Con Veronica Tomassini non si scherza. La scrittura è tatuata sulla sua pelle. Ogni parola che pronuncia risuona di un’eco antica e lacerante. In lei vita e letteratura quasi non si distinguono. Ne consegue una qualità speciale dell’arte, un frizzio nella circolazione sanguigna delle sue opere. Basta leggersi “Sangue di cane” (Laurana, 2010) e “L’altro addio” (Marsilio, 2017) per rendersene conto. Veronica è una scrittrice nata, lo si avverte in ogni riga che scrive. Niente di studiato, tutto vissuto e sofferto fino in fondo. Una sofferenza che si fa arte; perfino in un’intervista.
Veronica, dopo la straordinaria accoglienza di “Sangue di cane” la tua carriera di scrittrice è decollata? O in questo Paese si resta sempre un po’ sospesi a mezz’aria? Puoi fare un bilancio?
Sì, è decollata, e si è fermata. “Sangue di cane” mi ha lasciato molti estimatori, lettori sparsi, qualche collaborazione. E nient’altro. Non ho comprato un attico nel centro di Roma. Al mio nome non salta nessuno sulla sedia, non mi stendono tappeti rossi nelle stanze dove si decidono i destini della letteratura.
Che cosa c’è che non va nell’editoria italiana?
L’editoria italiana soffre di insicurezza, ha bisogno di conformarsi. È fatta di numeri. Di copertine kitsch a volte, con una promozione molto facile tipo: “foto social di merda con accanto tazzine di merda” (cito lo scrittore Marco Drago). Non è per forza e sempre così, vorremmo sperare.
Già, Drago non le manda mai a dire. Ho intenzione di intervistarlo prossimamente. Qual è il genere di storie che ti piace raccontare e che vorresti raccontare in futuro? Certo, “Sangue di cane” e “L’altro addio” indicano una rotta precisa, ma vorrei che fossi tu a parlarne…
La mia narrazione devia spesso, come il mio sguardo, nei luoghi dove gli altri lo tolgono. Dove per gli altri cade l’ombra, spesso per me si rivela la luce. Una luce magnifica, eloquente. Amo i perdenti, per questo li racconto. Lo sono anch’io. Ma ammetto che è una lunga narrazione tristemente biografica, nel senso: non racconto che di quel che so, che ho vissuto. Dopo “L’altro addio”, ho finito un romanzo che ho definito “della giovinezza”, ancora inedito. Racconto gli anni ’80, la periferia, la piazza, l’eroina, e un gruppo di adolescenti vivere su cumuli di immondizia, dentro giorni chiamati deserti, in condomini popolari, abbaini con cani ringhiosi a latrare, vecchie auto carbonizzate, falansteri, con rampe buie e maleodoranti, cardi e agavi che si gettano verso il mare. Era la mia adolescenza.
So che stai scrivendo qualcosa di totalmente nuovo rispetto ai temi cui ci hai abituati. Puoi parlarcene?
Sto scrivendo un romanzo sull’amore, nel mio blog personale. La storia di un abbandono. Alla fine è il solito assedio, piccoli inferni vecchi e nuovi. Alla fine è sempre tranche de vie. Non so fare altro che raccontare la mia vita, mentendo. Negli ambienti editoriali, pare, che vada moltissimo questa storia del sentimentalismo. Autori che non mi dicono nulla ma che vendono centinaia di migliaia di copie. Allora qualcuno ti dice: buttati sul sentimento. Io dico: non ho fatto altro.
Esiste secondo te anche un problema di critica letteraria? Che opinione hai del fare critica oggi?
La critica oggi? Difficile domanda. I grandi critici come Giovanni Pacchiano o Angelo Guglielmi sono il mio solo riferimento. Ma è un problema mio credo, non frequento molto la critica più “giovane”. Però, ecco, mi viene in mente Gilda Policastro, brava e severa, la cito giù anche tra le scrittrici che sento prossime.
Sulla sua lapide Oriana Fallaci ha voluto che venisse inciso: “scrittore”, e non “scrittrice”. Che ne pensi? Non ritieni che a volte le donne si marginalizzino da sole? Nelle professioni io non ho mai distinto fra uomini e donne ma fra bravi e meno bravi e sinceramente una domanda simile non te la porrei nemmeno, se non fosse che ho l’impressione che spesso siano le donne a volersi differenziare…
La letteratura femminile: e subito penso a certe riviste da fotoromanzi, a qualcosa da ricamo e cucito. Una sottodimensione, un genere. Siamo scrittori. Sono d’accordo. Io preferirei – come Oriana Fallaci – definirmi uno scrittore. Non abbiamo sesso, uomini, donne, li conteniamo tutti, nella nostra memoria che deve aver viaggiato parecchio, quando ancora non ci chiamava per nome. Non un genere, o altrimenti come nelle declinazioni latine andrebbe bene un neutro. Noi siamo il mondo che raccontiamo.
Che persona sei, nel privato? E quanto il fatto di essere una scrittrice influisce sulla tua esistenza?
Credo di non essere una persona in riga, non so come dire. Sono una donna che cerca ancora qualcosa, non risolta. Non semplice. Molto sola. Non so come io sia così sola, perché. È una condizione giusta per scrivere. Non me ne compiaccio. Affatto. La noia è un problema per me. La noia è diventata forse anche la ragione della mia scrittura. La scrittura: la mia compagna; dove tutti abdicano, abbandonano, si arrendono, lei vince, dimora, resta. Nella mia vita non dico quasi mai (quando mi è possibile) cosa io faccia, quale sia il mio mestiere. Che poi scrivere è un mestiere? No, è uno status, un modo di guardare e raggiungere le cose. Non voglio essere sempre straniera, così nella mia controllata socialità, fatta di luoghi umili e una umanità vera e primitiva, io non dico nulla, voglio essere come gli altri, non diversa, straniera. E la scrittura ti rende un po’ diversa, un po’ straniera.
Da che cosa dipende il valore di un’opera letteraria secondo te? Dalla lingua? Dalle tematiche. Da cosa?
Da tutto questo insieme ma con un fattore ics: la potenza della parola. La parola deve risuonare come un’eco tremenda, persino dentro un’apparente innocuità.
Lo scrittore ha un qualche tipo di etica da rispettare o non ne ha nessuna?
L’etica è una consapevolezza morale. La moralità è un concetto ameno applicato alla scrittura.
Qual è la tua idea di letteratura e quali sono i cinque libri della tua vita?
La scrittura non deve normalizzare, consolare. La scrittura non è democratica. È la spada che rompe il ghiaccio. Deve inchiodarci alle nostre vulnerabilità. Nelle cose minime, deve intercettare l’inaudito. O il settimo cielo di cristallo. I miei cinque libri, profetici (non per forza i più amati): “I Demoni” di Dostoevskij (Dostoevskij e i russi li metterei tutti); “Il riposo del guerriero” di Christiane Rochefort; “Le ambizioni sbagliate”, Moravia; “L’ottavo giorno della settimana” di Marek Hlasko; “Tropico del cancro” di Henry Miller.
E gli scrittori italiano che ami di più? Di oggi e di ieri…
Buzzati, Pratolini, Moravia, Levi, Pavese. Il neorealismo. Oggi ce ne sono di bravi: Giulio Mozzi, Dario Voltolini, Andrea Carraro, Gaetano Cappelli. Demetrio Paolin. Ivano Porpora. Ma sono anche amici, dunque non so. Tra le donne: Grazia Verasani, mi piace Loredana Lipperini (nel suo esordio), Alessandra Sarchi (metto in ordine sparso, non di importanza), Viola Di Grado. Yasmin Incretolli. Claudia Durastanti. Francesca Marzia Esposito. Gilda Policastro. Tiziana Cera Rosco (poetessa meravigliosa). Letizia Di Martino (vi invito a leggerla su Facebook, meriterebbe un grande romanzo). Cristina Caloni. Dimenticherò qualcuno senz’altro. Sono amici e scrittori che stimo, tutto insieme. (Ah, ci sei tu, Gianluca Barbera).
Ne sono lusingato. Ti piace il cinema? I tuoi cinque film più significativi?
Sì, ma lo frequento poco. Dove vivo (una piccola città di provincia) ci sono solo multisale e produzioni americane. Amo i film francesi, da ragazza vedevo Truffaut, non sapevo chi fosse Truffaut, ma mi piaceva. Le atmosfere giallognole e intimiste dei film francesi. Dunque, direi i film di Truffaut intanto. “La signora della porta accanto”; “Bella di giorno” di Bunuel; “Anonimo Veneziano” di Enrico Maria Salerno; poi da sentimentale quale sono: “L’amante” di Annaud; “Lezioni di piano” di Jane Campion.
Da anni scrivi sul “Fatto Quotidiano”, un giornale molto connotato. Hai la più ampia libertà o devi rimanere all’interno di paletti ben precisi? E come è nata la tua collaborazione con “Il Fatto”?
Non conosco giornale più libero de “Il Fatto Quotidiano”. Ho lavorato molti anni in una redazione siciliana. Quando arrivai nella redazione de “Il Fatto”, non riuscivo a credere che potessi raccontare la verità, qualcosa di prossimo alla verità. I miei pezzi non vengono toccati di una virgola. Mi sono permessa di scrivere quel che non avrei mai immaginato di poter scrivere, senza alcuna genuflessione al potere, senza proteggere nessuno. E non ero abituata a questo. Ho cominciato a scrivere per “Il Fatto” con i Forconi, con la rivoluzione siciliana dei forconi, rivoluzione mancata. Ricevo una telefonata: era Marco Travaglio. Mi chiede: cosa ne dici di scriverci qualcosa? Così di punto in bianco. Ovviamente io ero nel pallone, ma ho risposto: sì, va bene, sarà fatto. Ed è cominciata una collaborazione bella e significativa che dura tutt’oggi. Sono stata gratificata da loro, spesso. Ricordo una telefonata di Antonio Padellaro, all’indomani di un pezzo che raccontava di sbarchi e immigrazione. Voleva omaggiarmi della sua stima. Per me era impensabile anche soltanto sognare una cosa del genere. E anche in questo caso, mi devo ripetere: non ero abituata.
Sei molto presente fu Facebook. Potresti farne a meno o come per molti è diventata una necessità, una parte imprescindibile della tua vita?
Sì, sono molto presente e, malgrado spesso non ne possa più, non potrei farne a meno, il mio lavoro è fatto anche di questo. Relazioni e comunicazione. Molte occasioni importanti sono arrivate attraverso Facebook. Mi contattano sui social, come se fossero le pagine bianche.
Sei di origini siciliane, ma quanto ti senti siciliana e quanto ti senti altro?
Mia madre è siciliana. Mio padre è umbro. Mia nonna era abruzzese. Mi sento senza radici, sempre fuori la porta. Oggi vorrei farne un vezzo. Essere a parte di tutto eppur fuori. Non sapere parlare il dialetto. Avere memoria di luoghi e epoche in cui non sono mai stata. Non perderci la ragione, magari.
Quanto per te la vita è fatica e sofferenza e quanto è serenità e felicità?
Serenità e felicità molto poca. Ma gioia segreta a brani, un anticipo di qualcosa che ispira consolazione. Qualcosa di molto dolce. Quando la incontro, alla fine di una disperazione. Alla fine di una disperazione si schiude un rinnovato significato. Una luce ti avverte: abbi pazienza, non ti è dato sapere del tutto. E intanto scrivo e mi nutro di questo. Mi nutro della nostalgia e scrivo. La scrittura è anche un affare di saprofagi. La nostalgia è già un lutto. Il requiem su un fatto, un’assenza. Lo scrittore è il risultato di molteplici assenze.
Cosa è per te il male e come si manifesta? E il bene? Secondo te sono così strettamente legati o uno potrebbe stare senza l’altro?
Il male si manifesta con la paura. Con le fobie, le paranoie, il pregiudizio. Tutte fragilità che si consumano come brace, ma su se stesse. Non producono, non seminano. Ripiegate, energie che muoiono senza santificare. Il male non lo devi guardare troppo a lungo, si dice così no? L’abisso: non lo guardare e lui non guarda te. Quando certe volte mi assalgono i pensieri che non sono miei, pensieri strani, ottenebrati, dico tra me: Dio trasformali in preghiera. Il bene è il luogo dove tendiamo tutti, santi e malfattori. Ci piaccia o meno. È lì che dobbiamo andare.
So che hai problemi col cibo. Da cosa dipende. Puoi parlarcene o non te la senti?
Dipende da molte cose, da una sindrome autoimmunitaria, da una vocazione adolescenziale, dalla paura, dalla solitudine. Solitudine a grappoli, da raccogliere, o covoni di pianto da trasformare in gioia, biblicamente. Quando leggo i passi delle Scritture realizzo che niente che ci appartenga non sia già stato annunciato nel libro della vita e ogni nostro passo contato, ogni lacrima conservata nella Sacra Otre. La difficoltà ad alimentarmi è il mio cruccio antichissimo, ho il terrore di perdere peso, lo perdo facilmente. Soffro di dolori cronici, la mia vita è condizionata da questo, anche la mia vita sociale (che praticamente non esiste). Devo imparare ad accettare, a viverci insieme con i miei mostri, renderli creature, disorientarli, arrivare persino ad amarli. Chiedere casomai talvolta: perché? Cosa vi ho fatto mai? Accettarli. E d’improvviso capisci che ognuno ha un compito assegnato, croci che ci spettano, che hanno un senso, il crogiolo del dolore, è Siracide. L’uomo provato dal crogiolo del dolore è un uomo benedetto.
Se dovessi fare un viaggio lungo un anno, che Paesi o continenti vorresti attraversare prima di ogni altro?
Andrei in Provenza, finirei lì – se potessi – i miei giorni, guardando oltre un davanzale il bluette e l’azzurro violaceo dei campi di lavanda al tramonto. Un cielo carta da zucchero, un uomo capace di amarmi, che mi perdoni, mi assolva e mi faccia dimenticare l’imperfezione, la stoltezza delle cose finite. Leggerei, scriverei, lavorerei le maglie, pregherei. Sarei amata da qualcuno.
Un’ultima domanda. Se dovessi dare una definizione di te come scrittrice con una frase lapidaria, come ti definiresti? E in quanto scrittrice come vorresti essere ricordata?
La lapide: qui dove finisce l’attesa e l’inganno. Per cosa vorrei essere ricordata? Non lo so, per le pietre di scarto che ho raccontato. Più che altro vorrei essere ricordata per loro, gli assenti che mi assediano, i bevitori, i profeti delle panchine, i legni storti. Gli imperdonabili. La vestale degli imperdonabili, andrebbe bene anche come lapide.
Be’, davvero una scrittrice forgiata nella carne e nel sangue. Ammetto che questa intervista mi ha lasciato il segno. E credo che sarà lo stesso per molti lettori. Non ho altro da aggiungere. Vi lascio alle vostre meditazioni. Alla prossima.
Gianluca Barbera