“Davanti a una lettera non sono coraggioso…”. Le lettere di Baudelaire alla madre
Cultura generale
Cosimo Mongelli
Persona elegante nell’aspetto, nei modi, nell’eloquio. La più gentile che conosca. Questo è Filippo La Porta. Confesso che ho un debole per la sua grande intelligenza. Per uno come me, che mette l’intelligenza al di sopra di tutto (anche della morale), non potrebbe essere diversamente. Un uomo la cui mitezza non va scambiata per debolezza, semmai riconosciuta come forza: la forza della ragionevolezza. Critico letterario e saggista (ricordiamo “La nuova narrativa italiana”, 1995, “Il dovere della felicità”, 2000, “Meno letteratura, per favore!”, 2010, “Pasolini”, 2012, “Poesia come esperienza”, 2013, “Roma è una bugia”, 2014, “Indaffarati”, 2016), La Porta collabora con diversi quotidiani e riviste, tra cui “Left”, “Il Messaggero”, “Il Sole 24 Ore”. A gennaio è uscito per Bompiani un suo volume importante: “Il bene e gli altri. Dante e un’etica per il nuovo millennio”. Libro raffinato e arguto, destinato a lasciare il segno, se non corresse il rischio di perdersi nei rivoli del chiacchiericcio contemporaneo, come capita alla gran parte di ciò che viene pubblicato. Di certo io lo conserverò nello scaffale dei libri che per me hanno significato qualcosa. Filippo era in partenza per il Messico, ma è stato così gentile da trovare il tempo, tra una valigia e l’altra, di rispondere alle mie domande.
Per Socrate (mediato da Platone) virtù è conoscenza. Chi fa il male lo fa per ignoranza del bene. Il sapiente non può compiere il male. Chi lo compie ha un’errata comprensione della realtà. Partendo da una frase contenuta nei Quaderni di Simone Weil (“è bene ciò che dà maggiore realtà agli esseri e alle cose, male ciò che gliela toglie”) e facendola interagire con la “Commedia” di Dante, mi pare tu giunga a conclusioni simili, o sbaglio? Ossia: il male nasce da una immaginazione distorta, dunque da una erronea comprensione della realtà. Il bene dal riconoscimento della realtà, nel suo essere multiforme e non riducibile al nostro ego. Dunque il bene è dare realtà agli altri, riconoscerne i bisogni; il male è togliere loro realtà. In conclusione, l’etica fa esistere il mondo, laddove il male vuole cancellarlo. Questa, mi pare, l’idea centrale del tuo nuovo libro, “Il bene e gli altri. Dante e un’etica per il nuovo millennio”. E lo dimostri passando in rassegna i sette vizi capitali codificati dalla tradizione cristiana e descritti nel XVII canto del Purgatorio, mostrando per l’appunto che sono tutti il frutto di una cattiva immaginazione, di una visione degenerata del mondo; che tutti nascono dall’irrealtà, da un distacco da ciò che è reale. Dunque “bene” e “male”, in definitiva, possono essere sostituiti da concetti come “reale” e “irreale”: è così?
Sì, lo schema weilliano che ho provato ad applicare alla Commedia – un tentativo di fondare la morale in modo non moralistico e astratto ma concreto e “ontologico” – può rientrare nel cosiddetto intellettualismo etico di Socrate. Il quale ha ricevuto molte obiezioni (Ovidio, san Paolo, Foscolo…), ma secondo me solo apparentemente persuasive. Se ad esempio tu ritieni che è male, che so, tradire la tua compagna (o il tuo compagno) e invece la tradisci, ciò non confuta per niente Socrate: il punto è che tu ritieni che sia male ma non ne sei davvero convinto. Bisogna capire che qualcosa è “male” non solo con la testa ma con la nostra esistenza.
L’idea che dobbiamo comportarci bene non per rispettare dei precetti ma perché l’etica fa esistere il mondo nella sua interezza mi sembra molto seducente, e anche persuasiva. Un’idea di quelle che possono penetrarti dentro e cambiarti; e dunque sulla quale si può fondare un’etica. E tuttavia mi sovviene un contro-pensiero: benché quello che sostieni mi sembri fondato, il punto è che poi davanti al proprio dolore (malattia, solitudine, povertà e soprattutto in punto di morte) ciascuno è solo con se stesso; gli altri ci abbandonano, non esistono più. O sbaglio? Non è forse questo a incattivirci, a renderci egoisti?
Certo, se qualcuno ha una forte depressione o una malattia seria o se sta morendo, ecco che generalmente gli altri tendono a togliergli realtà, a isolarlo. Dargli realtà è pericoloso, può minacciare i propri equilibri e la propria “normalità”, ci ricorda i limiti e la precarietà della condizione umana… e così lo facciamo esistere di meno, lo espelliamo, lo releghiamo ai margini del quadro. A meno che… a meno che non intervenga qualcosa di miracoloso, o perfino di innaturale, ma qui usciamo dall’etica classica, dal mondo pagano, ed entriamo nella dimensione cristiana dell’amore gratuito, incondizionato, irragionevole: dall’Inferno al Purgatorio dantesco. Dare realtà all’altro può significare in certe circostanze assumere su di sé la sua depressione o perfino morire un po’ con lui. Chi è disposto a farlo, “normalmente”?
Dare realtà al prossimo significa anche mettersi sullo stesso piano degli altri: e dunque a volte anche distogliere lo sguardo per non oltraggiare chi soffre. Tu hai ricordato un episodio in cui Albert Camus in visita a una favela brasiliana chiude gli occhi per non vedere, proprio come Dante – di fronte agli invidiosi resi ciechi dalle palpebre cucite – china il capo. Puoi raccontarci più nel dettaglio questo episodio e approfondirne il significato?
Nell’estate del 1949 Camus si trova in Brasile per delle conferenze (ci va con la nave), una sera lo portano in una miserabile favela, una città di legno, lamiera e canne sopra la spiaggia di Ipanema, dove tra l’altro assiste a una macumba. Sul suo diario annota: “sono perseguitato dall’idea del male che facciamo agli altri nel momento stesso in cui li guardiamo”. Cito questa pagina di Camus per dire che a volte dare realtà a qualcuno può significare abbassare lo sguardo, vietarsi di guardarlo, di scrutarlo, di giudicarlo. Dante decide di non guardare gli invidiosi, ciechi, poiché loro non possono guardarlo. Non vuole avere questo privilegio, che lo metterebbe in una condizione (irreale) di superiorità.
Se abbiamo un minimo di limpidezza nello sguardo non possiamo non accorgerci che tutti gli eventi e le cose al mondo, noi compresi, sono interconnesse. Non possiamo non comprendere che tutti abbiamo lo stesso statuto di realtà, che tutti facciamo parte di un unico pan. Ma questa è appunto una visione panteistica, che solitamente caratterizza le civiltà al loro nascere. Sei dunque panteista?
Papa Bergoglio in una enciclica che si richiamava a san Francesco parla di “ecologia integrale”, volendo sottolineare questa connessione fra tutte le cose che, ricordiamolo, per Dante corrisponde alla prima visione di Dio (vede che ciò che nell’universo si squaderna appare in quel momento come cucito con amore in un volume unico). La scienza può assumere questa connessione, ma certo non la può sempre dimostrare. Non mi definirei però “panteista”, spinoziano. Per me Dio è assente dal mondo. O meglio: nel mondo si potrebbe trovare solo in qualcosa che allude a, che evoca un’altra dimensione, però poi Dio ha scelto di restarvi nascosto, di ritirarsi, di essere impotente.
Ecco, ma partendo da questo discorso sull’etica si può fondare una nuova idea di letteratura, di arte? Insomma, questa etica per il nuovo millennio come potrebbe impattare sulla produzione letteraria e sull’idea di arte, di bello?
Ti rispondo con la Murdoch. Se l’immaginazione è come il colesterolo, e ce n’è una buona e una cattiva, allora quella buona è l’arte, la letteratura, che ci fa intravedere tutto quello che si nasconde all’apparenza, all’ovvietà della superficie, e che invece coincide con il senso comune nell’accezione conformista.
In “Indaffarati” ti sei occupato di un’altra questione capitale: ciò che uno dice e ciò che uno fa; la coerenza tra parole e azioni come fine verso cui tendere. Partiamo da qui. Nel libro ne parli quasi come se la coerenza tra parole e azioni fosse una scoperta dei giorni nostri. Ma non è sempre stato così? Cioè: d’accordo la coerenza interna al discorso; ma come prescindere dalla condotta di chi parla? Nella tua vita hai sempre cercato di seguire questo proposito di coerenza? Puoi raccontarci un episodio in cui hai tradito questa aspirazione?
Sì, infatti dico che la vita non è “coerente”, e correggo il tiro: oggi si pretende non la coerenza ma almeno la “credibilità”. Che so, molti leader della sinistra, che dovrebbe difendere i ceti meno abbienti, etc., non sono credibili, forse il papa lo è un po’ di più (per me non interamente). La mia vita è fatta di incoerenze e contraddizioni. Te ne dico una che riguarda il mio mestiere: una volta al Salone di Torino mi trovai alla stessa tavolata di Umberto Eco, ora tutti sanno che ho stroncato i suoi romanzi, etc., beh allora per viltà e quieto vivere brindai con tutti gli altri alla sua ultima pubblicazione!
Sempre in “Indaffarati” parli della capacità delle nuove generazioni di creare ponti tra passato, presente e futuro; tra tradizione e innovazione: e hai sostenuto di vedere in questa capacità ciò che in qualche misura le redime da un eccesso di superficialità e frettolosità. Puoi farci qualche esempio riuscito di ponte tra tradizione e innovazione?
Certo, parlo solo di una minoranza (ma la Storia la fanno le minoranze, no?) però a me sembra che i “giovani” non rifiutino tanto la cultura quanto l’uso della cultura come strumento di potere, esclusione, carriera, così tipico della generazione del ’68. Leggono molto meno, vogliono sempre stare connessi, hanno meno pazienza, però quello che leggono lo prendono molto sul serio, lo mettono in relazione subito con la loro vita. Alla retorica preferiscono il vissuto, alla cultura libresca l’esperienza.
In che rapporto si pongono tra loro filosofia e letteratura? Ed entrambe rispetto alla ricerca della verità? Quale l’apporto dell’una e quale quello dell’altra? Stendhal scriveva che “l’anima del romanzo è la ricerca della verità”. È davvero così? E soprattutto: si può ancora parlare di verità oggi, e cos’è?
Tema inesauribile. Una volta Rorty ha detto che se tra 1000 anni venisse sulla Terra, ormai deserta, un’astronave di alieni e provasse a capire qualcosa della nostra vita decifrando i nostri testi, certo capirebbe qualcosa dai romanzi di Dickens, ma assolutamente nulla dai saggi di Heidegger. La filosofia cerca solo le essenze, le sfuggono i dettagli, che però sono tutto!
Che idea ti sei fatto riguardo al discusso tema della post-verità? Il filosofo Maurizio Ferraris nel suo ultimo libro (“Post-verità e altri enigmi”) ha scritto che la post-verità, ossia la liberalizzazione selvaggia della verità, è “l’essenza della nostra epoca”. Secondo lui questo fenomeno affonda le radici nel principio costitutivo del postmoderno – non ci sono fatti, solo interpretazioni – di fronte al quale ogni competenza, ogni argomentazione perdono di valore. Un principio, secondo Ferraris potentissimo, capace “di mettere parole come verità e realtà tra virgolette, quasi fossero nozioni improprie o comiche”, se non addirittura pericolose, e dunque da “abbandonare in nome della moralità, dei buoni sentimenti, della politica democratica”. È così, conclude, che la post-verità finisce per diventare la ragione del più forte, di colui che ha più seguito, che ottiene più clic, consentendo il diffondersi di presunte verità che nulla hanno a che fare con l’oggettività e la razionalità ma che riguardano piuttosto la sfera delle emozioni (importa ciò che sentiamo, non ciò che sappiamo) e la solidarietà dei popoli contro la dittatura degli esperti e le macchinazioni delle élite e dei “poteri forti”. Tu invece, qualche tempo fa hai scritto: “In rete uno vale uno, non c’è nessuno status, l’unica autorità riconosciuta è quella dell’argomentazione: vince chi sa argomentare meglio”. Chi ha ragione? Oppure, dove è che avete ragione entrambi?
Banalmente: se dico a qualcuno che Gianluca Barbera è “onesto”, certo prima dobbiamo accordarci su che significa, sulle procedure da seguire, etc., e potremmo impiegarci anche un mese, ma alla fine dobbiamo confrontare quello su cui ci siamo accordati con Gianluca Barbera (una persona empirica, unica, reale), e non con un’altra persona. È la realtà, e non la lingua, che decide della verità di un enunciato.
Qual è oggi la tua idea di letteratura? La stessa di vent’anni fa (quando pubblicavi “La nuova narrativa italiana”) o è cambiata?
No, direi che è quella. Credo ancor di meno nel genere del romanzo oggi in Italia e credo che il problema dei nostri narratori sia quello di liberarsi di qualsiasi maschera.
Parlando di stile, Cioran scriveva che ogni parola prevista è una parola defunta. Questo potrebbe essere un principio guida nella ricerca dello stile?
Non amo particolarmente Cioran, non mi sembra che il suo “tremendismo” aprioristico sia un buon punto di partenza per parlare di stile. Preferisco Vonnegut che diceva che se una cosa ti sta davvero a cuore alla fine le parole per dirla, e insomma uno stile personale, lo trovi.
È vero che per essere dei grandi romanzieri bisogna sapersi annullare nei propri personaggi? E chi sa farlo meglio di ogni altro oggi?
Ammaniti, Doninelli, Veronesi, Carraro, tra i più giovani Peppe Fiore, Nadia Terranova.
A cosa serve la letteratura o a cosa dovrebbe servire? Per Cioran (sempre lui!) “un libro deve frugare nelle ferite, anzi deve provocarle. Un libro deve essere un pericolo”. Secondo Musil, sarebbe qualcosa che nel migliore dei casi produce debolezza e confusione; una fonte di continui malintesi. Berardinelli ha fatto notare che la grande letteratura modernista, che pure si insegna nelle scuole, paradossalmente ha ben poco di educativo, essendo semmai consona a formare dei ribelli permanenti, dei disadattati. Che ne pensi?
Ci offre una rivelazione, su di noi, sulla società, sulla condizione umana. In quanto tale sempre pericolosa (qualsiasi allargamento della esperienza e della coscienza è pericoloso, ammoniva Susan Sontag parlando di letteratura pornografica). Poi sta a ognuno come usare questa rivelazione.
Io amo le persone generose; per generoso intendo chi agisce per il bene altrui senza un preciso tornaconto. Prediligo la generosità alla solidarietà, la quale mi pare una versione sbiadita della generosità; o meglio una generosità collettivizzata, istituzionalizzata. Trasformare la generosità in solidarietà è ovviamente un modo per tramutare le buone azioni individuali in una sorta di dovere collettivo, un favore che si riceve in un diritto; ma nella trasformazione (che probabilmente ci fa guadagnare in termini di civiltà) qualcosa si perde, non trovi? Fa soprattutto specie che nel linguaggio comune oggi, specie tra intellettuali, si parli sempre di solidarietà e quasi mai di generosità. Secondo te perché? Forse perché nell’idea di generosità risuona qualcosa di troppo individualistico?
Sì, qualcosa di perde. Diceva Pasolini che quando un comportamento diventa collettivo, si codifica, in un certo senso diventa falso.
Hai scritto in più occasioni che Pasolini è stato tra i pochi intellettuali capaci di dire la verità sul nostro Paese quando nessuno riusciva a dirla. Chi riesce oggi a fare altrettanto?
Nessuno, non soltanto perché si è estinta quella figura di scrittore che incarna la coscienza critica della nazione (nessuno oggi riconosce autorevolezza a nessun altro), ma perché altri intellettuali che ad esempio il “Corriere” ha tentato di usare in quella veste, da Magris a Trevi, non hanno quella singolarissima virtù pasoliniana di una totale trasparenza emotiva, ovvero la possibilità del lettore di risalire da ogni frase a uno stato d’animo e a una emozione.
“«Se ne approfitta perché ha ragione» esclamò il tassista irritato da un tale che passava col verde”. Non ricordo più dove ho sentito questa storiella, ma mi pare ritragga bene gli italiani di oggi…
Un paradosso: la rabbia o risentimento per chi, forte della sua legalità, credi si imponga a te! Il punto è che per gli italiani la illegalità sembra sempre più normale della legalità, più abitabile, più accogliente. Nel nostro paese la cosa più sovversiva è rispettare la fila e non dare il reddito di cittadinanza.
Il populismo secondo Tucidide consiste in questo: durante la guerra del Peloponneso, il popolo (manipolato?) decide la spedizione a Siracusa, che si rivela catastrofica per le sorti di Atene; poi, come se non fosse stato esso stesso a prendere quella decisione, davanti allo sfacelo che ne consegue va in cerca di capri espiatori. Non è questo forse uno dei mali della democrazia? Come possiamo difenderci? Quale il volto ideale di una democrazia matura? Oppure il populismo è un effetto collaterale di ogni sistema democratico?
La democrazia funziona solo se ci sono cittadini consapevoli, maturi, responsabili, e lo diventano nelle associazioni, negli organismi di base, nelle esperienze di autorganizzazione e di contropotere. Altrimenti il popolo – ignorante, inconsapevole, emotivamente ricattabile – è bue, e la democrazia coincide con i sondaggi.
O si è dogmatici, e in tal caso si possiede la verità (o perlomeno qualche brandello di verità); o si è relativisti, e in tal caso non se ne possiede alcuna (nemmeno la certezza che non ne esista alcuna). Vie di mezzo?
Banalmente: impegnarsi a cercare verità condivise. Non dico da tutti ma almeno dalle persone con cui entriamo in relazione, a partire dalla propria compagna/compagno.
In che rapporto stanno etica e verità? Quanto l’etica può far affidamento sulla verità, e viceversa?
Un giudizio etico sempre postula la verità di qualcosa. Se dico “la pena di morte va abolita” intendo dire che un mondo senza pena di morte è realmente preferibile a un mondo con la pena di morte. E questa per me è una verità fattuale.
Forse tutti abbiamo dei segreti inconfessabili. Qual è il tuo? Naturalmente, mi aspetto che risponda che proprio in quanto inconfessabile dovrei astenermi da una simile domanda; ma potresti stupirmi, no?
Mah, mi vengono in mente due cose. Ho lasciato che mio padre corrompesse un ufficiale medico per evitarmi il servizio militare nel 1974 (spero sia un reato caduto in prescrizione). Oggi me ne vergogno e penso di essermi perso una esperienza fondamentale. Poi: sono tifoso della Lazio, come mio padre e mio nonno, ma la mia fede calcistica si è andata sempre più annacquando, tanto che quando accompagnai mio figlio, ultrà della Roma, a vedere l’ultima di campionato dello scudetto vinto dalla Roma (2001), cantai con lui l’inno di Venditti, un po’ vergognandomi.
Grazie, Filippo La Porta. E buon soggiorno in Messico. Non dimenticare di buttare giù qualche appunto: potrebbe venirne fuori qualcosa di significativo.
Gianluca Barbera