09 Giugno 2023

Storia di una matta. Norah Hoult, la scrittrice che tutti hanno censurato

Alcuni nascono crocefissi, il legno del destino tarlato dal tracollo, devoto ai naufragi. Irlandese, nata a Dublino nel settembre del 1898, Eleanor Lucy Hoult si trovò, subito, istituita nella solitudine, in un’era con le spine sul braccio. La madre, Margaret, d’educazione cattolica, fuggì, poco più che ventenne, con un architetto protestante. La fuga d’amore, verso golfi di tenebra, durò un attimo: Margaret muore quando la figlia compie nove anni; il marito – in abbandono – fa la stessa fine, pochi mesi più tardi. Insieme al fratello, Eleanor è affidata ai parenti del padre, nel Nord dell’Inghilterra.

La ragazza ha il genio del linguaggio e la dedizione verso i casi disperati, i casti, i puri paria: riconosce una fratellanza coi sofferenti, si fa madrina dei maledetti. Pratica per il “Sheffield Daily”, poi per il “Telegraph”: naturalmente, si sposta a Londra. Il primo libro, una raccolta di racconti, s’intitola, va da sé, Poor Women!: esce nel 1928, Eleanor sceglie di firmarsi Norah Hoult. Il libro riscuote un certo successo e Norah Hoult si getta, cuore e mente, nella scrittura: seguono, a breve distanza, Time Gentlement! Time! (1930), Apartments to Let (1931), Youth Can’t Be Served (1933), Holy Ireland (1935), che consolidano la sua reputazione critica. Norah Hoult è una scrittrice ‘femminile’ più che femminista, racconta di amori sprecati, prostituzione, matrimoni allo sfascio, alcolismo. Ferocia smorzata nell’estro ironico; iron lady della scrittura allietata da una sorta di spregiudicata pietà.

Il matrimonio con lo scrittore Oliver Stonor, più giovane di lei e meglio inserito nel meccanismo editoriale anglofono, potrebbe farle fare il salto della notorietà. Norah Hoult, tuttavia, non regge alle ‘dinamiche di coppia’, agli infingimenti sociali, a una più o meno latente sottomissione. Il matrimonio si rompe nel 1934; Norah vaga tra Irlanda e Stati Uniti; i suoi romanzi, spesso, non passano il vaglio della censura irlandese, che la tartassa, per anni.

Nell’arco di una vita dedita alla letteratura, Norah Hoult pubblica ventitré romanzi e quattro raccolte di racconti; l’ultimo libro, Two Girls in the Big Smoke, esce nel 1977, la donna morirà sette anni dopo, nei pressi di Greystones. Dal 1957 aveva fatto ritorno in Irlanda, la sua terra, consapevole che il mondo letterario non le avrebbe concesso più che brevi lasciti di gloria, la stola della lebbrosa. Tra gli altri, restò in fraterna amicizia con Oliver St. John Gogarty, scrittore e intellettuale tra i più importanti di Dublino, modello per il Buck Mulligan dell’Ulisse di Joyce.

Negli anni, la figura di Norah Hoult ha finito per rappresentare, per così dire, l’icona del genio “negletto”, ignorato dal sistema; il simbolo della brillante scrittrice annichilita dalla cecità dell’epoca, dall’irriconoscenza. In un recente articolo pubblicato sul “The Irish Times”, Sinéad Gleeson si domanda Why has Norah Hoult been overlooked? La risposta è perfino troppo facile: all’epoca la scrittrice si occupava “di argomenti controversi”; oggi non esiste controversia, ma il servaggio alla scrittura unica, che va di moda, impegnata e autorevolmente esangue, ‘attualistica’.

Qualche anno fa Persephone Books, casa editrice con sede a Bath e il compito programmatico “di ripubblicare romanzi dimenticati, per lo più di donne vissute nel secolo scorso”, ha stampato il capolavoro di Norah Hoult, There Were No Windows. Pubblicato in origine nel 1944, il romanzo ruota intorno al collasso mentale di Claire Temple, di cui sono narrati gli ultimi mesi di vita. Mentre il mondo crolla nella Seconda guerra, una donna sprofonda nella demenza: con estrema delicatezza, Norah Hoult mette il romanzo al servizio di un tema – le smagliature della mente – fino ad allora intoccato, intoccabile. La figura di Claire è calcata su quella di Violet Hunt (1862-1942), ‘mito’ della letteratura inglese dell’epoca (ricca, avvenente, suffragetta, cofondatrice del Pen International, aprì un salotto a Campden Hill dove si riunivano, tra i tanti, Ezra Pound e Joseph Conrad, Henry James e Wyndham Lewis); Norah aveva vissuto per un periodo, nel 1939, nel quartiere di Violet, ammirandone, per così dire, la dissipazione dell’intelletto, il viale del tramonto.

Il carisma di There Were No Windows – di cui qui si traduce, per la cura di Elisabetta Acerbi, un brandello – è nella descrizione, minuta, con la carità degli spietati, di una mente che implode, tra smarrimenti, fittizie cospirazioni, spirali del lapsus, lupi che scombinano specchio e verità. La mente è “senza finestre”, specie di purezza claustrofobica, di cubo bianco. Eppure, quando Claire balla – si legga la fine del brano –, menade che non mendica nulla e nulla rivela, si crea un mondo: che questo mondo sia il parto di una demenza, l’estasi di un dio deviato, a quel punto, non ci importa – purché sia bello.

***

Norah Hoult, There Were No Windows. Capitolo I

Kathleen la vide per prima e mormorò: “Oh, buon Dio”, il che spinse Mrs. White a guardarsi intorno sorpresa. Poi, rivolgendosi con fermezza all’anziana che si stava avvicinando: “Se cerca il gatto, sta solo perdendo tempo; non è qui!”

“Non stavo cercando il gatto, stavo cercando lei. Credevo se ne fosse andata. Dov’è il gatto quindi?”

“Non lo so. Cosa voleva da me?”

Ci fu un attimo di esitazione prima della risposta, che poi arrivò trionfale: “Volevo chiederle dei programmi per la giornata. Mi ha detto che la mia segretaria non c’è, quindi lei è l’unica cui posso chiedere”.

“Cosa intende con programmi per la giornata?”

“Perché, non viene nessuno a pranzo? Oppure…no, non credo di avere alcun impegno, giusto?”

“Non che io sappia”. Kathleen si voltò di spalle e si mise ad aiutare Mrs. White, che stava stendendo un lenzuolo.

Infastidita dal gesto, disse bruscamente: “Per favore, cuoca, presti attenzione quando le chiedo qualcosa”.

“Mi chieda qualcosa che abbia senso allora. Non ho tempo per rispondere alle domande di una matta.”

La parola proibita era stata pronunciata, fuori nella luce piena di un lunedì mattina di bucato: impressa nel cielo grigio di Londra, il lenzuolo bagnato gliela sbatteva addosso. Era lì il pericolo, ma il suo istinto lo aggirò: “Davvero cuoca, dirmi che sono matta perché le ho chiesto chi sarebbe venuto a pranzo…è davvero ridicolo. È lei che dev’essere matta.”

“Va bene allora, lo sono io. E la risposta è che nessuno verrà a pranzo né in nessun altro momento. È soddisfatta ora?”

“Certo, sono molto soddisfatta.”

Si allontanò da loro con dignità, a testa alta. Era davvero troppo: tutte le volte che parlava con quella donna orribile finiva in lite. Ed essere chiamata…non doveva pensare a come l’aveva chiamata.

Salì al piano disopra e, colta da un’idea improvvisa, si diresse furtiva verso la piccola stanza adiacente al bagno che dava sul giardino. Si fermò con cautela al lato della tenda e sbirciò fuori verso le due donne. Le loro teste erano vicine: Kathleen parlava, Mrs. White ascoltava. Parlava di lei ovviamente! Sarebbe stata stupida ad aspettarsi altro. I domestici si sono sempre lasciati andare a chiacchiere malevole sui loro padroni. Ma perché Kathleen aveva detto Matta? A meno che non stesse cercando di convincere l’altra donna, di coinvolgerla in qualche oscuro complotto. Il solo pensiero era assurdo, ma i domestici complottano davvero. C’era quella terribile governante francese di cui aveva scritto Sheridan Le Fanu; il finale era un calesse a noleggio – oggi sarebbe stata un’autovettura – e una mano sulla bocca a soffocare le grida. I domestici che stendono il bucato in un cupo giardino a Kensington potevano essere spettri del male di quel mondo oscuro che si distende sotto a un cielo nero o rosso con la minaccia imminente di tuoni e fulmini, fulmini che, come un pugnale d’argento, lo trafiggono. In quel mondo mostruoso, mondo di melodrammi e attrezzi di scena eppure così reale, i domestici potevano tradire come aveva fatto Jago con il suo padrone, si poteva essere torturati e morire di stenti, rinchiusi dietro finestre sbarrate dove le grida rimanevano inascoltate. O, in caso contrario, quelle grida sarebbero state giustificate come: “Sa, è una matta delirante”. Una spiegazione mostruosa, ma che ha sempre soddisfatto e rasserenato le anime di più buon cuore. Un mondo di melodrammi, sì, ma che è esistito: lo sapeva Shakespeare come lo sapevano gli scrittori del diciottesimo secolo. Anche adesso, nel diciannovesimo secolo…o era forse il ventesimo?

Sì, era il ventesimo secolo. Ma in quale anno? La sua mente, allentata la tensione, si arrovellò nel tentativo di arrivare a una data. C’era una guerra in corso, una guerra che era iniziata nel 1914. Però no, questa – continuavano a ripeterle – era una guerra molto diversa. Era quindi passato molto tempo dal 1914. Sì, doveva essere nel ventesimo secolo.

La percezione di un movimento nel giardino di sotto richiamò la sua attenzione. Le due donne stavano tornando in casa sorreggendo la cesta vuota del bucato. Kathleen guardava verso il cielo; era una donna molto bella, il grembiule rosa che indossava esaltava il suo colorito. Ma era una donna perfida, forse malefica. La vedeva in quel momento come Otello, nella sua diffidenza, vedeva la bellezza di Desdemona: “O tu, malerba, dolce, delicata e che emani un profumo sì sottile da far dolere i sensi dallo spasimo…”

No, certo, pensò spostandosi dalla finestra con impazienza, Kathleen e Desdemona non erano per nulla paragonabili. Kathleen non era decisamente “sì gentile”. Era un’arpia, una sgualdrina irlandese. In più, Otello aveva sbagliato nel sospettare Desdemona, mentre lei era del tutto sicura di non aver sbagliato nel sospettare Kathleen.

Ma stava pensando ad altro. Che cos’era? Qualcosa a che fare con il tempo. Euclide, si ricordò, aveva torto e ciò rendeva tutto ancora più inconsistente. Eppure, c’erano ancora le date, ed era importante – dato che quella donna aveva avuto l’audacia di sostenere che era pazza – che lei sapesse che data era. Sicuramente era una delle domande che le avrebbero fatto. E se non fosse stata in grado di rispondere, l’avrebbero spedita direttamente a Bedlam. Ci doveva essere un calendario o almanacco di qualche tipo in casa. Sarebbe andata stanza per stanza a cercarlo.

Si aggirò di sopra e di sotto, gli occhi che si muovevano sui quattro muri di ogni stanza. Era strano che non ci fosse un calendario da nessuna parte perché a Natale così tante persone spedivano calendari, alcuni di un gusto atroce che finivano subito nel fuoco o si davano ai domestici. Ma di solito uno o due venivano appesi almeno nel bagno e, ovviamente, doveva essercene uno nello studio. Si attardò un po’ alla sua scrivania sfogliando alcuni vecchi ritagli, fino a che le dita non le si irrigidirono per il freddo; a quel punto si fermò domandandosi cosa stesse cercando.

Stava cercando una data, ma quale data? Se qualcuno le avesse chiesto improvvisamente che cosa stai cercando? avrebbe risposto con più eleganza: “sto cercando il tempo”. Era stupido dividere il tempo in giorni. Bisognava dividerlo in fasi, come “gli spensierati anni Novanta”, quando si era stati spensierati con lo scorrere degli anni. Era stato allora che aveva sfidato Mrs. Grundy e aveva cenato con i giornalisti a Soho, tornando spesso a casa da sola in carrozza. Era stato allora che aveva vissuto la sua grande passion. Oliver Manning. Dire il suo nome adesso…significava ancora più di qualsiasi altro nome. Ma quanto l’aveva trattata male…quando sua moglie era finalmente morta, aveva sposato quella vecchia francese senza grazia e senza nemmeno tanti soldi. Perché, perché? Dopo tutti quegli anni, ancora non riusciva a capirlo. “Tu sei una donna a cui l’amore porta infelicità”, le aveva scritto. E “ci renderemo l’un l’altro infelici tanto quanto felici”. E perché no? Perché era un codardo, tutti gli uomini erano codardi. Ma non aveva protestato, era stata molto male e poi se ne era andata a Parigi con quella contessa irlandese che dipingeva; si era seduta nei locali a guardare la gente, aveva visitato la Morgue…ah, quelle finestre con l’acqua che scorreva senza sosta! Sì, era stupido contare il tempo con i giorni. C’erano periodi in cui il cuore ti veniva strappato via, e poi lunghi periodi in cui ricresceva. Solo per essere strappato via ancora, perché quando si divertiva, era spensierata e affermata, Wallace era tornato e aveva minacciato di suicidarsi. E lei era caduta vittima della stupidità delle donne, quella stupidità che fa credere loro di poter salvare gli uomini.

Allora era una donna di mezza età. Ma quella mezza età non significava nulla. Si poteva ancora ballare e sedurre come aveva ballato e sedotto lei. Essere vecchia, invece, quello era terribile. Perché poi diventava inappropriato rivolgere sguardi intensi, sostenerli fino a che non venivano ricambiati e lasciavano trasparire interesse, fino a che non interveniva quel qualcosa come a dire: “Sì, tu sei una donna e io sono un uomo”. Quando si era fermato tutto ciò? era questo quello che voleva sapere? Quando il suo sguardo, di chiunque fosse, aveva espresso nient’altro che una cortese attenzione? O, peggio ancora, si era spento in una sorta di goffo imbarazzo?

Questo è quello che avrebbe voluto chiedere a Dio, se davvero esisteva. Perché le donne passano anni ad imparare ad essere donne, a diventare abili nelle adulazioni e nel fascino? Se poi ci si ritrova ad essere, per anni, una vecchia con i capelli bianchi e il collo incavato che gli uomini non desiderano amare. Beh, li aveva tenuti stretti a sé con le conversazioni e perché aveva sempre avuto una brava cuoca. Ma poi le era stato giocato un altro brutto tiro: la sua memoria se ne era andata, aveva galoppato per monti e valli, con il risultato che ora non era più tanto divertente; anzi, era una noia. Per cosa tutto ciò, Dio? Era giusto?

No, era talmente ingiusto che non poteva fare a meno di immaginare che ci fosse un qualche complotto contro di lei. I suoi nemici – le persone che aveva infastidito raccontando cose divertenti ma che di certo erano state sgradevoli perché, naturalmente, ripetute – quei suoi nemici si erano messi insieme e l’avevano consegnata nelle mani della sua cuoca, una donna perfida e volgare, di cui si poteva solo dire che le sue pietanze erano molto buone. Quindi niente più conversazioni, niente più feste, niente più passioni fugaci, nient’altro se non un’unica eccezione: aveva la stessa leggerezza di sempre e poteva ancora ballare, anche se da sola.

E come a volerlo dimostrare, alzò la gonna del suo sottile abito nero e iniziò a ballare, canticchiando tra sé il ritornello del valzer The Merry Widow… andò avanti ancora e ancora: girava attorno ai piedi del letto, ondeggiava leggermente i fianchi, di tanto in tanto chinava il capo, si immaginava di star stringendo un ventaglio, si immaginava che il braccio di un uomo le cingesse la sua vita minuta, che l’orchestra fosse seducente, che la pista da ballo fosse eccezionale, che il suo cavaliere stesse iniziando ad innamorarsi un po’ di lei e le stesse sussurrando qualcosa sulla delicatezza dei suoi occhi. Fece una pausa per prendere fiato, poi scivolò e ondeggiò ancora una volta, ballando ancora e ancora sulla musica che l’aveva accompagnata in altri anni.

Norah Hoult

*Traduzione e cura del brano di Elisabetta Acerbi

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