Difficile capire se un comunista possa mai smettere di essere tale. I maligni direbbero che la più grande astuzia del demonio sta nel far credere di non esistere. Ma, in fondo, tutto ciò poco importa. Il ’900 è finito e con esso tutte le categorizzazioni forti e manichee. E anche chi l’ha attraversato in pieno non può fare a meno di prendere sempre di più le distanze da sé stesso, per ogni passo che muove entro il nuovo millennio. Si finisce insomma per contemplare ciò che si è stati come una reliquia, in un misto di imbarazzo e nostalgia per una purezza irrimediabilmente perduta nella liquidità del nostro tempo.
Sergio Staino, il noto vignettista creatore di Bobo e direttore di “L’Unità” fin quasi alla sua chiusura, è stato forse uno dei massimi simboli di un’era di transizione. Sospeso tra un tempo in cui la sinistra era sinistra senza “se” e senza “ma” e ciò che, nel bene o nel male, è divenuta. Ma, a quanto pare, lui non ama il radicalismo di una coerenza dura che non conosce adeguamenti, proprio come non ama alcuna forma di estremismo. E, infatti, è difficile trovare in lui il buon vecchio nemico di sinistra stigmatizzato da fascisti, preti e berlusconiani. Al contrario, Staino è affabile, superiore al sussiego verso sé stessi degli uomini della vecchia guardia. Non sembra neppure un signore in età, malgrado gli anni – certo, appare più giovane lui di un Renzi in preda ai suoi deliri giovanilistici.
L’ho raggiunto telefonicamente con un certo timore, consapevole di andare a fare i conti con un grosso pezzo di storia del giornalismo e della sinistra. Forse in preda al panico, come quando da ragazzini si andava a confessarsi e si aveva timore che il prete ci potesse vedere dentro, ho subito spiattellato la verità: “Le volevo dire, però, che non sono di sinistra”. Niente da fare, la cosa non lo ha indignato né infastidito. Anzi, l’ha presa a ridere. E io che credevo di rappresentare il cattivo agli occhi dei comunisti…
Direttore, perdoni la domanda provocatoria e un poco fantozziana: ma lei è ancora comunista?
Direi di no, se al termine dai un valore storico ben preciso, cioè se intendi per comunista colui che crede nell’azione violenta per il rovesciamento delle classi sociali e nella necessità per il proletariato di attuare una feroce dittatura, in prospettiva di una società di liberi e uguali e di amore. Non lo sono nel senso in cui lo erano Lenin, Stalin, Mao Zedong, Fidel Castro. Anzi, io sono tra quelli che pensano che molto spesso la strategia da loro seguita abbia creato più ingiustizie, danni e dolori, di quelli che voleva combattere.
Ma, almeno, lo è mai stato?
Lo sono stato fino al ’78-’79, fino a che non ho lasciato i marxisti-leninisti. Fu dopo l’assassinio di Moro, di fronte all’estremismo di sinistra, alla voragine del terrorismo. Al cospetto di quanto stava avvenendo ho avuto la capacità, come molti altri, di ripensare il tutto e di rientrare nell’alveo del riformismo che avevo lasciato per questa orribile follia utopistica. La nostra parola d’ordine era, a pensarci oggi, atroce. Si trattava di una massima di Mao Zedong: “Il potere politico nasce dalla canna del fucile”. Impensabile per chi come me voleva la pace e l’uguaglianza. Se poi mi parli di comunismo riferendoti ai suoi valori e ideali, come la prospettiva futura di una società di uguali in cui i rapporti di proprietà non determinano più la costruzione della stessa, ma siano sostituiti da valori solidali, ecco in quel senso sì, mi sento molto comunista. Ma ciò non si raggiunge facilmente e meno che mai con la violenza, ma piuttosto con la progressiva crescita culturale della società, utilizzando l’unico strumento che abbiamo fino a oggi per poterci organizzare, la democrazia rappresentativa.
Cosa c’è di male nella violenza dal suo punto di vista?
Dalla violenza nasce solo violenza. È un insegnamento di tipo gandhiano che noi marxisti abbiamo sempre rifiutato, perché venivamo dalla scuola leninista per la quale la violenza è necessaria. Vedi, da giovane mi sono letto tutto Brecht – uno degli autori più importanti nella mia formazione. Lui lo dice chiaramente nella poesia Ai posteri: voi che un giorno vivrete in una società giusta sappiate che noi non l’abbiamo potuto fare, perché l’odio contro l’ingiustizia stravolse le nostre azioni. Noi che aprimmo la strada alla gentilezza non potevamo essere gentili. Ecco, questo non poter essere gentili giustificava tutte le cose più orribili, come le purghe, i genocidi, le violenze. L’idea del comunismo penso sia molto bella e molto utile, se si inserisce in un corpo umano basato sulla gentilezza. Io credo, per esempio, che la parola cristiana e francescana, la cura del prossimo, essere gentili, l’altruismo e la solidarietà siano l’elemento fondamentale. Se invece mi accorgo che dietro c’è l’egoismo, l’odio, la cattiveria, il cinismo… Perciò non ho mai sopportato Beppe Grillo, nemmeno prima che divenisse un attivista politico, perché ho sempre sentito oltre le sue parole, apparentemente rivoluzionarie, una cattiveria che lo rende pericolosissimo. Metti la sinistra in mano a una persona malvagia e farà un disastro.
A suo avviso la sinistra detiene ancora l’egemonia culturale?
Se parliamo di alcuni elementi della sinistra, sì. L’egemonia, invece, nel senso di avere una presa sulla società, no. E questo perché, nella contingenza storica attuale, l’aspetto culturale è fortemente in crisi. Altri aspetti sono predominanti: la paura in primo luogo, quella del diverso, del licenziamento, del non lavoro. Dato questo clima diffuso, mi sembra che la situazione culturale sia fortemente minoritaria nel paese. La sinistra ha abbandonato questo aspetto inteso come elemento di identità di un popolo e, quindi, il potere rappresentato dallo scendere in piazza, fare teatro, musica, stare insieme, leggere libri, discutere. Basti vedere come si sono ridotte le feste dell’Unità. Sono morte come struttura, come concezione. Devi sempre trovare il personaggio di richiamo televisivo, per smuovere la gente. Chi parla di cultura, chi approfondisce, non va di moda. Allo stesso tempo bisogna comunque riconoscere che i riferimenti culturali di oggi sono tutte persone di sinistra, o in ogni caso progressisti.
Lei, però, ammetterà che a oggi la sinistra controlla ancora tutte quelle che si chiamavano le logge matte del potere?
No, no, per carità, da questo punto di vista non controlla più nulla. Sono persone isolate. Non mi sembra che ci siano radicamenti culturali. L’unico che probabilmente riesce a fare cultura, ma perché la lega a un’azione politica e propagandistica, è Roberto Saviano – anche se politicamente spesso non concordo con lui.
A mio avviso, uno dei più grandi errori della destra è stato quello di non essersi adoperata per costruire un suo spazio in ambito culturale, contrapponendo una forza uguale e contraria a quella della sinistra. Infatti, mentre gli intellettuali di sinistra sono tutti o quasi coalizzati verso un unico obiettivo, quelli di destra sono cani sciolti, ognuno slegato e così indipendente da non rappresentare che sé stesso. Secondo lei la mia interpretazione corrisponde al vero? E, soprattutto, perché la destra non è riuscita in tal senso? Non si è mai posta l’intento, oppure semplicemente la destra e la cultura sono due cose antitetiche?
Quest’ultima affermazione, l’antitesi tra destra e cultura, ha una sua logica… Diciamo che la destra, storicamente, ha sempre avuto una posizione abbastanza diffidente nei confronti della cultura. Guarda anche Trump in America, prontamente imitato da Salvini, che elogia le persone semplici, senza cultura, criminalizzando tutti i radical chic. Ma chi sono, in ultimo, i radical chic? Sono gli intellettuali, i giornalisti, i professori. Purtroppo, la destra tendenzialmente è fondamentalista, come l’estrema sinistra. Il dubbio non alberga da quelle parti. Basti vedere come si muove questo governo – ma, a onor del vero, come si muoveva anche Renzi, quando gli si avanzavano delle obiezioni: invece di accoglierle come un elemento vivificatore, le incassava con malcelata sopportazione. Se c’è una cosa su cui oggi la sinistra, soprattutto quella renziana, non ha influenza è la cultura. Ma credo sia tutto l’attuale gruppo dirigente del PD a non poter essere considerato affine alla classe intellettuale, data la sua superficialità. Fossimo stati intellettuali avremmo dovuto chiuderci a studiare, approfondire, visto che della realtà italiana abbiamo capito molto poco.
Secondo lei, il giornalismo di sinistra è libero o si tratta della mera espressione di un’ortodossia?
Se considero il singolo giornalista, ci sono persone di grande valore. Personalmente, però, cerco di informarmi senza fermarmi a due o tre giornali, perché di cose interessanti ce ne sono un po’ in tutti. Quando ci sono degli spiriti liberi, che dicono le cose realmente per come le vedono, senza ossequiare, o perseguire secondi fini, quella è una cosa preziosa e, a mio avviso, esistono persone di questo tipo attualmente. Manca, invece, mi pare, una voce riformista forte in Italia. Tale ruolo è stato affidato a “La Repubblica” che non lo rispecchia perfettamente, pur restando comunque un giornale importante e con voci interessanti. Un’azione di approfondimento reale – questo dovrebbe essere il terreno della sinistra – non esiste. In tal senso, io credevo molto alla possibilità di avere ancora “L’Unità” che lavorasse su questo versante. Ci sarebbe “Il Manifesto”, ma soffre di una serie di pregiudizi che derivano dall’essere consapevolmente e programmaticamente minoritario e spesso estremista. Questo non aiuta perché fa cedere al fondamentalismo, impedendo di comprendere la realtà.
Quando, nel giornalismo, alla libera espressione subentra la propaganda?
Quando si vuol far passare una interpretazione precostituita, quando si vuole dimostrare un qualcosa che è difficilmente dimostrabile a tutti i costi. Guarda per esempio “La Verità” che, al di là del suo nome altisonante, sta portando avanti un’operazione indegna. E, attenzione, indegna non perché si posizionano a destra, ma perché stanno facendo una disinformazione totale, senza basare le loro analisi su elementi concreti. Ma anche al “Corriere della Sera”, con l’arrivo di Cairo, un’area filo grillina è venuta fuori e certo non mi piace per niente.
Esiste un giornalista di destra che lei abbia apprezzato e uno che apprezzi tutt’ora?
Ne esistono molti, quasi tutti quelli de “Il Foglio”, ad esempio, con Cerasa e Ferrara in prima fila. Al di là del sogno nascosto di vedere un governo con Berlusconi e Renzi al posto di Salvini e Di Maio, i loro commenti e le loro analisi politiche sono sempre ricche di utilissime intelligenze.
Come procede nella realizzazione di una sua vignetta?
Non c’è una formula fissa. Solitamente l’ispirazione giunge nel momento più inaspettato. Spesso mi vengono di notte ed è pericoloso, perché la notte tutte sembrano meravigliose. Poi la mattina, quando le guardi bene, può capitare di accorgersi di aver fatto una cagata (ride). Mi vengono anche leggendo un articolo, un libro, vedendo un film. Si tratta sovente di un collegamento insondabile da cui magari scaturisce una battuta e, di solito, più ingiustificato è il collegamento, migliore è l’umorismo. Quando, invece, si costruisce la vignetta direttamente dalla notizia è più facile che venga piatta. L’irrazionalità dà i frutti migliori in questo campo. C’è sempre bisogno di un po’ di irrazionalità e anarchia.
Ma lei, attualmente, disegna utilizzando gli strumenti tecnologici e non più a mano?
Io disegno su un touchscreen molto grande. Ciò mi aiuta molto, perché posso stare vicinissimo, non mi faccio ombra e lo strumento ha una buona luminosità. Posso ingrandire, rimpicciolire. Magari, però, così facendo possono sfuggirmi le proporzioni e un occhio venirmi più grande dell’altro. Ma mio figlio mi aiuta e le edita, rendendole leggibili. Come spiego spesso, quando tengo una lezione nelle scuole, con ipovedenti o ragazzi che si occupano di grafica, questo strumento, così lontano dall’operatività del disegno con fogli e matite, è in realtà ugualmente pieno di sorprese, curiosità ed emozioni. E l’emozione deve sempre essere quella che guida l’opera creativa.
Quanto tempo ci mette a realizzare una vignetta?
Non poco. Oramai sono lentissimo. Prima, in cinque minuti, ne facevo quante ne volevo. Ora ci vuole almeno un’ora.
È noto a tutti il suo essere ateo. In una delle sue interviste ho letto che lei, pur essendo cresciuto all’oratorio e tra i preti, a un certo punto si è reso conto di non riuscire a credere in niente che non fosse materiale e scientificamente dimostrabile. Una cosa che però non sono ancora riuscito a comprendere della sua posizione è questa: ma lei è arrabbiato con Dio perché non esiste, oppure semplicemente non sente alcun bisogno di un giudice ultimo e superiore alle umane vicende?
Entrambe le cose (ride). No, non sono arrabbiato con Dio e mi piacerebbe moltissimo sbagliarmi sulla sua esistenza. Vedi, ho avuto un insegnante alle medie talmente carogna che mi ha messo fuori perché ero figlio di contadini – allora la selezione di classe era fortissima. Eppure, io ero bravo, andavo bene. A mia madre disse: “Signora, come può pensare che un figlio di contadini faccia la scuola media Carducci, qui a Firenze?”. Lei si mise a piangere. Ecco, in un simile caso mi piacerebbe credere all’inferno e sapere che sta ancora lì a bruciare, quella merda. Invece, con mio grande dispiacere, sarà semplicemente polvere come tutti noi un giorno.
Però vorrei insistere sul punto del credere unicamente in ciò che è razionale…
Ma io non riesco neanche a essere agnostico, come molti. A me sembra talmente ridicola l’idea che possa esistere una persona, un’entità cosciente e razionale che può organizzare a suo modo il creato, senza poi riuscire a starci dietro. La religione mi interessa molto, a ogni modo, soprattutto quella cattolica che, ovviamente, ho frequentato di più. Personaggi come Don Milani e Padre Balducci fanno indissolubilmente parte della mia formazione, me li sento vicini, come Gramsci e Berlinguer. Nel rapporto concreto con l’organizzazione religiosa, come la Caritas e certi preti decisamente in gamba, poi, massimo rispetto. Ma credere no, mi risulterebbe falso. Non mi viene naturale.
Secondo lei quindi le idee di sinistra sono razionali, o sono una fede?
Se diventano una fede, non mi interessano più. Devono essere sempre legate alla razionalità e sottoposte alla revisione del dubbio. Mi piace mantenere una costante insicurezza di fondo e rifuggire le soluzioni di comodo.
Direttore, il lavoro nobilita l’uomo, oppure questa è un’idea otto-novecentesco superata? In un mondo in cui, come diceva anche Marcuse, le macchine potrebbero sgravarci dal peso della fatica, ha ancora senso questo concetto tanto caro alla sinistra?
Il concetto che il lavoro nobilita l’uomo ha valore, oggigiorno, solo se il lavoro che si fa ti dà soddisfazione. Per quanto portare a casa uno stipendio, di questi tempi, sia già un incentivo all’autostima, sicuramente nel 2018 chiediamo di più, pretendiamo che questo lavoro sia un qualcosa che alla fine della giornata faccia sentire realizzati. Infatti, i ragazzi che non hanno lavoro, o ne hanno uno precario, sono sperduti e sbandati, perché gli manca questo elemento che non può essere suffragato da altro, né dall’amore né dalla famiglia o dalla cultura e lo sport. La sua mancanza crea un’insicurezza generale, sia dal punto di vista emotivo della persona, sia a livello sociale perché genera una società debole.
Com’è cambiata “L’Unità” da che lei vi è entrato, fino alla sua chiusura?
Nei primissimi anni ’80, ho partecipato, spesso inconsapevolmente, al rinnovamento di “L’Unità”. In principio avevo trovato strano il fatto che mi avessero chiamato, io disegnatore di “Linus”, a un giornale politico. Poi ho capito che il nuovo direttore, il migliorista Macaluso, voleva, attraverso la figura del compagno barbuto Bobo pieno di dubbi e di cose da mettere in discussione, rinnovare non solo il giornale, ma tramite esso il partito. Insieme a lui, e un po’ a tutti i miglioristi, ci siamo preparati ad affrontare l’89. Se il PCI non è imploso su sé stesso come il Partito Comunista Francese, con il crollo del Muro di Berlino, è perché c’era più autoironia e visione critica e ciò ci ha permesso di rimanere in piedi. Non eravamo più la voce ufficiale del partito. Eravamo diventati un organo di informazione di sinistra, in cui erano ammesse opinioni diverse. Quanto accadeva al giornale era in fondo quello che succedeva nel partito, durante le discussioni che avvenivano nelle diverse sezioni. Questi contrasti, questi dubbi da cui si è generato Bobo esistevano già tra di noi, ma nessuno ne parlava ed era vietato estrinsecarli sul giornale, dove si doveva sempre uscire come una chiesa ecumenica e monolitica.
In coscienza crede che Gramsci sarebbe fiero del lavoro da lei svolto presso il giornale che lui fondò?
Sì! Il suo pensiero mi è sempre di gran conforto, soprattutto quello secondo cui “la verità è sempre rivoluzionaria”. Questo ci salva dallo stalinismo, che nasce nel momento in cui un dirigente di partito dice ai suoi collaboratori “questa notizia è bene che le masse non la sappiano”. Ecco, quando mi dicevano che facendo certe vignette danneggiavo il partito, io chiedevo semplicemente: “Ma è vero o non è vero quello che ho scritto? Perché se è vero allora danneggerò anche il partito in questo preciso momento, ma di fronte alla storia sarà stata una cosa utile”.
Perché il grosso dell’elettorato di sinistra è passato a giornali quali “La Repubblica”, abbandonando “L’Unità”, quello che è stato per quasi un secolo l’organo principale del Partito Comunista Italiano e il giornale dei lavoratori?
I giornali sono pieni di ex de “L’Unità”. Anche il “Corriere”, con Polito e Fontana, ma pure “La Repubblica”. Abbiamo fornito più giornalisti noi di chiunque altro, anche se non tutti erano di sinistra. Lavoravano a “L’Unità”, ma più che altro perché avevano la passione per l’informazione. Quando si è presentata la possibilità di passare su altri giornali più forti… Beh, chi non l’avrebbe fatto. Solo io sono rimasto lì, perché avevo molte soddisfazioni anche negli altri ambiti in cui lavoravo. La collaborazione con “L’Unità” mi è rimasta sempre come una grande possibilità di divertimento. Ma, per rispondere alla tua domanda, vorrei dirti che c’è sempre stata una certa tendenza nel partito a trascurare il suo giornale. Pensa che, quando D’Alema fu nominato direttore da Occhetto, ebbe una prima riunione – una riunione molto tesa – con i giornalisti, in cui lui, incazzato nero perché desiderava rimanere in segreteria, quindi vivendo la cosa come una punizione inflittagli da Occhetto, disse che prima o poi ci sarebbe stato da porsi il problema sull’utilità di continuare ad avere “L’Unità”. Nelle sue parole: “In fondo, oramai abbiamo ‘La Repubblica’”. In ciò, ripensandoci, mi ricorda il Fassino di qualche anno dopo, quello di “Abbiamo una banca”. Alla fine, come si può ben notare, non abbiamo né “La Repubblica” né la banca.
Direttore, per definizione la sinistra è internazionalista, direi contraria a certi concetti quali quello di Patria, Nazione. Ma secondo lei noi siamo italiani, prima di tutto, o europei, o cittadini del mondo? Glielo chiedo perché, in fin dei conti, io e lei stiamo comunicando in lingua italiana e, per di più, ognuno con un accento diverso, quindi con un ulteriore specificità di appartenenza che lo caratterizza. Lei come la pensa in merito?
Siamo internazionalisti nel senso che nasciamo animati dallo spirito marxista del “proletari di tutto il mondo unitevi”. Però no, non penso che le idee di Patria e Nazione siano delle idiozie. Sono elementi storici e necessariamente storicizzabili. Insomma, sappiamo di non poter più contare in modo totalizzante su idee di questo tipo, però sarebbe una follia abbandonarle, perché in questo momento hanno una loro validità, anche nei confronti delle minoranze. Certo, bisogna coniugare tale eredità del passato con questa nuova visione che è quella degli Stati Uniti d’Europa, su cui si dovrà lavorare e che siamo molto lontani dal realizzare. In tal senso, la lettura della realtà fatta da Salvini, l’esaltazione del nazionalismo che ha mutuato da Trump, sta facendo fare dei passi indietro.
Un giornale, di quelli presenti al momento sul mercato, che proprio non le piace e perché?
“La Verità” perché, contrariamente a quel che farebbe sperare il suo nome, sta facendo un uso programmato della falsità – mi meraviglia che uno possa arrivare a tanto. Non mi piace “Libero”, ma perché troppo marcatamente legato alla provocazione – Vittorio Feltri davvero non riesco a capire perché sia così. La provocazione ce l’ha anche Giuliano Ferrara, però si tratta di un modo di provocare che ha sempre una certa dose di intelligenza. Per quel che riguarda “Il Fatto Quotidiano”, che nel complesso non è brutto e su cui scrivono persone che stimo come Furio Colombo, lo considero un giornale molto dannoso per la sinistra, perché si spaccia per essere di sinistra, ma in realtà diffonde concetti pericolosissimi che portano a destra.
Lei, stando almeno a quel che ho letto e a certe sue dichiarazioni televisive, ce l’ha a morte con i populisti. Potrebbe definire in modo chiaro il concetto? Insomma, chi è populista?
Un populista è uno che si riferisce direttamente al popolo, saltando tutti i corpi intermedi che abbiamo messo in piedi da 3000 anni a questa parte, dalla Atene antica fino ad arrivare alla democrazia rappresentativa. Il populista, per intenderci con un esempio, è Ponzio Pilato che si rivolge al popolo per chiedere chi debba essere crocifisso, Gesù o Barabba.
Il populismo è di destra o ci sono anche populismi di sinistra?
No, non esistono populismi di sinistra. A ogni modo è fondamentale capire che uno soggettivamente può considerarsi di destra o di sinistra, ma ciò che conta realmente è se si riconosce nelle istituzioni democratiche elettive, se crede effettivamente nella democrazia, nella divisione dei poteri e nell’equilibrio che deve esserci fra le diverse parti dello Stato.
Un uomo che dovesse reagire con la violenza e la rabbia a chi lo affama sarebbe un populista?
Sarebbe un sottoproletario che non ha capito come con certi atteggiamenti si vada poco lontano. Invece bisogna insegnargli che deve unirsi con altri che vivono la sua stessa situazione e cominciare un’azione politico sindacale per ottenere il riconoscimento dei suoi diritti. Se sei colpito da un’ingiustizia, ti posso comprendere se tiri il sasso e cerchi di ammazzare chi la commette, ma compi un’azione sbagliata. Molto meglio proporre una vignetta, o un canto in ottave come facevano i contadini contro i padroni e i nobili, perché così altri ci rideranno sopra e aumenteranno la loro coscienza di classe.
Direttore, ma oggi esiste ancora la satira o l’hanno definitivamente uccisa?
La satira esiste sempre. Anche oggi che sta attraversando un periodo non proprio felice. Purtroppo le attuali forze politiche e i populisti hanno incattivito la società. Prima si faceva una vignetta, laddove ora si urla “Vaffanculo”. Ma, come dicevo, si tratta di un periodo. Semplicemente, quando la satira è triste significa che la società non sta molto bene.
Qual è il confine tra satira e cattivo gusto? Voglio dire: asserire di Berlusconi, o di Brunetta, che sono dei “nani di merda” è satira o no?
No, non lo è. In genere, la satira che si sofferma sui caratteri fisici della persona è una satira povera di idee. Ciò che io, invece, considero satira è quella che dice cose vere, che non si possono dire, e usa la forma della allusione. La gobba di Andreotti non ha mai fatto ridere nessuno, o perlomeno non muove il cervello dei lettori. A me non interessa la satira che dà soddisfazione a una parte della popolazione, perché vede confermata una sua idea. Mi piace semmai quella che spiazza la gente facendole notare degli aspetti su cui non si era soffermata.
Matteo Fais