“Più volte, quando mettevo davanti agli occhi di qualcuno la mancanza di una cultura tedesca, mi è stato detto: «Ma questa mancanza è del tutto naturale, perché i Tedeschi fino ad ora sono stati troppo poveri e modesti. Lasciate che i nostri compatriotti diventino ricchi e consapevoli e allora avrete anche una cultura!»” Questa sentenza appartiene, né più né meno, a un interlocutore immaginario di Nietzsche quando a 28 anni si impancò a scrivere le quattro Considerazioni inattuali, e nello specifico quella su Schopenhauer come educatore.
Scavalcando una frase per proseguire la citazione ritagliata, le considerazioni continuano per naturale affioramento: ma non ci si faccia trarre in inganno dalla prosa apparentemente pacificata, assemblata in paragrafi imponenti di Nietzsche giovane, ché in via carsica il nucleo della sua prassi stilistica è già quello della distruzione dei cardini, è già la prosa più mossa, quanto di più lontano, per forma e cronologia, dallo stile con cui la storia – intesa come disciplina – si era data col padre nobile Erodoto. Perciò si troverà che “seppure la fede rende felici, questo tipo di fede mi rende infelice, perché sento che quella cultura tedesca, nel cui avvenire qui si ha fede – la cultura della ricchezza, della politezza e della contraffazione manierata – è l’esatto e ostile opposto della cultura tedesca in cui io ho fede.”
La cultura tedesca di quel giro d’anni è alle origini, per via di emigrazione ebrea e non negli Stati Uniti mezzo secolo dopo, di tutto quel che si vede oggi: varrà la pena tenerlo presente, quando si fanno battaglie per la dignità dei teatri riaperti o ancora chiusi, per i fondi agli archivi andati in malora grazie a sorci e lumache e via discorrendo. Insomma per tutti quei discorsi che hanno come lunghezza d’onda le formulazioni dei franceschini o degli eterni assenti, liberali di destra: “tutti coloro che diventano grandi uomini, debbono sciupare energie incredibili per salvarsi, se non altro, da tale deformità. Il mondo, nel quale oggi fanno il loro ingresso, è avviluppato nelle sciocchezze, e queste, certamente, non sono soltanto dogmi religiosi, ma anche concetti scipiti come «progresso», «istruzione generale», «nazionale», «Stato moderno», «battaglia per la laicità»; anzi si può dire che tutte le parole generali portano in sé una lucidatura artificiosa e innaturale, per cui posteri più illuminati faranno al nostro tempo soprattutto il rimprovero di essere contorto e deforme, per quanto noi meniamo gran rumore sulla nostra «salute».” A nostro scorno e disdoro, non lo si è ancora inteso bene. Motivo in più per rileggere Nietszsche.
Sarebbe troppo agevole e forse anche inelegante trarre un parallelo, velato o esplicito che esso sia, tra cultura tedesca, intesa come decoro urbano, come quel sovrappiù che consente di dedicarsi alle belle lettere nel dopopasto, che in fondo è la stessa dei propalatori del palazzo di governo romano – sia nei periodi di governo democratico che nella propaganda di quegli altri anni Venti – e il panorama che Nietzsche aveva davanti a sé, da quella privilegiata specola svizzera che era quella del professore giovane – oggi si direbbe “associato” per pruderie di parafrasi contestualizzante – di filologia greca.
Ma tant’è, il richiamo vien naturale tra chi propugna il liceo italiano indistruttibile, inscalfibile nonostante i chiari segnali di cambiamento e il tempo di Nietzsche in cui l’omologazione della specie “intellettuale” era oramai compiuta, un fatto acquisito: “Finché esisteranno pseudopensatori riconosciuti dallo Stato, sarà impedito, o per lo meno ostacolato, ogni grande effetto di una vera filosofia, e ciò sarà dovuto soltanto alla maledizione del ridicolo che i rappresentanti di quella grande cosa hanno attirato su di sé, ma che colpisce la cosa stessa. Perciò io dico che è una esigenza della cultura il sottrarre alla filosofia ogni riconoscimento statale e accademico e l’esonerare in generale lo Stato e l’accademia dal compito, per essi insolubile, di distinguere fra filosofia vera e apparente.”
Parole destabilizzanti per davvero, più dei richiami autoassolutori della politica che impone di riaprire quasi fosse un fine in se stesso per il cielo delle idee eterne dove lampeggia la Resilienza, il Recovery: “Lasciate pure crescere i filosofi allo stato selvaggio, negate loro ogni prospettiva di impiego e di inserimento nelle professioni borghesi, non li solleticate più con stipendi, anzi di più: perseguitateli, considerateli con sfavore; vi troverete di fronte a dei miracoli! allora si sparpaglieranno e cercheranno qua e là un tetto, quei poveri filosofi apparenti; qui si apre una parrocchia, là una scuola elementare, l’uno si rifugia nella redazione di un giornale, l’altro scrive manuali per scuole femminili superiori, il più ragionevole di loro dà mano all’aratro, e il più vanitoso va a corte. Improvvisamente tutto è vuoto, il nido è rimasto senza uccelli: giacché è facile liberarsi dai cattivi filosofi, basta smettere di favorirli. E ciò è in ogni caso più consigliabile che proteggere una filosofia, quale che essa sia, pubblicamente, per mezzo dello Stato.”
Morale. “Allo Stato non interessa mai la verità, bensì sempre e soltanto, la verità che gli è utile, o, per meglio dire, tutto ciò che gli è utile, sia verità, mezza verità o errore.”
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Il gradiente, il tasso normativo culturale che impone di leggere anche a spizzichi e bocconi le prose del primissimo Nietzsche lo si deve ricercare, opportunamente, in questa disfatta dell’uomo del bel mondo colto davanti allo scempio del braccio armato: non tanto quello del soldato ma del politico che dirige il soldato e annette territori (ai tempi, Bismarck) e impianta telecamere (oggi, le reti in escalation da 4 a 5G).
Varrà quindi la pena di toccare il centro caldo delle considerazioni in Schopenhauer come educatore, prima di avviarsi a indicare la loro fonte e rintracciare il maestro in carne e ossa del Nietzsche di quegli anni, che era un professorone, si direbbe con scialo di recupero renziano, dal nome tonitruante: Jakob Burckhardt.
Prosegue così il giovane filologo: “Certo chi deve vivere in mezzo ai Tedeschi, soffre molto per il famigerato grigiore della loro vita e dei loro sentimenti, per la mancanza di forma, per l’ottusità e la sordità, per la goffaggine nelle relazioni tenere, ancor più: per la malevolenza e per una certa furtività e impurità del loro carattere; lo offende e lo fa soffrire il piacere radicato per ciò che è falso e non autentico, per ciò che è male imitato, per la traduzione in cattivo tedesco di buone cose straniere; adesso, però, che anche quella inquietudine febbrile, quella ricerca del successo e del guadagno, quella sopravvalutazione dell’attimo si sono aggiunte come le piaghe peggiori, suscita profonda ribellione il pensare che tutte queste debolezze e malattie non debbano essere radicalmente guarite bensì soltanto ricoperte di belletto . . . per mezzo di una «cultura della forma interessante»! E ciò in un popolo che ha dato Schopenhauer e Wagner! E altri ancora deve dare! O noi ci illudiamo irrimediabilmente?”
Vero che il passo errante per non dir svagato delle Considerazioni vorrebbe eludere qualsiasi genere di storia delle idee per via di una filologia fatta di varianti mobili, ma il fatto è lampante. Quando il giovane filologo cita, qualche riga più avanti, le “potenze”, altro non ha in mente che lo schema del suo maestro (qui sopra ritratto abbronzato e in smoking zurighese, da vero storico dell’arte on the road qual era nei tempi morti della giovinezza romantica in Italia): è Burckhardt, in altre Considerazioni (per esteso, Considerazioni sulla storia universale) a tracciare un triangolo isoscele delle “potenze”. Per Burckhardt esse sono Stato, Religione e Cultura. Per Nietzsche che ne seguiva i corsi (con stizza e riserva del maestro) queste diventano mobili morali e il triangolo si sforma in quadrato.
Si legge così in chiusura del paragrafo citato all’inizio che “a questo punto non so più che fare e ritorno quindi sulla via delle mie considerazioni generali, dalle quali anche troppo spesso dubbi inquietanti vogliono distogliermi. Ancora non sono state enumerate tutte quelle potenze dalle quali, certo, la cultura è promossa, senza che, tuttavia, se ne riconosca il fine: la generazione del genio; tre sono state nominate, l’egoismo degli affaristi, l’egoismo dello Stato e l’egoismo di tutti coloro che hanno un motivo per contraffare se stessi e nascondersi mediante la forma. In quarto luogo nomino l’egoismo della scienza, essenza specifica dei suoi servitori, gli scienziati.”
Qui il quadrato si chiude, su un riposato disprezzo degli uomini di scienza, intesa come cultura professionalizzata. Meglio non prendere il largo, perché sul punto Nietzsche è già qualcos’altro, il “filosofo” che ci hanno abituato a conoscere i vari distruttori della forma antica, i decoratori dello stile, i pittori dello smalto à la Gottfried Benn e, in anni più stretti alle vicende di Basilea, gli storici dell’arte primevi che si diedero a rintracciare il sentimento tedesco della forma a suon di teorie estetiche con Woelfflin.
Ci si abitui allora, finché si è liberi di scappare dal gorgo delle sistematizzazioni a uso delle buone prassi ministeriali, dei discorsi mistagogici sulle riprese italiane àpres la pandemia in virtù del patrimonio culturale conteggiato coi calcolatori delle reti pubbliche battuti sulle tastiere da primati mai estinti, alle buone considerazioni di Nietzsche. Nessuno avrà mai “l’ottanta per cento delle opere d’arte di tutta Europa”, né tanto meno “un buon cinquanta per cento della storia dell’arte” sul suo suolo nativo – se anche si cambiasse il nome del nostro paese, definitivamente, in Bel paese. La cultura è alfine abbracciata al governo che la nutre di latte in polvere per mantenerla infante, tenuta per le dande degli assegni di ricerca ad interim quando non pro bono di un buen retiro in cui alfine il professore si potrà costruire una piscina per il nuoto controcorrente, per tema di sfidare il mare aperto con le bracciate che si sa, son poco vigorose in chi abbia studiato tutta la vita.
E qui giova il punto fermo di Nietzsche: “la scienza sta alla saggezza come la virtù alla santificazione: essa è fredda e arida, non ha amore e non sa niente di un profondo sentimento di insoddisfazione e di nostalgia. È utile a se stessa quanto è nociva ai suoi servitori, perché trasferisce su di loro il proprio carattere e ammuffisce così, per così dire, la loro umanità. Finché per cultura si intenda sostanzialmente l’incremento della scienza, questa passa oltre il grande uomo sofferente con freddezza spietata, perché la scienza dappertutto vede soltanto problemi della conoscenza e perché, a dire il vero, il dolore entro il suo mondo è qualche cosa di inopportuno e di incomprensibile, e quindi tutt’al più è, ancora una volta, un problema.”
La scienza intesa come prassi statuale, come Cultura dentro lo Stato per riprendere in mano i nomi delle “potenze” del maestro Burckhardt, è solo un altro infingimento machiavellico di bassa lega. Il ministero è la casa delle asserzioni scientifiche; ma questo ancora una volta lo dice meglio chi come Nietzsche è dentro il sistema (sia pur per poco): “Se devo dire quel che penso, ecco il mio principio: lo scienziato è fatto di un complicato intreccio di istinti e di stimoli diversi, è un metallo assolutamente impuro. Si prenda prima di tutto una smania intensa e sempre più acuita di novità, la ricerca di avventure della conoscenza, la forza d’attrazione continuamente esercitata da ciò che è nuovo e raro, contrapposto a ciò che è vecchio e noioso. Si aggiunga un certo istinto dialettico per l’indagine e il giuoco, il piacere del cacciatore per le scaltre mosse volpine del pensiero: sicché non è propriamente la verità che si cerca, bensì il ricercare stesso, e il piacere principale consiste nell’astuto tendere l’agguato, circondare e uccidere a regola d’arte.”
La politica uccide, e il piatto è in tavola col caciocavallo caduto sui maccheroni. “A ciò si aggiunga,
ancora, l’impulso alla contraddizione; la personalità vuole sentirsi e farsi sentire di contro a tutti gli altri; la lotta diventa un piacere e la vittoria personale è il fine, mentre la lotta per la verità è soltanto il pretesto. In buona parte, ancora, nello scienziato è mescolato lo stimolo a trovare certe «verità», vale a dire per soggezione verso le persone, le caste, le opinioni, le chiese, i governi dominanti, perché sente di giovare a se stesso, portando la «verità» dalla loro parte. In modo meno regolare, ma abbastanza spesso, spiccano nello scienziato le seguenti qualità. In primo luogo probità e senso per la semplicità, da tenere in gran conto se sono qualche cosa di più che goffaggine e inesperienza nella contraffazione, la quale richiede un po’ di spirito.”
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Segue una fenomenologia dello scienziato, dell’uomo di cultura o intellettuale che dir si voglia nutrito dagli omogeneizzati statli (la vanità, l’orrore della noia e simili) che Nietzsche affastella lungo una enumerazione magicamente retorica – quel che preme è solo la conclusione a uso del 2021: “chi sa osservare, nota che lo scienziato per la sua essenza è infecondo – una conseguenza della sua nascita! – e che nutre un certo naturale odio per gli uomini fecondi; perciò in tutti i tempi i genii e gli scienziati hanno litigato. Questi ultimi, cioè, vogliono uccidere, sezionare e intendere la natura, i primi vogliono accrescere la natura con nuova natura vivente: e così vi è un conflitto di opinioni e di attività. Vi sono stati tempi felici che non hanno avuto bisogno dello scienziato e non l’hanno conosciuto, tempi profondamente ammalati e svogliati lo hanno apprezzato come l’uomo più nobile e più degno e gli hanno attribuito il primo posto. Ora, per sapere se il nostro tempo sia sano o ammalato, non ci sono medici che siano sufficientemente tali!
“Ma insomma: che cosa ci hanno fatto capire tutte queste considerazioni? Che dovunque, oggi, la cultura sembra essere favorita più alacremente, non si sa niente di quel fine. Per quanto lo Stato faccia valere ad alta voce i suoi meriti verso la cultura, la promuove per promuovere se stesso e non comprende un fine che sta più in alto del suo bene e della sua esistenza. Ciò che gli affaristi vogliono, quando chiedono incessantemente istruzione e cultura, non è altro, appunto, che un affare. Quando coloro che sentono il bisogno della forma, si attribuiscono la vera attività per la cultura, e, per esempio, arrivano a dire che ogni arte appartiene loro e deve servire al loro bisogno, è evidente che essi, nell’affermare la cultura, affermano soltanto se stessi: e quindi neppure loro sono usciti da un equivoco.
“Quanto alacremente dunque tutte e quattro le potenze riflettono a come giovare a se stesse con l’aiuto della cultura, altrettanto fiacche e prive di idee sono quando questo loro interesse non viene eccitato. Perciò le condizioni per la nascita del genio nell’epoca moderna non sono migliorate e la ripugnanza per gli uomini originali è aumentata, in una misura tale che Socrate non avrebbe potuto vivere con noi, in ogni caso non avrebbe raggiunto i settant’anni.”
Andrea Bianchi