Questa è la mia ultima intervista con i grandi interpreti della musica classica contemporanea. Ringrazio Pangea per avermi dato spazio e raccomando a voi, miei quattro lettori, di continuare a interessarvi ai concerti, alle esecuzioni e agli esecutori che vi ho fatto conoscere, e magari insegnare a chi vi vive accanto l’amore per la musica. Allora questo mio lavoro non sarà stato inutile.
Il mio interlocutore è uno di quegli uomini che comunemente si definiscono ‘poliedrici’. Nicola Campogrande, uno dei più importanti compositori italiani contemporanei, è anche scrittore, musicologo, conduttore televisivo. La sua musica è registrata su più di 30 CD e viene eseguita frequentemente in sale prestigiose di tutto il mondo, dal Teatro alla Scala alla Wigmore Hall di Londra, dalla Philharmonie di Parigi al Bimhuis di Amsterdam, da Cincinnati a Berlino, da Cracovia a Melbourne, da Toronto a Bogotà. Oltre alla musica cameristica, sinfonica e operistica ha composto pagine per il cinema, la televisione, la radio e il teatro. Dal 2016 è direttore artistico del festival MITO SettembreMusica che si svolge annualmente a Milano e a Torino. Conduce la trasmissione televisiva Contrappunti sul canale Classica HD (Sky). Collabora con le pagine culturali del Corriere della Sera e ha pubblicato due libri: Occhio alle orecchie. Come ascoltare musica classica e vivere felici (Ponte alle Grazie) e 100 brani di musica classica da ascoltare una volta nella vita (Rizzoli).
In molti appassionati, l’ascolto della musica classica suscita rimpianto per un’epoca in cui era possibile credere in un’arte pura, originale e per nulla asservita alle esigenze del business commerciale. Eppure anche i grandi musicisti del passato dovevano preoccuparsi di sbarcare il lunario, e Mozart, che nell’immaginario popolare rappresenta il prototipo del genio libero e creatore, scriveva accorate lettere agli amici per chiedere denaro in prestito e finanziamenti per le sue opere. Crede anche lei, come me, che i nostalgici di una realtà inventata dovrebbero abbandonare lo snobismo verso la commercializzazione della musica? In fondo, salvo rari casi, anche i grandi del passato facevano musica funzionale al successo e al guadagno.
La nostalgia per un passato mitico fa parte del pensiero occidentale. E dunque va capita. Ma non ci sono dubbi che comporre ed eseguire musica siano un lavoro – io scrivo tutti i santi giorni, ad esempio – e quindi immaginare che non li si debba pagare è alquanto bizzarro. Che poi quello del musicista sia un lavoro meraviglioso, è fuor di dubbio. Che il cielo ci abbia concesso un privilegio, anche. Ciò non toglie che inventare, studiare, suonare in pubblico, con tutto ciò che questo comporta, se posso dire, non è esattamente facile. Ed essere ragionevolmente retribuiti, oltre che a fare la spesa e a pagare il mutuo, serve anche per trovare conferma del fatto che si sta svolgendo un’attività socialmente utile: in fondo, se si pensa al benessere, alla felicità che si prova in una sala da concerto, credo si possa dire che i musicisti non sono meno preziosi dei medici o dei panettieri. È così oggi e lo è stato sempre.
Un brano musicale è la trasposizione di uno stato d’animo e di un’intenzione artistica che non sono mai atemporali, poiché il compositore è inesorabilmente legato al proprio tempo. A distanza di anni, e forse secoli, l’interprete ha il difficile compito di dimorare in un’altra mente. Per quanto egli possa sforzarsi di aderire alle intenzioni dell’autore, mi pare corretto affermare che ogni esecuzione è un travisamento più o meno voluto.
Certo, è esattamente così. L’esecuzione della musica classica è uno strano animale: da un lato gli interpreti fanno di tutto per avvicinarsi alle intenzioni dell’autore, studiando maniacalmente partiture autografe, biografie, trattati tecnici delle diverse epoche. Cercano di entrare nella testa del compositore, di essere fedeli. Ma poi, dall’altro, ogni interprete si segnala per la propria personale lettura del testo (noi musicisti diciamo “lettura”, ma si intende che il pezzo lo suoniamo; in Conservatorio c’è persino una materia chiamata lettura della partitura, che si svolge tutta seduti al pianoforte…). Si tratta, naturalmente, di una straordinaria ricchezza, ed è anche per questo che esiste il Grande Repertorio, un corpus di brani che continuiamo a suonare da secoli, e che, concerto dopo concerto, non si ripetono mai in modo esattamente uguale.
In una pagina Facebook sul pianoforte, frequentata da migliaia di appassionati e aperta al contributo di tutti, ho letto un regolamento che conteneva il seguente articolo: “Non sono accettati post su interpreti e autori come Allevi, Einaudi, Yiruma, Lang Lang e tutto ciò che non è in linea con il genere classico”. Mi sembra ingiusto negare la discussione su questi artisti che, seppure bersagliati da critiche e attacchi ferocissimi da parte dei puristi della classica, provano a rendere questa musica più contemporanea senza scivolare in ardite sperimentazioni che creano fratture con il pubblico. Mi piacerebbe conoscere il suo pensiero sull’argomento. È anche lei dell’opinione che un pianista di formazione classica che ammette di ispirarsi ai Beatles o ai Pink Floyd debba essere considerato a tutti gli effetti un artista pop?
Distinguiamo. Lang Lang suona musica classica. Ne dà una lettura smart, certamente legata alla velocità e alla leggerezza del presente. Ma suona Beethoven o Chopin, e quella è musica classica, dotata di una forza che le permette di affrontare anche le interpretazioni meno consuete. Einaudi o Allevi scrivono invece una musica diversa, tra il pop e la new age. Musica in qualche caso molto bella; ma che non possiamo definire musica classica. Perché la musica classica ha la caratteristica di essere fragile, imprendibile, imprevedibile persino per il compositore che la sta scrivendo; mentre la loro musica segue percorsi definiti, fissati, non sorprendenti. Einaudi, che è un signor musicista, lo sa benissimo, e non ha mai cercato di far passare la propria musica per ciò che non è. Quanto alle “ardite sperimentazioni” delle vecchie avanguardie, ce le stiamo lasciando alle spalle. E il mondo è ormai pieno di compositori (di musica classica!) che inventano partiture intense, trascinanti, ricche di gioia, di languore o d’ironia, che riempiono le orecchie e il cuore degli interpreti e del pubblico.
La musica nasce in un periodo nel quale non era possibile registrarla. Nasce dunque per essere eseguita in pubblico. Chi invece privilegia l’ascolto meccanico e l’incisione – pensiamo a Glenn Gould, che a trentadue anni smise di esibirsi in concerto, dedicandosi esclusivamente alle registrazioni in studio – potrebbe obiettare che solo nell’ambiente chiuso e ovattato di una sala d’incisione è possibile ottenere la musica perfetta. Personalmente credo che, per un musicista, rinunciare al pubblico equivalga a rinunciare alla magia dell’incontro e della condivisione, ma da spettatore confesso che la scomodità di certi palchi mi ha fatto più volte rimpiangere il divano di casa e le cuffie alle orecchie. Lei cosa preferisce? Salotto o platea?
Bisogna pensare la musica classica come un fiume che si getta nel mare. E sapere che la sua fragilità, la sua mutevolezza fanno sì che assomigli a un delta, e non a un estuario: in ogni momento ci sono molte possibilità, molte scelte da compiere, e non esiste un percorso già tracciato. Quando la si compone, naturalmente, ma anche quando la si interpreta. Sono scelte di velocità, di timbro, di dinamica, accenti magari quasi impercettibili su questa o quella nota, cambi d’arco di un violino… E sono scelte influenzate da molti fattori, tra i quali il luogo e il tempo nel quale si sta agendo. Ora, essere in sala da concerto e contribuire con la propria presenza alla nascita di un’interpretazione, per me è un’esperienza insostituibile. La nostra attenzione o disattenzione, il calore o la freddezza di un applauso, ma anche l’acustica della sala o la notizia appena letta in rete influiscono sul modo in cui si suona; ed essere lì a viverlo è un’emozione davvero preziosa. I dischi hanno alcuni vantaggi, è evidente. Ma io, oggi, anche un po’ nauseato dalla possibilità di ascoltare qualunque cosa in qualunque posto e consapevole del privilegio di vivere in una città con una vita musicale molto attiva, opto senza dubbio per la sala da concerto.
Ho letto recentemente un suo libro, dall’accattivante titolo 100 brani di musica classica da ascoltare almeno una volta nella vita. È un ottimo esempio di divulgazione che non rinuncia alla profondità analitica. Lei ritiene che libri come il suo possano servire a sviluppare una coscienza più critica e far conoscere un gusto diverso dal proprio alle tante persone che ascoltano solo musica leggera? O dobbiamo tristemente pensare che la battaglia per l’educazione alla musica colta è irrimediabilmente perduta?
Nasciamo ben disposti nei confronti della musica classica. Qualunque bambino, sin dalle prime settimane, la ascolta volentieri. Poi cresciamo, e qualcuno ha la fortuna di avere una famiglia nella quale la musica classica è di casa, e continua ad ascoltarla; qualcun altro no. Ma poi, anche per chi ne è rimasto prudentemente lontano, arriva quasi sempre un momento nel quale si comincia a sospettare che la musica classica contenga bellezza, emozione, piacere e intensità irrinunciabili. E spesso si genera una piccola sofferenza, perché non si sa da che parte cominciare. Io da anni regalo suggerimenti ad amici, parenti, ascoltatori radiofonici; condivido il mio entusiasmo quando scopro un nuovo compositore; provo a spiegare come è fatto un pezzo che mi piace; racconto qualche aneddoto che aiuta a capire come è nata una partitura. In questo libro ho provato a farlo in modo sistematico, scegliendo cento brani e presentandoli ai lettori. In modo semplice ma senza rinunciare a nessuna delle mie idee – se hai un pensiero che non riesci ad esprimere chiaramente, mi è stato spiegato una volta, quel pensiero vale poco. Spero così di dare il mio piccolo contributo; d’altronde il piacere, se non è condiviso, che piacere è?
Infine, la più classica e inevitabile delle domande: progetti per il futuro?
Ho deciso che avrei fatto il compositore quando avevo 12 anni. Mi sono impegnato, ho studiato, ho sfidato le vecchie avanguardie quando mi suggerivano di scrivere una musica che non mi piaceva, ho tenuto duro in una posizione solitaria, ho esplorato molti territori e scritto, scritto sempre, e tanto, sino ad arrivare ad essere pubblicato in esclusiva dal più antico editore musicale del mondo, la Breitkopf & Härtel, che proprio quest’anno celebra il proprio tricentenario. Ora il mio futuro è come una divertente partita a flipper: salto tra nuove commissioni (ho appena finito una raccolta di brani per chitarra e coro, su commissione di musicisti del Colorado, e in questo momento sto scrivendo una Messa per coro e orchestra, commissionatami dalla Fondazione Matera 2019) e belle esecuzioni dei miei brani esistenti (nel 2019 sono casualmente in cartellone, in Italia e all’estero, tutti i miei Concerti per solista e orchestra: quello per violino, quello per pianoforte, quello per violoncello e basso elettrico, quello, curioso, per pubblico e orchestra). Lavoro intensamente; ma non posso proprio lamentarmi.
Francesco Consiglio
*In copertina: Nicola Campogrande in una fotografia di Yuma Martellanz