per Einaudi, nel 2009, che è la stessa ripresa ora da La Nave di Teseo (i libri risultano entrambi in commercio). Tra i romanzi di Mailer, nonostante i tentativi dell’autore di minimizzarlo (“In molte sue parti il libro è stato scritto in modo trasandato”; leggi sotto), è quello che avuto la considerazione più alta. Fu Gore Vidal – noto antagonista di Mailer – a svelarne il carattere astratto, refrattario al sangue, alla verità: “La mia prima reazione dopo averlo letto: è un fake, un falso. Un falso intelligente, per carità, mirabilmente eseguito. Non ho cambiato opinione… ogni volta che procedevo nella narrazione scoprivo una serie di trucchi, personaggi prevedibili estratti, più che dalla vita vera, dai romanzi che avevamo letto”. Una parte di verità c’è: Mailer rinnova il romanzo ottocentesco nella melma filippina.

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Doveva sentirsi sempre sotto attacco, offeso, nudo. Questa è la droga. Sempre nel rischio di vedersi sorpreso alle spalle, preso per le palle, sotto tiro, Mailer. Faceva a pugni con l’aria, satura di ovazioni, all’altare preferiva la tribuna, al dio sostituì un manifesto con il suo faccione dallo sguardo scaltro, un po’ lubrico. Un satiro a New York, Norman Mailer. Dal suo libro fu munto un film, nel 1958, diretto da Raoul Walsh, non un capolavoro. Nel cast, per la gioia di Mailer, spiccavano Lily St. Cyr, spogliarellista di grido, e la bellissima Barbara Nichols.

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Nella giustificazione, scritta per festeggiare i primi cinquant’anni dall’uscita del romanzo, Norman Mailer ammise di essere stato influenzato da Lev Tolstoj. Anche quello era un desiderio delirante, bellissimo: essere il Tolstoj del proprio tempo. Mailer dice, in particolare, di essersi ispirato ad Anna Karenina. Si alzava la mattina e prima di scrivere leggeva brani da Anna Karenina, per orientare la propria lingua. Curioso. Il libro dell’amore totale, del tradimento, della passione e della compassione, della guerra dei sensi e dei sotterfugi, per scrivere la guerra degli uomini, l’orrore. Il romanzo femminile per narrare le pistolettate tra maschi. Piuttosto, nel romanzo di Norman Mailer pare agitarsi lo spettro di Dostoevskij. Qui, quando Martinez ammazza un soldato giapponese, ad esempio. “Senza far rumore, quasi con calma, piantò la punta del coltello tra la gola e la spalla del soldato e spinse con tutte le sue forze. Il giapponese si agitò fra le sue braccia come un animale che non voglia farsi prendere in braccio dal padrone, e Martinez sentì solo una debole irritazione. Perché faceva tutto quel rumore? Il coltello non era andato a fondo, quindi lo estrasse in parte e lo conficcò di nuovo nella carne. Il soldato si contorse ancora un istante tra le sue braccia, poi collassò… La sentinella morta gli faceva schifo, era una cosa da evitare. Sentiva quel misto di sollievo e di ripugnanza che si prova dopo aver a lungo inseguito uno scarafaggio e averlo alla fine schiacciato sul muro. Ne era turbato proprio in quel modo, non di più. Tremava per il ribrezzo del sangue che gli si andava seccando sulle mani, ma avrebbe tremato nello stesso modo per la poltiglia dello scarafaggio schiacciato”. Pare un brano dei Demoni, barbaro fino a farci sciamare i denti. Uccidere un uomo come si schiaccia uno scarafaggio. Qui Mailer non mente. D’altronde, la giovinezza non è innocente, è una guerra, una menzogna. (d.b.)

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Ora che sono passati cinquant’anni dalla prima edizione del Nudo e il morto, pubblicato per la prima volta nel maggio del 1948, credo sarebbe interessante parlarne nei termini di un bestseller scritto da un dilettante. Naturalmente, come spesso accade con i bestseller, si trattava di un buon romanzo, e lo scrittore che aveva iniziato l’opera a ventitré anni per completarla quindici mesi dopo, all’epoca aveva già all’attivo più di duecentocinquantamila parole scritte al college. Si trattava pertanto di un dilettante che quantomeno lavorava sodo, amava scrivere e si sentiva pronto, come può esserlo un ventiquattrenne, a mettere la propria spada a disposizione della causa della letteratura. Era comunque un ingenuo, un innamorato della scrittura che padroneggiava ben poco la sottile arte dello stile. Non aveva molte inibizioni e scriveva sotto la spinta dell’entusiasmo. Non sapeva bene se il suo posto nella letteratura sarebbe stato accanto a Tolstoj, o se era invece totalmente privo di talento. Insomma, un dilettante.

Era anche uno scrittore che presto sarebbe diventato l’autore di un libro di grande successo. In effetti, Il nudo e il morto sarebbe rimasto il suo unico, prodigioso bestseller. La storia era buona, e migliorava andando avanti. Il libro aveva inoltre il dono dell’immediatezza, e venne pubblicato proprio nel momento in cui, a tre anni dalla fine della seconda guerra mondiale, tutti erano pronti a leggere un grande romanzo di guerra che desse un po’ l’idea di cosa era successo: i combattimenti abbondavano e lo stile era quello dei bestseller. In molte sue parti il libro è stato scritto in modo trasandato (le parole venivano fuori troppo in fretta e con troppa facilità). Si trova a stento una frase in cui un sostantivo non sia accompagnato dall’aggettivo più ovvio e scontato: troverete caffè bollente e paura terribile dappertutto. Gli aggettivi facili sono il marchio di fabbrica della scrittura popolare. Il libro possedeva inoltre una certa forza. E questa è la bellezza dei bei libri scritti dai dilettanti. Si avventurano in scene che lo scrittore più esperto (e con più preoccupazioni professionali) o lascia perdere del tutto o si limita soltanto ad accennare. Il nudo e il morto è pieno di sfide, e quelle vinte sono più di quelle perse: è diventato un bestseller a ragione, perché ha almeno una delle due caratteristiche necessarie per questo tipo di libri: essere scritti o da qualche dilettante pieno di sé o da professionisti di nicchia che conoscono un determinato argomento più di quanto dovrebbero. Detto ciò, non si dovrebbe chiedere all’artigiano che sta componendo queste righe quali siano le virtù del suo lavoro da dilettante. La risposta è che ha avuto la fortuna di essere profondamente influenzato da Tolstoj nei quindici mesi che ci vollero a comporre l’opera, tra il 1946 e il 1947: tutte le mattine, prima di iniziare a lavorare, leggeva qualche pagina di Anna Karenina. Quindi le sue pagine riflettono quanto aveva appreso da Tolstoj sulla compassione, pur con tutti i limiti di un ventiquattrenne. Perché questa è la vera genialità del grande vecchio: Tolstoj ci insegna che la compassione ha valore e arricchisce le nostre vite solo quando è severa, cioè quando riusciamo a percepire tutto quel che di buono e di cattivo c’è in una persona, e riusciamo comunque a capire che la somma di bene e male negli esseri umani pende leggermente più verso il bene. In ogni caso, buoni o cattivi, ci ricorda che la vita è un’arena per gladiatori dell’anima, e così ci sentiamo rafforzati da coloro che resistono e impietositi e addolorati per coloro che soccombono. Questo lato di Tolstoj, la consapevolezza che la compassione non ha valore senza severità (altrimenti non sarebbe al riparo dal sentimentalismo), ha conferito al Nudo e il morto il valore che seguita ad avere oggi, qualunque esso sia, e ha catapultato il dilettante che l’ha scritto tra le fila di quegli uomini e quelle donne di lettere costretti a diventare professionisti per sopravvivere. Il che non è facile, perché implica che ogni giorno di lavoro sia produttivo, anche quando la giornata non lo è, e in effetti questa è la qualità che distingue gli scrittori professionisti dagli altri.

E così, a me, Il nudo e il morto piace ancora. Ha i suoi pregi e i suoi difetti, ma ha senz’altro un salubre, forse anche stimolante, tocco di compassione tolstojana che mi permette di coltivare speranza per tutti noi le rarissime volte che mi guardo indietro e ne rileggo qualche pagina. Lasciatemi quindi credere che sia possibile trovarvi un bel po’ di speranza qualora lo si legga per intero.

Norman Mailer

maggio 1998

Gruppo MAGOG