Tra maschera e mascherina la differenza è in etti d’anima. La maschera ammette il sacrificio del volto perché un altro volto, più appropriato, appaia. Non tutti possono indossare la maschera; non tutti possono forgiarla: soltanto alcuni volti sono adatti a quella maschera. Maneggiare una maschera è pericoloso: l’idolo che raffigura potrebbe impossessarsi di colui che si permette di imitarlo. La mascherina, invece – simulazione sacrilega della maschera, depravazione dell’altare – è per tutti, è d’obbligo. Sfacciatamente, siamo obbligati a obliare la faccia. Chi l’ha divorata?
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Secondo Rudolf Kassner, non abbiamo altro che il viso: tra l’equatore dello sguardo e il meridiano del setto nasale si canonizza il nostro destino. La faccia rispecchia chi siamo e dove andremo – essa è un lascito, un passaporto. “Fu un’epoca difficile, aprii stanco il libro e lessi, fra gli aforismi di Rudolf Kassner questo: La via del fervore alla grandezza passa attraverso il sacrificio. Mi trapassò l’anima. Come un pugnale che venga affilato contro di te, e che poi l’assassino porti per un anno sotto il mantello, sempre stretto nella mano in agguato: come poi questo pugnale si levi infine e si tenda e entri nel petto vero: così colpì dentro di me”, scrive Rainer Maria Rilke. Si trovava in Egitto, era il 1910, e anche una tazza gli pareva una sfinge.
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La maschera, in realtà, svela – il rito si compie mascherati, altrimenti il corpo divamperebbe, trapasso di falò. La mascherina, invece, cancella, è una cella: fa scempio del coraggio, ci inghiotte.
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I banditi si mascherano con una benda per avviare l’impresa, mettono in conto la morte e nell’anonimato – o nello pseudonimo, maschera verbale – si cela il gesto irredento che qualifica una vita. L’officiante evoca il dio con la maschera sapendo che potrà essere falciato, uncinato, ucciso. Con la mascherina, speriamo, vagamente, di aver salva la vita – dissipando la vitalità, morenti.
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Il sacro agisce sempre sul corpo, lo segna, lo altera.
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L’abbellimento delle mascherine è un tentativo di ossigenare l’identità perduta. Inevitabile, increscioso iato tra mascherata e carnevale. Da una parte, il mondo è travolto, impoverito per una agghiacciante ipotesi di ‘felicità’; dall’altra è capovolto. Capovolgere il mondo è come spalancare i sepolcri: la mascherina è la pietra tombale della persona; il sepolcro è pietra focaia, che accende la vita nuova. L’uomo travestito da folle cammina a testa in giù, in verticale, annunciando il sottosopra, il paradiso in terra, il riscatto; l’uomo in mascherina è sottomesso al ricatto.
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“Dove si sono dati convegno i sogni dell’infanzia; dove tronchi secolari cantano e parlano; dove oggetti indefinibili spiano il visitatore con la fissità ansiosa dei visi umani; dove animali d’una grazia squisita congiungono le zampine come in preghiera, per ottenere il privilegio di costruire per l’eletto il palazzo del castoro, di fargli da guida al regno delle foche, o di insegnargli in un mistico bacio il linguaggio della ranocchia o del martin pescatore… Agli spettatori dei riti d’iniziazione, queste maschere da danza che ad un tratto si aprono come in due battenti mettendo in mostra un secondo viso, e talvolta un terzo dietro il secondo, tutti segnati dall’importanza del mistero e dell’austerità, attestavano l’onnipresenza del sovrannaturale ed il pullulare dei miti”: questo è Claude Lévi-Strauss, La via delle maschere. La mascherina ulcera il viso, fa del viso una cicatrice, una cancellatura, la maschera ne rivela altri, due, tre, molteplici.
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Chi osa mostrare il proprio viso, smascherato, oggi, è l’autentica opera d’arte, sintomo di una leggiadra leggenda. Vogliamo qualcosa di umano – qualcuno che sappia vivere, che sappia morire. La mascherina mette il viso in conserva, sotto l’aceto del rancore – lo irrancidisce. Ma noi crediamo nel miracolo: Assarabas è un’ascesi nel gioco, nell’inconsueto.
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Il ritratto è una maschera, certo, l’indole di una identità – la storia dell’arte occidentale nasce facendo un ritratto all’irrappresentabile, il dio. L’arte nasce per dare forma e contorno al viso del dio, che sfugge. Tra le ganasce di una mascherina, il viso di un mortale muore – che possa salvarsi è un’opzione ipocrita.
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Parlarsi ‘viso-a-viso’ è come ricongiungere un simbolo, decretare l’anello. Forse questo terrorizza: un patto tra gli uomini, occhi che s’insinuano a spirale, labbra aperte alla rivolta.
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Rito e riso, sacro e profano, scena e osceno, guarigione e provocazione si fondono. Lo sciamano si altera il viso, una contraffazione che gli permette di vagare tra i mondi; oppure si traduce, per tramite della maschera, in animale – nostalgia di ciò che fummo. “Gli sciamani si annerivano il volto con la fuliggine per viaggiare nel mondo infero; più frequentemente, tuttavia, era l’uso di pezzuole di pelliccia, di pelle o di stoffa e di veli sfrangiati, che ricoprivano tutto il volto o soltanto gli occhi. Gli sciamani li usavano sia per non essere riconosciuti dagli spiriti maligni, sia perché velandosi il volto riuscivano a concentrarsi meglio” (Klaus E. Müller, Sciamanismo).
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La maschera è l’ingresso del bosco, del boschivo nella città – la mascherina è l’emblema di una vita metropolitana, distorta. A volte la maschera è ‘teatrale’: riproduce eventi perduti nella geologia della storia, fondanti. Altre volte marca il passaggio della stagione: qualcosa è sacrificato, arso, perché la luce riesca a spaccare la tenebra. La preghiera si sfrangia in urlo, il pane spezzato in gozzoviglia: la maschera protegge l’uomo per rivelarne gli eccessi, la natura di serpe, di lupo, di re degli alberi. “E allora è facile riandare col pensiero ai ‘bei tempi’, quando c’era tanta miseria ma anche tanta serenità, e insieme, per le strade del vecchio paese, è possibile penetrare consapevolmente nella pace conturbante della montagna, in un’intensa partecipazione emotiva al grande mistero della natura e della vita” (Luciano Gallo Pecca, Le maschere, il Carnevale e le feste per l’avvento della Primavera in Piemonte e nella Valle d’Aosta).
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La maschera mortuaria ricalca le fattezze di un viso, crudo come una legge, ambito come un’opera. Alcuni addestrano il proprio volto perché riproduca quello del morto: come se un corpo fosse un inno, un canto e la memoria una disciplina. Di certo, un viso ha ritmo. Se la mascherina lo dilania, la maschera mortuaria sbandiera, di un viso, l’immortale.
Alicia Sander
*Si riproduce per gentile concessione il testo di Alicia Sander che celebra la nuova avventura estetica del gruppo Assarabas, “No Mask”. Le azioni del gruppo si possono vedere su Instagram, qui. Altre informazioni si trovano qui