27 Luglio 2019

“Io soffro, soffro. Io sono amore, non crudeltà”: sulla grazia innaturale di Nijinsky (ovvero: a un secolo dal Diario, folle e meraviglioso)

Fu la fiammata, l’imponderabile, la teodicea risolta in un salto. Di Nijinsky incorporiamo le fotografie: quelle di Shéhérazade, di Le Spectre de la Rose, di Petrouchka. L’intensità del viso – né uomo né donna – l’ambiguità che data l’Eden a un bordello per Elohim strafatti, è disumana. Se si parla di grazia, rispetto a Nijinsky, non s’intende aggraziato: piuttosto, la concessione, la salvezza, il dono che non è suo – egli è innaturale – ma concesso a noi, gli imperfetti.

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Poster di Jean Cocteau con Nijinsky in atto in “Le Spectre de la Rose”, 1911

Guardare Nijinsky, intendo, come indulgenza plenaria. Porta carnale per gli aldilà. Il genio, tuttavia, si sviluppa in fiammata: nel 1909 il fauno arriva a Parigi, in dieci anni fa tutto, poi s’inabissa nella Scizia della mente, si perde, muore nel 1950. La storia dell’arte non procede progressivamente, ma per cime, per estasi: nel 1911 Sergej Djagilev, che ne è amante e tiranno, fonda i “Les Ballets Russes”, di cui Nijinsky è l’acme. Le coreografie sono create da Michel Fokine – alcune dallo stesso Nijinsky – i manifesti disegnati da Jean Cocteu e Léon Bakst, le scene da Picasso e Matisse, le musiche di Stravinskij – che incomparabile follia Le Sacre du printemps in scena al teatro des Champs-Élysées nel 1913, su coreografia di Nijinsky –, di Debussy, di Ravel, di Richard Strauss. Ci sono istanti, rarissimi, in cui la Storia la fai lì per lì, dal vivo e dal vero, senza interpretazione a posteriori, senza prospettiva di vincitori e vinti.

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Un secolo fa Nijinsky distilla il genio in un libro straordinario, che non ne censisce lo squilibrio ma la millimetrica sensibilità. In una lettera inviata da St. Moritz-Dorf, è il 27 febbraio 1919, il più grande danzatore di ogni tempo scrive, “Io soffro, soffro. Tutti sentiranno e capiranno, io sono un uomo, non una bestia. Io amo tutti, ho dei difetti, sono un uomo – non Dio. Voglio essere Dio e perciò cerco di migliorarmi. Voglio danzare, disegnare, suonare il pianoforte, scrivere versi, io voglio amare tutti. questo è lo scopo della mia vita… Io sono amore – non crudeltà. Non sono una belva assetata di sangue. Io sono l’uomo. Dio è in me. Io sono in Dio”. La firma: Dio e Nijinsky.

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“Dedicò tutta la sua vita, la sua anima, il suo genio al servizio dell’umanità, con l’intento di nobilitare ed elevare il suo pubblico, di recare al mondo arte, bellezza e gioia”, scrive Romola Nijinsky, introducendo il Diario. In realtà la contessa ungherese faceva de Pulszky di cognome, sposò il ballerino formidabile a Buenos Aires, nel 1913. Djaghilev, reso cruento dalla gelosia, s’imbestialì licenziando Nijinsky – per poi riprenderlo. Valslav e Romola ebbero due figli, lei fu dietro alla schizofrenia decennale di lui. Una fiammata di successo planetario, poi le catacombe del male.

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Il diario di Nijinsky fu un fenomeno editoriale, la testimonianza senza filtri alfabetici di una creatura fuori norma. Cesta di quaderni. Scritti – e nascosti – un secolo fa, nel 1919, riscoperti nel 1934, pubblicati nel 1963, in Italia, per Adelphi, arrivano quarant’anni fa, nel 1979. La violenza letteraria, la danza verbale, ricorda Artaud, un continuo sbordare dagli argini grammaticali. Si può scrivere in danza.

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Nella lista dei 100 Books That Influenced Me Most, Henry Miller pone il diario di Nijinsky tra l’opera omnia di Nietzsche e le centurie di Nostradamus, insieme alle poesie di Rimbaud, il teatro greco classico e Viaggio al termine della notte. “La tecnica, così assolutamente personale, è di quelle da cui ogni scrittore può imparare qualcosa. Se non fosse finito in manicomio, se questo diario fosse stato solo il suo battesimo con la letteratura, avremmo avuto in Nijinsky uno scrittore paragonabile al ballerino”, dice Miller. Proprio l’‘atto unico’, per così dire, questa ‘prima’ senza replica dona al diario l’odore del sangue – quello che trasuda dai grandi libri.

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Léon Bakst raffigura Nijinsky in “L’Après-midi d’un faune”, 1912

Non che occorra essere ‘fuori di testa’ per farsi scrittori – farsi fuori, piuttosto, è necessario. Il genio si esplicita nella dissipazione, nell’incapacità di calcolo, perché incalcolabile è il suo metro. Oscilla tra l’altezza ineguagliata e il tonfo, dacché questa è la maledizione del dono: prima sei un inventore di voci, poi ti cade la lingua, adagiata al palato, e non sai più chi sei. Vivi, in verità, sottratto a te stesso – preda del diabolico, del divino.

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“Io non ho mai insegnato a nessuno la mia arte, la volevo per me, ma volevo insegnare a lei la vera arte della danza, ma lei si spaventò. Non confidava più in me?”. Demoniaca lucidità: l’arte non si insegna, si trasmette, semmai; l’artista non si applica all’arte, la esegue sconfinando. Finché l’arte non si affida più a lui, sceglie un altro confidente. Insomma: Dio lo puoi – lo devi – condividere con tutti, l’arte con nessuno.

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Fu pura ispirazione, fino a espirare tutto il talento, a espiarlo. Non fu irriconoscenza – gli era ormai irrilevante la riconoscenza. “Dieci anni dopo la stesura del Diario e la crisi psichica, Diaghilev volle ricondurre Nijinsky sul palcoscenico dell’Opéra. Ma il grande ballerino non riconobbe nessuno, nemmeno la Karsavina, che era stata sua partner in Petrouchka. Poco dopo, Diaghilev sarebbe morto a Venezia”. Forse il genio si esercita per un tempo, preciso e decisivo – il patto è ammirarne la fine, dopo lo scoppio. (d.b.)

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Antologia di brani tratti da “Il diario di Nijinsky” (Adelphi, 1979)

La gente dirà che Nijinsky finge di essere pazzo a causa delle sue cattive azioni. Le cattive azioni sono tremende, e io le odio e non voglio commetterne. Prima ho fatto degli errori perché non capivo Dio. lo sentivo ma non capivo quello che facevano tutti.

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Fingerò di star per morire, o di essere malato, per poter entrare nella misera casa dei poveri. Io sento l’odore del povero come il cane fiuta la selvaggina. Lo sento benissimo. Scoverò i poveri senza bisogno dei loro avvisi. Io non ho bisogno di avvisi. Andrò a naso. Non mi sbaglierò. Non darò denaro ai poveri, darò loro la vita. La vita non è povertà, la povertà non è vita. Io voglio la vita. Io voglio l’amore.

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Non mi piacciono le università perché vi si passa il tempo a far politica. La politica è morte. La politica è un’invenzione dei governi.

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La gente va in chiesa a cercare Dio. Dio non è in chiesa. Egli è nelle chiese e dovunque Lo cerchiamo e perciò andrò in chiesa anch’io. A me non piace la chiesa perché là non si parla di Dio, si parla di cultura. La cultura non è Dio. Dio è saggezza e la cultura è l’Anticristo.

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Mi piace parlare in poesia, perché sono una poesia io stesso.

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Non mi piace mangiar carne perché ho visto uccidere agnelli e maiali. Ho visto e sentito la loro sofferenza. Essi sentivano l’avvicinarsi della morte, io sono fuggito per non vederli morire. Non potevo sopportarlo. Piangevo come un bambino. Sono corso su per la collina e non riuscivo a tirare il fiato. Mi sentivo soffocare. Sentivo la morte dell’agnello.

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Io voglio dormire ma Dio non lo desidera. Ho pietà di me stesso e della gente come me. Tutti diranno che sono un malvagio, ma io non voglio nuocere alla gente – sono loro che vogliono nuocermi.

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La mia anima scoppiò in pianto. Io tremo quando la gente non mi capisce. Io ho una grande sensibilità. Il fuoco dentro di me non si estingue. Io vivo con Dio. Io sono venuto qui per essere d’aiuto – io voglio il paradiso in terra. Per il momento la terra è un inferno. Io voglio infiammare il mondo e la sua gente, non spegnerli. Gli scienziati spengono il fuoco della terra e l’amore reciproco della gente.

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Adesso vado nello spogliatoio – ho un mucchio di abiti costosi e indosserò quelli più belli così tutti penseranno che sono ricco. Non farò aspettare la gente, vado immediatamente.

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Ho vissuto tante cose. Oggi tutto è stato orribile. La gente mi fa paura – non mi sentono e non mi capiscono, vogliono che io viva come loro. Vogliono che faccia delle danze allegre. A me non piace l’allegria, mi piace la vita.

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A me non piace l’Amleto di Shakespeare perché ragiona. Io sono un filosofo che non ragiona – un filosofo che sente. Non mi piace scrivere cose che sono state meditate. Io non sono artificiale, io sono la vita. Il teatro diventa un’abitudine, la vita no. A me non piace il palcoscenico quadrato, me ne piacerebbe uno rotondo. Io costruirò un teatro di forma rotonda, come un occhio. Mi piace guardarmi allo specchio da vicino, mi vedo con un occhio solo sulla fronte. Io disegno spesso un occhio solo.

Vaslav Nijinsky

*In copertina: Nijinsky in “Shéhérazade”, su musiche di Rimskij-Korsakov, 1910

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