12 Novembre 2022

“Tutto nell’uomo è bramosia”. Ecco perché i nostri governanti devono leggere Nicolás Gómez Dávila 

Di questo Governo, negli ultimi tempi, ci si è affannati a rintracciare le ‘fonti’. Indagine buona & giusta: credere che alle scaturigini di una politica ci sia, ancora, un’idea, una visione del mondo. Riguardo al Governo Meloni, tra l’altro, si è detto di Tolkien e di Roger Scruton. Il mirabile antro del conservatorismo britannico – troppo altro, e alto, però, pare, perché possa nutrire i nostri bassi intenti. Alla formula dei conservatori, andrebbe aggiunta – per una prossimità più sibillina, ermetica, esatta – l’opera omnia di Nicolás Gómez Dávila (1913-1994), l’estremista reazionario, il sicario del pensiero progressista, che stritola, sbugiarda, scotenna in ogni sua variante. Il suo saggio aforistico, Il reazionario autentico, è un manifesto che alterna nitore cinico a vertigine lirica:

“Il reazionario sfugge alla servitù della storia perché insegue nella selva umana le orme di passi divini. Gli uomini e i fatti sono per il reazionario una carne servile e mortale spinta da soffi tramontani”;

“Il reazionario non è il sognatore nostalgico di passati aboliti, ma il cacciatore di ombre sacre sulle colline eterne”.

A tal punto potente, il granitico Gómez Dávila, che la politica si approssima a una poetica: non esiste atto politico che non contenga in sé una poetica dello stare al mondo, a rischio di rivelarsi futile, inutile, prono ai meri progetti di un gruppo, di un club, di una massoneria di industriosi baciapalle, di industriali schiavi del bilancio.

Notissimo per i suoi Escolios a un texto implicito – passato per le antologiche maglie di Adelphi, Nicolás Gómez Dávila è il cardine delle edizioni Gog, che ne pubblica l’opera integrale –, il colombiano Gómez Dávila ha scritto una serie di Textos ora tradotti e commentati da Loris Pasinato per Gog (il libro, vezzo da reazionari verticali, verticisti, “non porta lo stigma infame dell’Isbn”, dunque chiedetelo direttamente all’editore). Oltre alle note, agli scolii, ai marginalia – che è poi mera strategia letteraria: si smangiano i margini per colpire, dai lati, il cuore livido della ‘cosa’; è la nota, da sempre, la nuda verità del testo –Gómez Dávila ha scritto testi. Nessuna sorpresa: il moto del linguaggio è monolitico, magari, ma procede pur sempre per agnizioni improvvise, concetti a furor di morso, appelli alla caccia e all’intransigenza della solitudine.  

La lettura – di cui si propone un ampio estratto – è micidiale e corroborante. “L’uomo nasce ribelle. La sua natura gli ripugna”, attacca il pensatore aristocratico, al vetriolo. E poi, con onnipotenza leopardiana:

“Tutto, nell’universo, “imperializza”, e ogni esistenza individuale ambisce ad estendersi alla totalità dell’essere. L’animale più miserabile, dedito senza riserve alla sua febbre, occuperebbe tutto lo spazio e divorerebbe le stelle. Nelle pozzanghere delle vie ci sono organismi effimeri che già contengono il possesso virtuale del cielo. Nessun limite è interno all’essere, nessuna ambizione rifiuta se stessa”.

Appunto: per chiunque voglia ‘governare’ – parola gloriosa e infida – leggere Gómez Dávila è d’obbligo.

***

Tempo, fallimento e coscienza

L’uomo non può abbandonarsi al tempo, assorto nel fluire delle colline, estatico viaggiatore alla deriva sulle sue acque silenziose.

Ogni istante lo sottomette all’incoerenza radicale del mondo, perché ogni situazione in cui si trova ferisce il suo cuore trasgressivo.

Tutto nell’uomo è desiderio, anelito, impeto, bramosia. L’uomo è ambizione immortale ed ebbra di serena pienezza. La polpa dura, liscia, tersa dell’essere è il suo delirio, il suo destino e il suo impegno.

Ma neppure il breve rapimento del piacere soffoca il malessere che sempre lo accompagna. Della cosa stessa che lo colma teme la pronta fuga, e i suoi beni certi sono parodie che la lucidità della sua passione denuncia.

Basterà, allora, descrivere l’uomo come la somma dei suoi nudi appetiti? Come una fame di bene, vorace e crudele? Basterà considerarlo come un nucleo opaco di energie scagliate sul mondo.

In verità, non lo credo.

L’uomo non sembra meramente il focolaio dei suoi atti veementi, il focolare dei suoi ardori, la molla tesa dei suoi gesti, la causa isolata e solitaria della sua attività multiforme.

L’uomo è una realtà più ricca e complessa.

Non si tratta dell’ospite angelico caduto nel mezzo di un pullulare di larve. Né della bestia imprigionata nella concretezza della sua carne. E neppure dello specchio di una fantasmagoria di masse obbedienti solo alle loro traiettorie materiali. L’uomo non è il mero soggetto, lo spettatore immacolato, la pupilla solitaria dilatata nel centro dello spazio universale.

L’uomo, infatti, è il desiderio che desidera e lo stesso oggetto del desiderio, riuniti in un possesso frivolo. L’uomo è la somma indissolubile delle sue tendenze evocate e delle sue mete convocate.

L’uomo è l’insieme globale, integrale, intero della condizione umana; l’uomo è la situazione concreta in cui si trova. L’uomo non è una frazione mozzata ed avulsa dalla situazione totale, bensì la totalità indivisa.

La partecipazione del mondo in oggetti esterni, che l’avidità del soggetto affronta, è una tappa tardiva nel pellegrinaggio della coscienza umana. L’esistenza concreta precede il suo smembramento in frammenti ostili. Oggetti e soggetto sono meri artefatti di nostra produzione, organi pietrificati della totalità che la vita separa.

Oggetti e soggetto sono dati solo nel seno di una situazione reale; oggetti e soggetto sono i modi di come si articola in esistenza percepita l’esistenza concreta.

Che l’uomo, in effetti, allontani da sé gli oggetti per rinchiudersi nel recinto di una soggettività astratta o che, al contrario, si umili davanti all’universo e si concepisca solamente come il suo riflesso, la sua eco, la sua sonora risonanza, qualunque sia la posizione antagonistica che assume, le sue costruzioni sono sempre posteriori all’indivisa pienezza in cui, oggetto e soggetto confusi, l’esistenza esiste in una situazione concreta.

Non basta, quindi, dire che l’uomo si trova gettato in una situazione irresolubile, che è inserito in essa, dato in essa, immerso in essa. È doveroso ripetere con enfasi che l’uomo è la sua situazione, la sua situazione totale, niente di più che la sua situazione.

L’irreprimibile impegno umano di isolarsi ed escludersi, come se l’uomo fosse esiliato nella baraonda della sua situazione concreta, è un’intimazione della situazione stessa, un’esigenza della sua natura, un modo con il quale, insomma, la situazione esprime, o evidenzia, la sua formidabile non conformità con se stessa e la sua incapacità di accettarsi con pienezza, non potendo, tuttavia, rifiutarsi come totalità.

Il coglimento della situazione totale come realtà concreta dell’uomo non pregiudica nessun idealismo. Persino il realista si trova costretto ad ammettere che tutto l’esistente gli è sempre dato in situazione concreta, e che non gli è possibile strappare l’esistenza al contesto della sua situazione umana, qualunque sia lo statuto che posteriormente gli conceda.

La situazione dell’uomo non è, quindi, una configurazione esterna di avvenimenti dove egli si trova fortuitamente, bensì la condizione stessa dell’uomo. L’uomo non è un’essenza pura sottomessa a una condizione impura ed estranea; l’uomo è la stessa impurezza della condizione umana sua propria.

L’uomo è la sua condizione, una condizione accidentata e rotta.

Oscillando fra la delusione e la chimera, fra la privazione invincibile e il possesso frivolo, l’atto umano non ha pienezza. L’impossibile che ci seduce, ci respinge; il possibile che ci attende, ci stanca. La condizione dell’uomo è il fallimento.

L’uomo è un desiderio che fallisce, un anelito che non si compie; però l’uomo non è l’essere che fallisce fortuitamente, che casualmente non ottiene. L’uomo è l’essere che non ottiene: essere uomo significa non ottenere.

L’impossibilità di compimento non è un attributo avventizio di un’essenza intatta; l’anelito mancato è l’essenza. La condizione dell’uomo è impotenza.

Vedendo se stesso come impotenza radicale, l’uomo vive se stesso nel tempo, perché il tempo è il volto concreto dell’impotenza, il suo corpo sensuale e percettibile.

Il tempo è l’impotenza vissuta; il tempo è la traduzione dell’essenziale impotenza dell’uomo nel linguaggio della sensibilità; il tempo è l’atto concreto della nostra impotenza, l’atto col quale la nostra impotenza si conosce e si assume non come conclusione di un ragionamento sull’evidenza ripetuta del fallimento, ma come carne della vita.

Nella natura del tempo l’impotenza dell’uomo diventa manifesta; e la natura dell’uomo, a sua volta, si rende evidente nell’impotenza del tempo. Infatti, il tempo è l’impotenza stessa. Il tempo è il luogo del possesso impossibile.

Il passato e il futuro esistono solo nel presente, e la realtà del passato, come quella del futuro, sono mera realtà di passato e futuro di un presente. Né ciò che sarà né ciò che è stato assomigliano a tratti di un cammino immobile che il presente percorre come un metodico viaggiatore. Passato e futuro sono tensioni divergenti nel corpo teso del presente.

Il presente è l’insostituibile luogo del reale; ciò che esiste, esiste solo in esso. Esistere vuol dire stare nel presente; è essere presente. L’esistenza esiste in un presente eterno.

Il presente è la sugosa polpa delle cose, la dimora immobile dell’essere, lo spazio luminoso in cui risiedono le essenze. Il presente è l’esistenza piena e densa; la sostanza intera; l’atto puro dell’essere assorto nella colma esaltazione del proprio giubilo.

Ma la validità atemporale, la ripetizione incessante, la caccia di istanti aboliti sono solo simulacri sterili e vani del presente nella fluidità del tempo. Infatti, quandanche sia la sua realtà e la sua esistenza, il presente è, tuttavia, ciò che il tempo uccide, ciò che ha la funzione di uccidere. Mordendo nel futuro, il tempo instancabile getta il proprio presente nelle fauci del passato, anche quando il tempo non riesca ad annullare il presente, perché il presente è l’unica realtà, l’unica cosa che esiste, in modo che il presente stesso necessita di rimanere nella sua esistenza per insuperbirsi e perdersi. Nonostante questo, il tempo lo uccide opprimendolo tra il passato e il futuro, schiacciandolo nella giuntura stessa di due dimensioni astratte e irreali dove giace, spettro esangue, come se fosse solo l’immaginaria linea equatoriale che le divide.

Se il presente puro, alla fine, è ciò che muore nello stesso istante in cui nasce, se il nostro presente concreto è solo un intreccio di previsioni e ricordi, se la stamigna del tempo ha, in questo modo, come ordito ciò che è estinto e come trama ciò che è virtuale, allora il tempo, nell’abolizione incessante del presente, compie l’atto in cui la pienezza si insuperbisce, in cui la permanenza non permane, in cui l’esistenza non esiste.

Il tempo è la prova verificatrice dell’impotenza essenziale dell’uomo e la materia in cui si realizza l’esistenza umana. È il tempo sfuggente il luogo in cui l’uomo palpa l’imperfezione della propria essenza. La sua irrimediabile storicità non è la ragione del suo fallimento, bensì la sua realtà e il suo simbolo. L’uomo non fallisce perché vive nel tempo; l’uomo vive nel tempo perché il fallimento è, al contrario, la sostanza della sua vita, la sostanza esteriorizzata, manifestata ed evidenziata come tempo.

La pienezza, abolita con l’abolizione del presente, racchiude l’esistenza umana nella negatività della sua condizione. Il vivere dell’uomo è, così, una permanente negazione dell’istante da parte dell’istante stesso, e la pienezza della presenza è il suo limite irraggiungibile perché ogni atto che la realizza la sopprime.

Che la condizione umana sia impotenza è, pertanto, un fatto inconfutabile, però non basterebbe la mera descrizione del fatto se ci fosse dato di scoprire cause o ragioni che lo giustificano o motivano. Ma l’incongrua e discorde natura della nostra condizione si impone con la rozzezza di un fatto ultimo, e la coscienza non riesce a risalire, dopo la stolidità del fatto, a una spiegazione che lo domini, perché la coscienza non è una luce estranea alla condizione umana, bensì la condizione umana stessa nella sua pienezza di miseria.

La coscienza, infatti, è il modo in cui l’esistenza realizza il proprio fallimento; l’atto nel quale l’esistenza si realizza come impotenza essenziale. La coscienza è strutturazione dell’impotenza e del fallimento. La coscienza è l’esistenza frammentata in condizione umana. La coscienza è coscienza della condizione dell’uomo.

Nel risveglio della coscienza empirica, l’atto della coscienza assoluta si riflette in processo, e lì è possibile contemplarlo come attraverso un prisma temporale e torbido.

Al torpore prenatale dell’esistente segue un vivere sottomesso alla sensibilità più sommaria, dove l’esistenza è un’alterazione continua di stati totali. L’individuo è un centro vibrante e trasparente attraversato e intersecato da presenze universali. Versata e dissipata, così, nella sua circostanza totale, l’esistenza individuale si rapprende in coscienza quando la sua attività spasmodica rimbalza contro resistenze che la intorpidiscono e la ostacolano. Il mondo è fondamentalmente ciò che impedisce il conseguimento immediato della preda.

La meta non ottenuta evidenzia un mondo, un ordinamento ostile di presenze, un’apparizione dell’eterogeneo e dell’estraneo. Nella sostanza stessa del fallimento, l’intenzione sprecata plasma la pienezza adorabile del suo oggetto. Di fronte all’impossibilità di fare man bassa, l’anelito disperso si concentra, si scopre ed elabora in desiderabile splendore il bene proibito.

Però il dolore non basta per evocare la coscienza.

Senza dubbio, l’individuo rifiutato dal dolore che lo frena traccia un perimetro interno nel vasto spazio uniforme. Senza dubbio, un misero universo già comincia il gesto che lo erge innanzi alla confusa somma delle cose. Ma presto il dolore affoga nell’agonia la coscienza nascente, o l’equilibrio ristabilito la annega nuovamente nella presenza universale.

Nel transito senza fine di una contentezza legata a una non conformità transitoria, il dolore, che getta l’individuo a caccia di uno stato più adeguato al proprio istinto, accende nell’opacità dell’essere soltanto una coscienza crepuscolare. La coscienza plenaria compare solo quando un’indefinibile insoddisfazione emerge nel seno stesso della concreta pienezza dell’atto.

La coscienza si isola e si distingue dall’atto stesso che la confonde con una totalità che la inganna, se nel preciso istante in cui l’essere riposa colmo nella pace ardente dei suoi aneliti soddisfatti appare un vuoto interno al compimento stesso, una mancanza consustanziale all’intatta pienezza che degrada la sua pura perfezione.

Per fondarsi, alla coscienza empirica non bastò ripudiare ogni identità col contenuto universale dei suoi stati interni; solo l’insoddisfazione che trova nei suoi stati più perfetti la costringe a declinare qualunque identità con i suoi stessi stati. L’apparente pienezza che si rivela capace di colmarla proclama così la sua differenza, giacché l’esistenza sola e pura darebbe tutto a se stessa o sarebbe tutto. Nel vuoto segreto della sua gioia più sicura germina la coscienza.

Essere cosciente è, quindi, essere cosciente del fallimento, dell’impossibilità finale di qualsiasi impegno. La coscienza dell’uomo è coscienza della propria impotenza, è coscienza della propria condizione.

Siccome la coscienza assoluta è l’atto stesso della condizione umana, la coscienza non può addurre ragioni che chiariscano o spieghino la natura fallimentare della condizione dell’uomo e deve rassegnarsi a postularla, con identica arbitrarietà e con necessità uguale all’arbitrarietà e alla necessità con cui essa, la coscienza, postula se stessa.

La coscienza assoluta non può essere infatti se non una postulazione di se stessa, e l’impossibilità di concepire un atto che la generi non è una mera situazione di fatto ma implicita necessità del suo essere.

Tutti gli atti possibili, come anche la somma delle sue possibili relazioni, sono interni alla coscienza. Anche l’esteriorità pura è artificio della coscienza astutamente presente nel rigore con cui elabora la sua assenza. Tra la coscienza e qualunque atto possibile non può esistere relazione diversa da quella di averlo per oggetto; le altre relazioni si danno solo tra oggetti della coscienza stessa. Ogni tentativo di trasformare una delle relazioni tra oggetti in relazione tra un oggetto e la coscienza è un’impresa a priori fallita e radicalmente impossibile. La coscienza non può concepire se stessa come un oggetto del suo universo, e pertanto non è possibile trovare una spiegazione per essa e neppure ripudiarne la postulazione assoluta.

Se la coscienza si interpone obbligatoriamente fra termini di serie temporali, la collocazione a cui si sottomette non è una spiegazione né una causa, ma un fatto contingente e bruto. Ma anche per stabilire la mera relazione di anteriorità e posteriorità coi termini che la precedono e la seguono, la coscienza deve esteriorizzare se stessa simbolizzandosi in una configurazione materiale. E quandanche ottenga così di inserirsi tra le cose, in nessun momento riesce a coincidere col suo simbolo, giacché il solo gesto di pensarlo lo ribassa alla condizione di oggetto interno al suo atto imperterrito.

Situata nella serie temporale, la coscienza perdura intatta, incondizionata e irredenta. Blocco opaco e duro nella continuità del tempo e nel mezzo del concatenamento delle cose, nessun artificio dialettico riesce a risolvere la contraddizione inerente alla collocazione del soggetto da se stesso tra i suoi propri oggetti. Obbligata a viversi come tempo, la coscienza deve situarsi in esso, ma neppure la necessità che la identifica col tempo può ottenere che le ragioni e le cause con le quali la coscienza ordina il mondo ordinino essa stessa e la spieghino. Tra la visione del mondo che la coscienza elabora dal suo proprio centro e la visione che costruisce omettendo il riferimento convergente di tutti gli oggetti a se stessa, per stabilirli solo nelle sue relazioni reciproche, non vi è alcuna corrispondenza né traduzione possibile di un sistema nell’altro. Laddove la coscienza omette il suo riferimento centrale, sussiste solo come simbolo astratto e irritante che essa stessa, senza riposo e senza successo, tenta di rimpiazzare con la mera risultante di processi oggettivi. E laddove la coscienza si insedia nel suo riferimento centrale, la totalità delle cose appare come una somma di disubbidienze che la coscienza determina ma non soggioga.

Non potendo così trascendere se stessa e neppure spiegarsi, la coscienza non può nemmeno spiegare e trascendere la concreta condizione umana. La coscienza è coscienza di questa condizione, e la viziata, accidentata e rotta condizione dell’uomo è un fatto ultimo che dobbiamo assumere, ma che non riusciamo a comprendere.

La coscienza, tuttavia, ubicata nella sua assurda condizione, e precisamente per il fatto di essere coscienza della sua condizione assurda, non può accontentarsi di cedere passivamente alle pressioni che la spingono o alle mete che la attraggono, ma deve prima di tutto acquisire coscienza della propria condizione, coscienza di se stessa nella sua condizione determinata.

La coscienza che di se stessa assume la coscienza come condizione non si manifesta in un atto permanente di coscienza, bensì in una posizione di fronte a se stessa. La coscienza di sé della coscienza non è uno stato di conoscenza astratta, di statico riflesso di se stessa. Nell’acquisire coscienza di sé, la coscienza si conosce come condizione, come situazione, come atto suscettibile di accettazione o di rifiuto, ma non di astensione. Astenersi significa rifiutare, e astenersi di rifiutare significa accettare. L’accettazione e il rifiuto, come posizioni fondamentali della coscienza di fronte alla propria condizione, non sono meri atteggiamenti intermittenti, ma strutture permanenti della coscienza individuale.

È nell’accettazione o nel rifiuto che la struttura della coscienza si articola; ed è in funzione di questa struttura che la coscienza coglie, sente, percepisce, pensa, sceglie ed esclude. Né la sua nozione di sé, né la sua immagine del mondo, né le sue molteplici preferenze sono indipendenti dalla struttura predeterminante e sovrana. La struttura è un a priori concreto di ciascun essere umano.

Né l’accettazione né il rifiuto della condizione umana sono gesti limitati e netti: il mero rifiuto sarebbe un suicidio istantaneo e la mera accettazione un’animalizzazione immediata. Precisamente perché la sua condizione è assurda, la coscienza tende a slegare e a dissolvere la sua assurdità, e così la scelta che la sua condizione le pone implica una giustificazione simultanea.

Non potendo riposare nella condizione, la coscienza sceglie; e non potendo riposare nell’assurdità, la coscienza giustifica. Accettazione o rifiuto implicano entrambi un riferimento a un principio giustificativo della condizione dell’uomo.

L’accettazione e il rifiuto si elaborano e si compiono nel processo dialettico a cui la coscienza sottopone la propria urgenza giustificatrice.

La coscienza che accetta la sua condizione umana, la accetta necessariamente come condizione assurda, e non può rifiutarne l’assurdità essenziale senza rifiutare simultaneamente la condizione stessa. Non potendo così rifiutare l’assurdo inerente che richiede giustificazione, la coscienza che accetta deve situare il principio giustificativo fuori da qualsiasi condizione, come un’istanza trascendente. A questa istanza la coscienza riferisce la condizione totale, però la trascendenza del principio giustificativo esige che la coscienza non speri di contemplare la sua realizzazione, o realizzarlo essa stessa, nel seno della condizione umana, nel tempo, nella storia.

La realizzazione del principio implica l’abolizione della condizione dell’uomo. Per la coscienza che accetta la propria condizione, l’uomo non può essere redento se non fuori da ogni condizione immaginabile.

Inversamente, la coscienza che rifiuta la sua condizione umana, non potendo rifiutare la totalità della condizione senza suicidarsi, ne rifiuta solo l’assurdità. La coscienza che rifiuta crede possibile separare dalla sua essenza propria la sua condizione umana, come se la sua essenza fosse una coscienza astratta e pura caduta in una condizione assurda, e come se la sua condizione fosse una situazione astratta e fortuita. La coscienza che rifiuta si isola così astrattamente dalla sua condizione totale, dimenticando che la propria condizione è la coscienza stessa e credendo che rifiutare la condizione umana significhi solo rifiutare una situazione avventizia in cui l’uomo si trova. Nel dividere la condizione umana in cosciena pura e situazione fortuita, la coscienza che rifiuta immagina che le sia possibile esistere in situazioni diverse, e siccome l’assurdità della propria condizione le sembra così dipendere da una situazione che le risulta esterna ed estranea, la coscienza che rifiuta crede che basti alterare la situazione per modificare e trasformare la condizione umana.

La coscienza che rifiuta situa, quindi, il principio giustificativo nel seno della condizione stessa, come un’istanza immanente. Per la coscienza che rifiuta, il principio giustificativo è immanenza pura, e l’uomo può essere redento solo entro la sua stessa condizione.

L’istanza immanente è solitamente concepita come una condizione naturale dell’uomo. A questa condizione naturale la coscienza riferisce la sua assurda, ambigua e incoerente condizione positiva. Così, dalla condizione individuale alterata, la coscienza che rifiuta si richiama ad una condizione intatta e confida in una redenzione futura, quando la condizione autentica dell’uomo si liberi dall’intromissione di quelle cause accidentali che ostacolano la sua manifestazione concreta.

Evidentemente, la coscienza che rifiuta vive immersa nell’incurabile ossessione della storia. La storia è simultaneamente il luogo della sua attuale sventura e della sua prosperità ipotetica. Ma se la storia è la categoria unica della coscienza che rifiuta, la conoscenza della storia è eminentemente opaca, vietata, proibita a questa coscienza.

Infatti, la storia è ciò che accade, la realtà totale nella sua pienezza di avvenimento. La storia è la condizione umana nella sua irriducibile positività, e pertanto ogni coscienza che si china appassionatamente su di essa per compararla al paradigma atemporale di una condizione naturale dell’uomo o per rintracciare nel passato lo schema di una futura perfezione immaginaria, necessariamente la mutila e la tronca.

Ma la conoscenza della storia non è la sola vittima della coscienza che rifiuta.

La sua vittima preferita, la sua vittima prediletta, è la storia stessa, la storia che viviamo, la carne temporale dell’uomo. Tutti coloro che si richiamano a una condizione naturale dell’uomo, per accusare la condizione positiva che la copre e la dissimula, insorgono contro la tenacia irritante della nostra miseria.

Trascinati dal nobile impegno di restituire all’uomo la sua dignità perduta, la rozza realtà quotidiana li offende e l’insolente sdegno dell’esistenza li umilia. Avidi di promesse e di auguri, la loro veemenza infrange le quiete leggi della vita. Il suolo su cui si poggiano pare loro il perverso intralcio dei loro sogni. Il delirio di una perfezione assoluta e terrena li spinge ad irascibili ribellioni. L’ambiguità irriverente della vita scatena la ferocia del loro cuore puerile e compassionevole. Incapaci di procedere con circospetta diffidenza, con ironica pazienza, considerano la corruzione del mondo intollerabile e fortuita. Ansiosi così di trasformarlo per restituirgli il suo ipotetico splendore primigenio, ottengono soltanto di abbattere il fragile edificio che la pazienza sottomessa di altri uomini un giorno eresse nella sterile sostanza della condizione umana.

Agli uomini che distruggono spinti dal cieco affanno di creare, altri uomini oppongono la compassione e il disprezzo di un pessimismo virile. Questi sono gli uomini la cui coscienza accetta la propria condizione umana e che rispettano, orgogliosi e duri, le innaturali esigenze della vita. Questi uomini comprendono che la malattia della condizione umana è la condizione umana stessa, e che pertanto possono anelare solo alla maggior perfezione compatibile con la viziata essenza dell’universo. Un’ironia inquieta conduce i propri passi cauti attraverso la goffa e ruvida insufficienza del mondo.

Siccome non sperano nulla dall’indifferenza delle cose, la più lieve delizia commuove il loro cuore grato. Siccome non confidano nella spontanea e tenera bontà dell’universo, la fragilità del bello, la debolezza di ciò che è grande, l’atroce fugacità di ogni splendore terrestre risvegliano nelle loro anime il rispetto più attento, la riverenza più solenne.

Tutta l’astuzia della loro intelligenza e tutto l’austero acume del loro spirito bastano appena per tentare di proteggere e salvare le sementi sparse.

Nicolás Gómez Dávila 

*Si pubblica per gentile concessione un capitolo dal libro di Nicolás Gómez Dávila, “Textos” (Gog, 2022), a cura di Loris Pasinato

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