Lei che affonda nell’enigma dell’oceano legata indissolubilmente al pianoforte. Va bene. Chiamatelo polpettone romantico. Lezioni di piano. Tre Oscar, Jane Campion alla regia, Holly Hunter magistrale, Harvey Keitel pazzesco, le musiche di Michael Nyman che incendiano la natura neozelandese. Una natura assoluta, che ha l’odore della legge di un dio silvano, dimenticato e risorto. La Nuova Zelanda ha il fascino potente dell’altro mondo, perciò, sempre, di un’altra vita possibile. L’assolo strappavesti di Nyman che si mescola all’urlo dei fenomeni del rugby. Robe dell’altro mondo. Facendo dell’equatore la cinghia con cui tenere su il mio zainetto, un po’ di tempo fa, m’è saltato il desiderio di capire che poesia si fa laggiù, all’altro mondo. La fortuna è stata quella di trovare, all’altro mondo, un poeta italiano. Marco Sonzogni. Che è poeta, che è studioso di Eugenio Montale e di Seamus Heaney (è lui che ha curato le Poesie del grande irlandese per i ‘Meridiani’ Mondadori) e che insegna alla Victoria University di Wellington. Intorno a lui e a Claudia Bernardi, altra prof a Wellington, si è creato un piccolo polo di studiosi italiani (e di varie iniziative notevoli) alla Victoria University. Con l’incarico di research students, laggiù, all’altro capo del mondo, ci sono due italiane, 32 anni entrambe, Francesca Benocci ed Eleonora Bello. Insieme, per Gabriele Cappelli Editore, hanno tradotto da poco, come Parleranno le tempeste, le “Poesie scelte” di Janet Frame (pp.96, euro 18,00), tra gli scrittori neozelandesi più noti del pianeta, due volte candidata al Premio Nobel (i suoi romanzi sono tradotto in Italia da Neri Pozza). Incarcerate le idee per il prossimo futuro – allestire una bella antologia di poeti neozelandesi, per portare la ‘fine del mondo’ nel nostro mondo – ho contattato Francesca ed Eleonora, per parlare, a partire dal libro della Frame, di poesia, cultura e vita in Nuova Zelanda.
Preliminare. Ciò che in Italia, assai sommariamente, sappiamo di cultura neozelandese si riduce al rugby, a Lezioni di piano, alla Mansfield e a Janet Frame (per chi l’ha letta). Che ‘clima’ culturale si respira in Nuova Zelanda? Che fermenti culturali la elettrizzano?
“L’assunto preliminare ci appare mal formulato: presumere che la percezione italiana di un paese intero si basi sulla haka e su un’autrice – peraltro dai più ancora considerata inglese – come Katherine Mansfield ci sembra al contempo iperbolico e riduttivo. Ovvero, lungo il continuum dell’esperienza che una persona può avere di un paese lontano esiste tutto e niente. Si potrebbe ridurre facilmente la conoscenza della Nuova Zelanda alle peripezie di Luna Rossa ad Auckland, ma la situazione è chiaramente più stratificata. Noi oseremmo dire, dovendo scegliere una ‘media aritmetica’ concettuale, che la Nuova Zelanda non la conosce quasi nessuno. Pensa che le nostre famiglie spesso ancora ci chiedono ‘come va in Australia?’.
Il motivo per cui questo accade non è necessariamente di merito, ma prevalentemente di natura geografica. La Nuova Zelanda è un paese remoto. Remoto in più di un senso: è difficile da raggiungere, ma è anche figlio di una madre che esiste dall’altra parte del globo e perciò ha grosse difficoltà a negoziare un’identità culturale che riesca a sintetizzare la componente māori con quella di retaggio europeo, riuscendo così finalmente ad esprimere se stesso in modo unico. Detto questo, da italiani è difficile farsi portavoce degli equilibri e delle motivazioni di un paese culturalmente complesso come lo è questo. La storia della Nuova Zelanda e della sua colonizzazione, non è – come erroneamente si crede, viste le brutalità inaudite perpetrate in altre parti del globo – all’acqua di rose. Ovvero, l’integrazione dei māori, che dall’estero parrebbe esemplare, è ancora un argomento spinoso e fonte di infinito dibattito. Se poi intendi qual è il clima letterario che pervade la Nuova Zelanda, c’è anche qui da fare almeno una distinzione di base: per quanto riguarda le principali città, possiamo dire che di letteratura se ne fa tanta e che viene promossa, anche con un atteggiamento giustamente nazionalista nei confronti dell’espressione del sé (asse con Inghilterra, America e Germania) tramite anche i numerosi incentivi volti sia alla produzione di autori autoctoni che alla traduzione di autori neozelandesi in altre lingue (come, per l’appunto, Janet Frame); per quanto riguarda la campagna, ci sarebbe da fare una riflessione a parte che noi non siamo in grado di fare in questo momento. Questo è vero anche perché la maggior parte della fruizione della NZ è esterna – in NZ ci sono 4.5 milioni di persone ed è uno dei paesi più visitati al mondo – e quindi ci si aspetta di trovare qualcosa di quintessenzialmente neozelandese quando si arriva qui. Il fermento culturale è molto legato alla poesia e alla musica dal vivo. Anche slam poetry, moltissimi open mics e anche il fumetto e la graphic novel hanno una buona nicchia”.
Veniamo alla letteratura, nello specifico alla poesia. Che ruolo ha il poeta in Nuova Zelanda? Esistono delle istituzioni che promuovono la poesia e la letteratura neozelandese? Quali sono, oggi, i poeti viventi più importanti, perché?
“La poesia è più avvicinabile in NZ – rispetto alla percezione che se ne ha in Italia – e molte persone si cimentano con discreto successo. Come detto in precedenza ci sono vari grant che supportano la produzione letteraria e la traduzione di opere neozelandesi in italiano. Prima fra tutti, come per il nostro libro di Frame, c’è il Creative New Zealand. Ci sono molti nomi celebri tra i viventi (si vedano Jenny Bornholdt, Lauris Edmond, Fiona Kidman, Michele Leggott, Bill Manhire, CK Stead tra i molti altri) e tra i defunti. Il nostro poeta preferito e neozelandese per eccellenza resta James K. Baxter, e la sua faida sull’asse Wellington-Auckland con Allen Curnow è ancora alla base di molto del campanilismo tra le due città (secondo me). Baxter, con sede a Wellington, è stato un innovatore, un poeta che nel suo rifiuto del canone inglese ha cercato la sua voce di poeta neozelandese. Curnow, con sede ad Auckland, è stato invece fautore di una poesia più ‘rigorosa’, sempre con uno sguardo alla madre Gran Bretagna e all’ispirazione proveniente dai grandi poeti britannici. Questa qualità remota della NZ che l’ha isolata così tanto, l’ha anche resa un teatro vagamente autoreferenziale di fenomeni e divisioni letterarie molto interessanti. Tra i contemporanei sono particolarmente efficaci, a nostro parere, gli autori indigeni o Pasifika: Hinemoana Baker, Selina Tusitala Marsh, Courtney Sina Meredith, Karlo Mila, Tusiata Avia, Faith Wilson. Trovo la poesia di queste donne molto potente. Il ruolo del poeta è quello di raccontare la realtà. La poesia è politica – inevitabilmente – e qui è anche democratica”.
Avete appena introdotto in Italia le poesie di Janet Frame. Che ruolo ha la poesia nell’opera multiforme della Frame? Quali le sue ispirazioni, i suoi temi?
“Janet Frame (1924–2004) è un’autrice nota soprattutto per la prosa e meno per la sua poesia. In particolare – verosimilmente anche per il pubblico italiano – sono i suoi discussi trascorsi psichiatrici ad averne quasi irrimediabilmente condizionato fama e analisi dell’opera. Nonostante le distorsioni e le allusioni di parte della critica, non ci è sembrato che Frame assecondasse in alcun modo – a ben guardare gli scritti editi – quell’approfondimento personale da parte di pubblico o critica che spesso si genera attorno ad una personalità letteraria dalla biografia controversa e discussa. Janet Frame era una donna intelligente, sensibile e riservata, il cui unico vero interesse, senza dubbio legittimo, era quello di scrivere e ricevere responsi critici a ciò che aveva scritto, analogamente a ogni altro scrittore mai esistito. In qualità di traduttrici ci siamo quindi trovate di fronte a una varietà e profondità di temi ed esercizi stilistici che ci ha messe in difficoltà: a volte per la composta semplicità di presentazione, a volte per la molteplicità del contenuto, e in altre occasioni, più banalmente, per alcune difficoltà linguistiche legate alla struttura stessa delle poesie. L’esperienza di tradurre la poesia di Frame è stata complessa, divertente, emotivamente onerosa, illuminante, e un’occasione per navigare le profondità della ragione umana”.
Come è considerata la letteratura italiana in Nuova Zelanda? È sufficientemente tradotta? ‘Passano’ i contemporanei, gli autori viventi?
(Francesca Benocci) “La poesia italiana contemporanea in Nuova Zelanda, quando esaminata dal punto di vista di una studentessa italiana di PhD arrivata da nemmeno un anno in Oceania, non appare andare per la maggiore. Il problema è da ascrivere parzialmente alla tendenza del mondo anglofono a tradurre meno verso l’inglese, e pertanto a leggere meno letteratura proveniente da realtà letterarie di lingua diversa. Per quanto riguarda la poesia, specie in Nuova Zelanda, il mercato è praticamente saturo in partenza: su 4 milioni di abitanti nell’intera nazione, una percentuale altissima scrive e pubblica poesia. È un genere amato da sempre per molte ragioni, tra le quali anche una naturale predisposizione a ospitare sulla pagina l’oralità della tradizione māori dei waiata, le canzoni, mezzo efficace utilizzato dalle tribù per tramandare tradizioni e conoscenza. Ad ogni modo, l’interesse per l’Italia e i suoi autori (a qualunque secolo essi appartengano) si evince, oltre che dall’insegnamento di Dante e degli albori della poesia italiana, da una serie di progetti portati avanti ed editi negli anni. Una raccolta di poesia italiana in traduzione inglese dalla storia alquanto travagliata è Campana to Montale. Versions from Italian, del poeta e studioso neozelandese Kendrick Smithyman (1922-1995). Nata dall’esigenza di Smithyman di ‘rispondere’ a quelle che considerava delle traduzioni malfatte, uscite nel 1968 su Poetry Australia, questa raccolta, completata nel 1993, ha visto la luce nel 2010 grazie allo sforzo congiunto di Marco Sonzogni e Jack Ross. L’antologia ospita, tra gli altri, Ungaretti, Quasimodo e Montale. La poesia italiana contemporanea non figura molto nei corsi universitari, né sugli scaffali delle librerie o delle biblioteche, spesso come già detto, per mancanza di traduzione. È pur vero che l’Italia in tutte le sue forme e manifestazioni continua ad attrarre molto interesse in Nuova Zelanda, tanto da portare chi non riesce a fruire di una traduzione nella propria lingua a imparare l’italiano. Un caso esemplare è Paula Green, poetessa e critica letteraria, che ha conseguito un dottorato in italiano presso la Auckland University, lavoro nel quale ha raccolto e analizzato l’opera di Fabrizia Ramondino e Clara Sereni. Un altro esempio dell’interesse verso la poesia italiana è rappresentato dalla collaborazione di James Kierstead, docente presso la School of Art History, Classics and Religious Studies di Victoria, ed Elena Borelli, docente presso il dipartimento di lingue straniere della City University of New York, che hanno deciso di dedicarsi a una traduzione in inglese dei Poemi Conviviali di Giovanni Pascoli”.
Ultima. Come si vive dall’altra parte del mondo? Donateci un frammento della vostra esperienza.
“La vita qui sotto alcuni aspetti è più facile, passati visto e paperwork. C’è molto spazio personale e una certa apertura. Ovviamente è complesso se si vive nel costante confronto con il passato o con il posto che si è scelto di lasciare. Nulla è uguale e molte differenze emergono dopo un po’. È lontano dalla maggior parte delle persone che conosciamo e che abbiamo conosciuto. Ma lontano in un modo che non puoi comprendere se non ci vieni almeno una volta. Non solo la distanza fisica, ma 12 ore di fuso orario al momento, che rendono le comunicazioni in real time un lusso che molti – lavorando – non si possono permettere. O che quantomeno non possono permettersi quanto vorrebbero. Dicevamo lo spazio. Le persone sono poche e la natura, sebbene i kiwi ne lamentino l’abuso, è ancora ai nostri occhi molto selvaggia e incontaminata. La potenza degli elementi: l’oceano e – specie qui a Wellington – la forza del vento a volte lasciano di stucco e sorprendentemente mancano quando uno va via. A volte si alza il southerly – vento di ghiaccio dritto dritto dai lidi antartici – e la temperatura si abbassa in un batter d’occhio. Le stagioni non esistono davvero, il tempo è folle. La pioggia è copiosa, il sole può uccidere. Tutto cambia in un batter d’occhio. Di Wellington si dice: four seasons in one day, ed è vero! La vita è calma, tranquilla e ripetitiva – non nel senso di monotona, ma rassicurante. Il Saturday brunch, la domenica al mercato ortofrutticolo, la birra dopo lavoro del venerdì. Una sorta di ritorno alla semplicità di un grande paesone dove non ci si sente mai del tutto soli perché è così contenuto che ti imbatti sempre inevitabilmente in qualcuno che conosci… Anche i rapporti umani sono superficialmente più semplici, molto meno melodrammatici. I kiwi sono più razionali e trattenuti di noi e da italiani ci vuole un po’ ad abituarsi, a capire la comunicazione non verbale e la stranezza rispetto alle esternazioni fisiche. All’inizio è complicato e fa sentire un po’ strani, fuori posto, ma piano piano – come nella migliore delle storie – ci si abitua l’uno ai costumi dell’altro. Con gli indigeni è tutta un’altra storia: cibo e famiglia, abbracci, legami profondo, forti sentimenti, amore, orgoglio, senso di appartenenza, l’importanza e l’osservanza delle tradizioni. La somiglianza e la sensazione d’appartenenza sono incredibili. Poi qui sono rilassati, fanno le cose con calma, che a volte ci vuole un quarto d’ora per un caffe… Però se poi tardi dieci minuti al lavoro perché aspettavi suddetto caffè, nessuno fa una piega. Niente cartellini da timbrare, una grande trasparenza e fiducia nel prossimo e nelle istituzioni. C’è una cosa in NZ che si chiama honesty box: metti che tu hai una fattoria e che coltivi un po’ di fragole, te ne avanzano ogni giorno 10 cestini e li vuoi vendere a 2 dollari l’uno. Il cancello d’ingresso è lontano dalla casa. E allora tu metti una cassettina con i cestini di fragole in un posto ombreggiato vicino al cancello lungo la strada. Ci metti una cassettina per i soldi e il cartello ‘fragole 1 cestino 2 dollari’. Ecco, la gente che le vuole si ferma, le prende e lascia le monete nella cassetta. Fine. Oppure metti che sei il comune di Wellington e che a fine anno fiscale ti avanzano un tot di mila dollari dal bilancio. Allora tu mandi una lettera a tutti i cittadini e dici: è avanzato X. Volete indietro la vostra frazione di X sul conto in banca o vi va bene che usiamo i fondi per iniziare la riqualificazione di una strada cittadina che era in bilancio per anno nuovo? I cittadini votano con la busta pre-affrancata che hanno ricevuto. La maggioranza vince e i risultati sono accessibili online sul sito del comune. Quasi nessuno ha rivoluto indietro i suoi 25 dollari di tasse e un mese dopo iniziano i lavori su Victoria Street, completati in 4 mesi: pista ciclabile, ripiantumazione, sistemazione di aree comuni. Fine. In NZ si sta bene. Ha i suoi limiti, ma la libertà e la giustizia che si respira rincuora anche i più cinici!”.
*
Da Janet Frame “Parleranno le tempeste” (GCE, 2017)
Un proposito
Le persone, scaldate fino alla fragilità
e immerse in acqua fredda, si spaccano.
Non sorriderò più.
Latte, panni, spazzatura.
Persone gentili, sorrisi gentili.
Non c’è tempo per questo pasto lento del tardo pomeriggio.
Latte, panni, spazzatura.
Sì, sì grazie, non sorriderò più.
Sono venuta qui a scrivere storie e poesie,
non a preparare il croccante.
Arriva il buio, col sole ormai calato
su latte, panni, spazzatura.
Non sorriderò più.
Sono venuta qui per scrivere.
Severa, immersa, sana di mente,
rimesterò le sillabe
nella padella in dotazione;
dormirò sul materasso a molle,
girerò la chiave,
pagherò l’affitto,
stenderò protezioni di giornale,
spazzolerò la moquette da spazzolare,
ma sarò torva, niente sorrisi, mai più, mai più,
(latte, panni, spazzatura)
mentre scrivo le mie storie laggiù laggiù
nelle grotte di pietra del loro fondale.
Canto
Provati estate primavera autunno inverno,
datemi il grande freddo per sempre,
ghiaccioli su tetti muri finestre il sogno
marmoreo perpetuo integrale di un mondo e di persone ghiacciati
nella più nera delle notti, così nera da non riuscire a distinguere