15 Dicembre 2022

“Sempre sperimentato cose estreme”. Nelly Sachs, poetessa della notte

Mi colpisce un dettaglio. Il papà, William Sachs, ingegnere prussiano, le dona un capriolo, per rallegrare il parco della villa di famiglia, per fare felice l’unica figlia. Nel Deuteronomio il capriolo – insieme al cervo, la gazzella, lo stambecco, l’antilope, il camoscio e il bufalo – è tra i quadrupedi che “potrete mangiare”. Da ragazza, Nelly Sachs fa della “paura nel pelo fumante del capriolo” un simbolo. Preda, impaurita. Così si sente Nelly. Dedizione possibile solo al più debole.

Quando descrive i suoi occhi, però, si riferisce alla lepre. “Io lascio andare tutto. E prego di essere lasciata andare. Io non dormo. I miei occhi sono spalancati, come quelli della lepre, sempre rivolti verso la fine”.

Al capriolo di Nelly Sachs va contrapposta la pantera di Kafka, la belva nei meandri del luogo sacro, battistero o confessionale che sia. Nelly Sachs sogna il predatore, ma il suo bestiario è docile.

Per Nelly Sachs la poesia è salvezza – prima dalla violenza, dalla violazione d’amore; poi dal disastro della Storia. “Quello che non riesco a fare io, per lei, lo faranno le poesie”, le dice, pressappoco, un medico, dopo averla ricoverata. La poesia è ricovero ed è boia, è ospizio e spazio nudo.

Il compito di Nelly: annientarsi. Poesia che va sbriciolata, data ai piccioni, ai gatti passeggeri.

“E se anche la morte ha tolto porte e finestre dai cardini per lasciare un unico spazio immenso, come nel sonno, io sono comunque circondata, piccola come una mosca, che dal mattino rosa – porta la sua parte rosa di mattino e comincio la mia passeggiata mattutina venendo a te”.

Voleva diventare ballerina, comincia a pubblicare le prime poesie – che denigrerà – grazie a Stefan Zweig, scrive a Selma Lagerlöf, di cui ama La saga di Gösta Berling. Ebrea dell’alta società, sceglie il celibato, celebra l’anonimato, fedele all’uomo che l’ha voluta, violata e travolta.

Dopo la morte del padre, nel 1930, le scorrerie della Gestapo, l’intrusione tentacolare del nazismo, sarà proprio Selma a salvare la giovane amica. Nelly Sachs la ricorda nel breve, commosso discorso al Nobel:

“Nell’estate del 1939 una mia amica tedesca andò in Svezia a trovare Selma Lagerlöf, per chiederle di assicurare un rifugio a me e a mia madre in quel paese… Nella primavera del 1940, dopo mesi tortuosi, arrivammo a Stoccolma. L’occupazione di Danimarca e Norvegia era già avvenuta. La grande scrittrice era morta. Respiravo aria di libertà: non conoscevo nessuno, non sapevo la lingua. Oggi, dopo ventisei anni, penso a ciò che diceva mio padre, a Berlino, ogni dieci dicembre: ‘Oggi festeggiamo il Nobel’. Ora ci sono io in mezzo a questa cerimonia. Una favola che diventa realtà”.

Il padre era morto nel 1930: madre e figlia, da allora, vivono nell’esagono un legame claustrofobico, nell’era morbosa. Perdono tutto. In Svezia vivono in condizioni di indegna indigenza, da tutto levate, latitanti. La madre, nei meandri della demenza, parla con i morti: “I primi anni dell’esilio sono una stagione di quasi totale solitudine e di inaudite sofferenze materiali e morali, al capezzale della madre, visitata da continue allucinazioni notturne” (Monica Lumachi).

Nelly Sachs con Shmuel Yosef Agnon: condividono il Nobel per la letteratura nel 1966

Bisogna confrontare la fotografia di Nelly Sachs, tra i grandi poeti del secolo, giovane, nel 1910, con il cappello in testa e lo sguardo di ferrea bellezza, eppure arresa, con il video del conferimento del Nobel, l’anziana donna che sorride per imbarazzo, accenna a diversi inchini, disorientata. Una donna che se ne va via da tutto, non senza aver pulito la soglia di casa, raccolto le stellate foglie in giardino.

“Gli angeli lasciano delle scorie”, scrive. E poi: “Anche la morte è una gemma”.

Le poesie di Nelly Sachs sono pubblicate nel 1971 e nel 2006, da Einaudi, a cura di Ida Porena. Se ne parla poco, sono molto belle. Eccone una:

Creature di nebbia
andiamo di sogno in sogno
sprofondiamo attraverso mura di luce
dai sette colori –

Ma infine scoloriti, muti,
elemento di morte
nella conca cristallina dell’eternità
spogliati dalle ali notturne
di ogni mistero…

Secondo Nelly Sachs, la poesia inizia sulla soglia del male, è una iniziazione alla morte. Scalfita dal male più infido, sgravata della vita dal delirio, Nelly Sachs subisce diversi ricoveri psichiatrici: nella mania – cioè: in ciò che non torna nella grammatica delle cose – trova lo spiraglio poetico. La poesia sovverte l’ordine naturale del dire, del potere – che è sempre verbo, verbale, per verba, perverso. Chi deve farsi capire è il burocrate; il poeta capitola. Nel dramma, Nelly Sachs si immerge con lo Zohar, la bibbia della cabbala ebraica, e con le leggende chassidiche raccolte da Martin Buber. “Sulla terra l’inizio viene chiamato malattia”, scrive, indicando che la lettera A è il recinto dei lebbrosi – a cui sei richiamato.

Intorno alla morte della madre, “dopo dieci anni di totale dedizione a quell’ultimo essere umano che le era rimasto” (Anna Ruchat), Nelly Sachs scrive un diario, troppo intimo per essere pubblicato in vita. Uscito postumo nel 2010, per Suhrkamp, è stato tradotto da Anna Ruchat nel 2015 per Giuntina come Lettere dalla notte. Ne ho trovato una copia residua, ai margini di un banco – e noi sappiamo che è sempre il marginale l’eletto, il residuo. È la notte oscura di una poetessa lacerata di luci, un libro straordinario. Non dimentico l’arte del miniatore, e ricopio alcune frasi:

“Ora io faccio parte del seguito. Nient’altro. Di coloro che devono seguire attraversando il sale, immersi nell’acqua di prima della creazione, nell’acqua del lutto. Nessuno sa se le stelle marine, le meduse e i pesci e tutte le cose che soffrono nella cecità stiano ancora andando o siano già sulla via del ritorno”.

“Nella redenzione la venatura delle rose viene sistemata in modo diverso e più bello. Forse attaccata alla punta del piede del Cherubino o sotto le nuove piume verdi dell’ala. Anche nella forza della benedizione che fa scaturire la luce da una culla di stelle. Redenzione è fonte e mare. E io ero in un ordine sbagliato e turbata fin nella fonte”.  

“La religione, questo edificio umano, costruito intorno a un nucleo di brace”.

“Da bambina nella notte con gli spaventosi soli d’oro. Crocifissi di nero… Sempre sperimentato cose estreme”.

“Sogni come decalcomanie. Denti caduti, risa di iene, gabbiani. Risa come cocci. Tutto a pezzi”.

Aveva confidenza con Paul Celan, che chiamava “poeta dell’indicibile” – la Corrispondenza Sachs-Celan è edita nel 1996 da Il Nuovo Melangolo, poi nel 2018 da Giuntina – ma entrambi, tra euforia ed eufonia, restarono soli, a ornare il crollo. Lo spirituale è questa arcata di rovi, volgere le spalle.

Nelly Sachs morì un mese dopo Celan, nel maggio del 1970. Il Nobel fu condiviso con Shmuel Yosef Agnon, grande scrittore israeliano nato a Bučač, nell’odierna Ucraina, morto anche lui quell’anno. Nelly Sachs sembrava avere conchiglie nella borsetta, sognava caprioli, usati come esca per attrarre la pantera, specie di coagulo d’ombre, di angelo a quattro zampe; “Ho pianto verso l’interno”, scriveva: come fa Dio, dicono i Rebbe, per evitare di distruggere il mondo – dentro di sé ha alberi che svettano, vettovaglia vegetale.  

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