30 Giugno 2022

Nietzsche, il pacifismo, la guerra in Ucraina

L’ingiunzione con cui termina la lettera di Nietzsche al suo amico Erwin Rohde è un’affermazione della volontà, un urlo di pura gioia: scateniamo tutta la nostra violenza contro la guerra, armiamo le nostre parole per far giungere la pace. Nietzsche era stanco del servizio militare che aveva prestato volontariamente e delle malattie che ne erano scaturite. Nel freddo dell’inverno svizzero, tra le nevi alpine, nel gennaio del 1872, comincia un anno di svolta per la filosofia del martello – la visione dionisiaca appare nelle lezioni sul futuro delle scuole e della cultura germanica, e nel saggio sulla nascita della tragedia greca dallo spirito della musica. La corrispondenza con Rohde è un palliativo, un escamotage per parlare dei progetti di riforma dell’accademia e denunciare il tramonto della cultura – il calare del sole della cultura germanica è antivisto da Nietzsche, un sole che lentamente si inabisserà nella pazzia dell’antisemitismo di stato del Reich.

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Il declino perpetuo dell’accademia è esperito dal giovane filologo a Basilea, dove le discipline sono già rinchiuse in facoltà e dipartimenti dai lunghi corridoi con porte parallele. Oggi, questo declino, si è trasformato in un moto perpetuo su un piano inclinato: le università sono diventate corti kafkiane con giardini appesi sul nulla, luoghi in cui gli studenti vengono trafitti e controllati da una cricca oclocratica. Gli edifici universitari sono tranelli e labirinti architettati per una gioventù che non sa che fare del proprio futuro – catturata in una dimensione accademica avulsa –; palazzi ordinati lungo scale escheriane che ritornano su se stesse e riportano agli stessi luoghi. Forse che il servizio militare e la guerra possano ristabilire una meta per la gioventù insoddisfatta?

John Lavery, Cimitero di guerra 1919

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La denuncia della guerra è un gioco troppo facile: occorre solo descrivere attentamente le ferite purulenti, gli edifici sventrati dalle bombe e le lande devastate. Nietzsche aveva contratto la difterite e la dissenteria durante la guerra franco-prussiana, prestando aiuto agli invalidi; già allora è agitato dalle malattie e dalle indisposizioni del corpo. Il filosofo denuncia la guerra se non altro perché ne patisce i risultati su di sé. Ma, non resta da chiedere, a chi giova il gioco degli armamenti? Per chi suonano le bombe e i cannoni? Oggi che una guerra è alle porte dell’Europa, quale senso troviamo nel fornire armi e nel protrarre il conflitto? Armiamo invece le parole e ritroviamo la pace del discorso. Già al principio delle sue disperate passeggiate notturne, Louis-Ferdinand Céline aveva compreso che la guerra è ciò che non si comprende – è tutto quello che non si capisce. Nessuno di noi ne comprende le ragioni, né sa ricondurre pienamente le cause in un luogo, in uno spazio discorsivo. La guerra è la fine della vita, eppur anche suo principio.

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La devastante preoccupazione causata dalla guerra distoglie l’animo umano dal giudizio estetico che può dare sul mondo: la bellezza non lo colpisce più e tralascia ciò che ha, per darsi alla sopravvivenza. Il mantenimento della propria vita è un interesse maggiore; l’istinto di sopravvivenza, si potrebbe dire, è una forza più grande dell’estasi – o, altrimenti, la guerra rappresenta un pericolo maggiore rispetto al rischio di perdersi l’apparire effimero della bellezza. Ubi maior, minor cessat.

André Gide, al sopraggiungere della Prima guerra mondiale, si getta in meditazioni teologiche e noiose nel suo diario; abbandonando la scrittura che riflette sulla condotta di vita. L’affanno del prestare aiuto e la risoluzione di un conflitto distoglie l’individuo dalla sua grandezza.

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Oggi, in Ucraina, le nostre ambasciate si dovrebbero fare carico del compito del Teseo descritto da Plutarco e andare villaggio per villaggio, città per città, comunità per comunità. Mario Draghi, Olaf Scholz e Emmanuel Macron dovrebbero sospendere gli altri impedimenti ed evitare le passerelle nella capitale ucraina – una disciplina: risolvere l’inconciliabile divergenza russo-ucraina. La politica dovrebbe essere in grado di creare un accordo solonico: dove nessuna delle due parti avrebbero niente da guadagnare nell’infrangere il patto. È forse questo un compito troppo grande? è forse un compito da eroi? La guerra è l’unico momento in cui di necessità gli eroi sono chiamati a sorgere: i grandi individui, caparbi, audaci, abili nel saper ricondurre al dialogo le parti infrante – o capaci di sconfiggere una delle due parti.

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In un’altra lettera a Carl Freiherr von Gersdorff, Nietzsche ipotizza la filosofia che si interessa dell’amor proprio, innamorata spudoratamente dell’individuo: “il nostro egoismo non è astuto a sufficienza, la nostra ragione non riguarda a sufficienza il sé.” I due si confidano parole di amicizia. Un eroe della filosofia e un nobile che imparano la lezione della solitudine. Isolati e a distanza. Una lezione impartita da Nietzsche quanto da Fabrizio De André. Due geni che sentivano entrambi con la stessa ragione. La solitudine è dovuta all’emarginazione, che è a sua volta scaturita da comportamenti difformi nei confronti della maggioranza. Bisogna attraversare la solitudine, imperterriti, assetati come in un deserto di sabbia bollente e arida. Trovandosi egregiamente di fronte a se stessi, si è memori di una condotta di vita, di una libertà – chi rassomiglia a se stesso difende la libertà… De André ammonisce e ricorda di tenere alto “il diritto di rassomigliare a se stessi”. Ma a cosa rassomiglia un popolo? Una nazione?

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Abbisogniamo forse di un eroe di professione che con “passione e discernimento”, per dirla con Max Weber, risolva il conflitto e riconduca al dialogo; abbiamo bisogno di un politico a un tempo lungimirante e ingenuo, armato di “quella fermezza interiore che permette di resistere al naufragio di tutte le speranze”. Lottare con passione! Evitare che la libertà venga trucidata sull’altare della politica di potenza e preservare il diritto all’autodeterminazione dei popoli.

William Orpen, Tedeschi morti in trincea, 1918

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Scostare il liberticidio e permettere ai popoli di scegliersi il proprio destino – quanto alle lezioni di essere condotte e alla cultura di essere tramandata –, ecco, questa è libertà! Insomma, abbandonare ogni nazionalismo, ogni nativismo, ogni patriottismo. Lasciare affogare l’amore per un concetto di nazione e abbracciare l’amore per la terra. L’Europa deve amare se stessa in quanto continente, coltivare i suoi traffici di mare con l’altra sponda dell’Atlantico, quanto arare i campi di grano che portano alle steppe russe.

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Il poeta genovese, con fare provocativo, invitava a dare il premio Nobel per la pace al popolo rom – unico incapace di scatenare una guerra. Che si impari da questi nomadi del mondo!

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