24 Marzo 2023

Nietzsche e i dispeptici dell’anima

Occorre ricondurre il carattere atomizzato e controverso, conflittuale e disorganico, eteronomo, della modernità, a ciò che Nietzsche imputava ai cosiddetti dispeptici dell’anima. La realtà moderna appariva, già all’esegesi morale (e poi oltremorale) del filosofo tedesco, un magma di nozioni, stimoli e pulsioni conflittuali (qui pulsione è intesa come tensione energetica intrapsichica conseguente a una stimolazione esterna) che vengono, sì, fagocitati, ma non digeriti e bene assimilati – realtà coronata da una sorta di homo pamphagus sempre intento a “consumare”, divorare.

Il passaggio nietzschiano relativo all’armento e al rimuginare non fa altro che descrivere una delle declinazioni più deteriori di questo processo di nutricazione non esente da dispepsia, oltre che caratterizzare il preciso paradigma di una società di massa. In questo contesto l’odierna coazione a ripetere il gesto di un consumo indiscriminato secondo lo schema triangolare-mimetico girardiano descrive non altro che un investimento desiderante consumistico di tipo non lineare. Ora, la sovrastimolazione è il regno del disordine, dell’anarchia (anche di un Polemos senza uscita) sterile che conduce alla reattività pura e passiva allo stimolo (a una tirannia dello stimolo, se così si vuole intendere).

È espressione della volontà un’opera selettiva che passa anche dall’oblio inteso non come vis inertiae, ma come facoltà principe della distanza, di una dote ermeneutica e di risposta che potremmo chiamare di secondo grado, al flusso mutevole degli stimoli e al caos dell’indifferenziato. Qui il discorso si fa sottile, perché se da un lato Nietzsche disegna un nuovo concetto di umanità, per il verso di una avanguardia della volontà (l’universo stesso post-morale inibisce disciplina e esercizio di rigore e la dimensione ascetica viene intesa negativamente, sì, in quanto automortificazione pretesca, ma anche positivamente come capacità di rigore e spinta selettiva, tale da inverare l’essenziale in luogo di un accumulo ipertrofico e una risposta passiva allo stimolo assieme a un universo pulsionale fuori controllo), tale volontà è, certo, una sorgiva propulsione finanche allo sperpero di sé e alla gratuità di un fermo “Sì” alla vita, ma presuppone un rigore e un distanziamento che riconducano l’eteronomo e l’irriflesso a una dote e una virtù endogena. A questo proposito l’autodominio, l’autarchia, vengono sostituiti alla logica dominio-assoggettamento e al contesto meramente eteronomo di una società che, nella famosa Genealogia, è frutto di un surplus di repressione.

La storia antiquaria (qui richiamiamo un concetto nietzschiano ma anche un Topos preciso del teatro borghese di Ibsen relativo al peso del passato) altro non è che un compendio inerte, grigio e notarile, di nozioni che stagnano nell’incapacità di agire, di digerire le nozioni stesse, di assimilare per trasformare, di volgersi al futuro con capacità progettante e spinta sperimentatrice: il dispeptico dell’anima fagocita tutto ed è, come detto, eminentemente reattivo, oltretutto la sua capacità di osservare è minata da una mancanza di distanziamento e ingenera una distorsione fatale… Come nel racconto La sfinge di Poe, un insetto può divenire un mostro gigantesco se l’osservazione è minata da un inganno ottico e prospettico sul filo della presa o meno di distanza. Questo ci porta al cuore di ciò che inerisce un certo tipo di ideologia: considerare un uomo ora un insetto ora un gigante, è sintomatico di un vizio nel metro di giudizio figlio di condizionamenti quasi preconsci, irriflessi, affettivi. Così l’ideologia stessa, a giudizio di Althusser, non era tanto un modello interpretativo, una chiave di lettura e una griglia di riferimento rispetto ai caratteri di un’epoca (il mito antico secondo questo filone non è poi così distante, a livello empirico, dai connotati della moderna ideologia), ma piuttosto qualcosa di più sotterraneo e legato alle relazioni, a una sfera eminentemente emotiva piuttosto che figlia di un pensiero critico esercitato con sana epoché…

Possibile bene che l’esperienza viva, la cosiddetta Erlebnis di tanta filosofia, sia massimamente eminente nell’ambito delle cosiddette Società Calde così come descritte da Lacan (quelle dette fredde, per contro, poggiano sul rito e su una visione circolare del tempo, come quella dell’antichità greca per intenderci) dove il mito della simultaneità, l’eccesso di stimolazioni, la rapidità, la sperimentazione inscritta in forme di sapere modellistico, il gioco, sono tutti elementi che concorrono a disegnare le nuove forme di sapere maturate in seno al pensiero positivo. Ma il primato della volontà non è per Nietzsche figlio di un irrazionalismo sfrenato e convogliantesi necessariamente in forme di dominio soggiogatore e vigorosamente virile, quanto piuttosto una virtù che deve passare dalla presa di distanza, dal soppesare, dal giudicare e ponderare come risposta spontanea alla tirannia degli stimoli. Questo potrebbe sembrare in contrasto con il paradigma dell’Herren, esatto contrario delle caratteristiche pretesche della reattività e dell’interiorizzazione; ma Nietzsche non ha mai scritto che non vi sia bisogno di una morale, si pone semplicemente al centro di un processo già maturo di caduta di Dio, di ogni pretesa ontologica e della morale tradizionale (essa stessa rituale e ripetitiva ma tale da disciplinare) e ne trae alcune conclusioni perfettamente logiche. Egli prova uno smisurato fascino per le scienze positive, per l’avanzamento tecnico e i passaggi di galileiana memoria attraverso cui si traduce la scienza come sapere modellistico e comprovato nelle proprie tesi dal dato esperienziale, empirico-oggettivo. Ma questo non gli basta. Il suo è un rasoio di Occam nell’economia di un pensiero selettivo e persino obliante.

Vorrei ricordare una brillante analisi gadameriana del concetto di oblio, oblio che il filosofo dice essere padre della fantasia stessa: i computer hanno fantasia? Non si direbbe, e ciò perché non possono dimenticare, selezionare sì ma non economizzare la memoria su un modello di superamento del mero accumulo. Dimenticare è un atto precipuamente creativo. E quanto è seriosamente sterile l’obbligo di ricordare! Simile a una fissazione patologica figlia del trauma eppure lontana dalla rimozione; e quand’anche tale da innescarla, tale anche da ingenerare perturbanti angosciosi, sinistri. Si ricordi a tale proposito il geniale racconto dei Notturni di Hoffmann L’uomo della sabbia. Esso ci dice due cose: che l’uomo moderno è quanto di più artificiale e che è figlio del trauma. La sovra-stimolazione e la simultaneità sono tipici delle prime metropoli così come analizzate brillantemente da Simmel e da Benjamin, e il poeta Baudelaire, fermo sostenitore del primato dell’artificiale (dichiarava odio per la “santificazione dei legumi”) è flâneur che lotta di scherma con gli stimoli, è l’immagine, col suo spleen, dell’uomo attuale.

Per tornare al discorso della spontaneità sperimentante e creatrice, Nietzsche la afferma ma non dimentica l’economia del gesto ermeneutico e la capacità selettiva che consente di digerire le informazioni e gli stimoli. Se questa si dispieghi a mezzo di una coscienza che filtra, setaccia, questo è da vedersi, non proponendo Nietzsche un primato della coscienza di stampo kantiano. Ma certo è che il suo irrazionalismo, di cui è figlio gran parte dell’esistenzialismo moderno, non gli impedisce di flirtare con la scienza, col fascino della tecnica, col primato di una dote selettivo-ordinatrice che non si riduce alla mera spontaneità diretta e non mediata. Solo che la capacità ordinatrice non è qui intesa in senso archivistico (chi conosce non è un burocrate) ma come facoltà olistica di far valere un senso non reperibile già nelle cose, ma quale invenzione da calare nel reale.

I moderni apportati tecnici nel campo dell’osservazione dei fenomeni non hanno impedito di formulare teorie secondo cui il mezzo di osservazione può alterare i risultati stessi dell’indagine scientifica, trasformando l’insieme osservato. Questo ci riporta a Hoffmann e a L’uomo della sabbia: l’immagine dell’osservazione tramite binocolo, porta il protagonista a un errore fatale, cioè scambiare Olimpia per una donna vera quando invece è un automa, una bambola animata… Essa è priva di occhi e la critica si è soffermata sull’intuizione freudiana che vede l’elemento dell’oculus rimosso quale sinonimo di castrazione; ma ci dice ben altro, e cioè che un orizzonte artificiale può essere cieco, e che l’espediente evolutivo di anticipazione intuitiva (intuizione qui vale a dire esperienza sensibile) che risiede nella vista, qualora tradotto in termini artificiali, può accecare letteralmente, inganna, è insincero se non mancante nella sua funzionalità specifica.

L’uomo moderno, poi, possiede grandi risorse tecnico-investigative ma è certamente accecato dalla mancanza di un ordine assiologico tale da indirizzare la ricerca ad un senso che non sia la mera formulazione di paradigmi per spiegare il mondo cambiandolo solo per il verso di un progresso apparente che può essere regressivo, mancando proprio, al cuore di esso, un ordine morale nuovo. L’Homo Faber artefice del proprio destino, fulcro del modello rinascimentale e proto-borghese, porta a una progressiva eclissi di una morale antica che seppure capziosa e controversa, ingannevole, era ordinatrice del mondo; e pur mettendolo a centro e epitome dell’Universo, non gli dice ancora nulla sul discorso Soggetto-Oggetto, sul nuovo senso da strappare a una visione del tempo come retta direzionata e come enorme contenitore da colmare, ma così lontano dalla qualità intensiva ad esso assegnabile. Il Novecento è invece il secolo della relatività, degli antieroi, dello scacco di una esistenza figlia dell’assassinio di un vecchio ordine ma incapace di generare uno nuovo che non sia meramente negazionale.

Il “Sì” alla vita di Nietzsche è la terza fase della trasformazione crisalica che porta al “bambino”, all’allontanamento dalla tetraggine del nichilismo passivo, al conseguimento della poetante bellezza della scoperta: prometeica, tale da raccogliere e onorare la stessa ammirazione di Dante nei confronti di Ulisse. L’Ulisse dantesco differisce da quello omerico in quanto prova “nostalgia aperta”: per il non-visto e il non-provato; e seppure colpevole di Hybris è l’antesignano della moderna scienza per la quale Nietzsche prova un forte fascino. Bisognerebbe avere il coraggio di affermare che certo irrazionalismo prende le mosse da un’esigenza semplice, primaria, che è quella di non cadere soggetti a un primato della ragione quando questa sia ammorbata da un’ipertrofia di sé e da una reattività irriflessa simile a quella del personaggio de Le memorie del sottosuolo di Dostoevskij. Così, la chiave per interpretare questo schema bifronte di Nietzsche, da un lato la capacità di disciplinare, ordinare, digerire gli stimoli, setacciarli, fare economia, e quella della non-mediazione, il rifiuto della logica hegeliana verso un orizzonte spontaneista, convivono nel filosofo tedesco senza elidersi vicendevolmente.

Vorremmo concludere dicendo che se la scelta deve essere presieduta da un soppesare della ragione, da un’assimilazione sana dello stimolo, bisogna anche affermare che un universo pulsionale eccessivamente esteso e indifferenziato, iperconnotato, porta a non individuare passioni dominanti e tali da indirizzare verso un senso nuovo l’esperienza… Le forze attive sono anche forze ordinatrici e riordinatrici, ciò che è sorgivo, affermativo, assertivo non necessariamente è mediato perché razionale, e questo perché, come scriveva Deleuze, ogni desiderio, ogni pulsione libidica e non, è una realtà concatenante e concatenata, mai univoca, è un ensemble inscindibile che chiama a direzionarci verso fini non univoci e spesso differenziali: non necessariamente ciò che è spontaneo e diretto è irrazionale, anzi, può essere figlio di un istinto sano di selezione, cosa che inerisce in Nietzsche anche il concetto di potenza, anzi di potenze, prima assimilatrici, tali da mascherarsi per altro, e poi preponderanti e tali da dominare. L’insegnamento di Zarathustra non è quello di agire in luogo del pensare e soppesare, ma la disciplina che informa la volontà dei suoi fini e del senso che strappa a un reale tale da non contenerlo già. In questo quadro, il senso non è un noumeno ma qualcosa di concretamente calato nell’esperienza e nell’esegesi attenta di essa.

Alla tirannia di un fatalismo romantico, Nietzsche contrappone un Amor Fati e una forma sottile di autodominio e integrità del volere; e, come detto a questo proposito, l’ascetismo non è liquidabile come mera invenzione pretesca, ma assurge a medicamento alle piaghe di un nichilismo passivo; un’anima tiranna si sostituisce alla tirannia della vita.

Massimo Triolo

Gruppo MAGOG