Ci fu un tempo. Qualche mese appena. In cui commisuravo la mia audacia usando Martin Amis come metro di misura. Di Amis, che l’anno prossimo ne fa 70, ed è certo che “tutti i buoni scrittori sono morti alla mia età”, mi piaceva tutto. Con quell’estremismo tipico degli adolescenti e dei tonti – io mi figuro nella seconda casella, all’epoca ero intorno alla maggiore età. Mi piaceva il nome, mi piaceva il padre, Kingsley, esponente maximo degli ‘arrabbiati’, che ha scritto tanti romanzi mai tradotti in Italia – quei pochi, per altro, col tempo, hanno perso l’aura polemica di allora e il vizio verboso, hanno perso tutto. Mi piaceva che avesse la fama di rompipalle e che fosse famoso. Mi piaceva quel libro, L’informazione, pubblicato nel 1995, l’anno in cui muore il padre. Ancora oggi, Amis mi pare migliore dei sopravvalutati Carrère e Houellebecq messi assieme. L’ultimo libro di Amis è una raccolta di saggi, si intitola The Rub of Time ed è presentato, con la consueta modestia anglofona, come “la raccolta definitiva di saggi e reportage di uno dei più provocatori e selvaggi scrittori di oggi”. In particolare, se vi interessa, Amis passa con il rasoio dentro l’opera dei suoi maestri, Saul Bellow e Vladimir Nabokov.
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Ora. La Los Angeles Review of Books dedica pagine a una vasta intervista tra Scott Timberg e Martin Amis, leggetela. La cosa più interessante è la riflessione che Amis fa dentro la ‘forma romanzo’. “Sono convinto che viviamo nell’era dell’accelerazione. Il romanzo si evolve per far fronte a questa era, come può – muovendosi più velocemente. Senza essere troppo speculativo, dilagante, intellettuale. La poesia si muove con un suo ritmo – e non può accelerare”. Il discorso va avanti, dettagliando (“Lawrence ha detto che il romanzo è straordinario perché puoi fare quel che ti pare. Ma questa libertà assoluta è una responsabilità. Diversi tipi di romanzo si sono estinti: il romanzo come flusso di coscienza, il romanzo induttivo, dove devi risolvere un enigma, ad esempio”), fino al punto capitale. I romanzi si sono evoluti insieme al gusto dei lettori. E i lettori “sono incuriositi soltanto dalle ovvietà”. Domanda fatale: che ne è oggi di testi estremi come Finnegans Wake? Roba per addetti ai lavori con palpebre come microscopi di precisione.
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Amis non predica la morte del romanzo, ne registra il mutamento vertiginoso. In effetti. Siamo passati da Charles Dickens – romanzo canonico – a James Joyce – romanzo estremo – da Martin Amis agli youtuber su carta stampata, carta straccia. D’altronde, se la poesia può essere rivolta ai morti o ai futuri – cioè, è sempre uguale a se stessa – il romanzo vive perché qualcuno lo legga proprio oggi. E oggi, nell’era accelerata, siamo nel tempo di chi si accontenta. Attenzione, però. Perché oggi la narrazione si divarica e divora tutto – non c’è mai stata così tanta narrazione in un’epoca narrativamente tanto infelice: pubblicità, fiction, social, tutto è narrazione – anche se i narratori sono quasi nulla. Tra poco ciò che ci pare ovvio – esempio solito: Kafka non è in cima alle classifiche di vendita, ma i libri di Kafka sono meglio di quelli di Sofia Viscardi – ovvio non sarà. Ogni criterio di valutazione e di valore è saltato, conta l’ego, moneta sonante della nostra idiozia. Quando l’insegnante di mio figlio, che fa la prima liceo, ha proposto come lettura L’alchimista di Paolo Coelho, esempio di narrativa contemporanea, le sono saltato alla giugulare. Ho snocciolato una serie di nomi, notissimi, da Saul Bellow a Cormac McCarthy, da Borges a Malraux. La tizia, con una idea moralistica e modesta della letteratura, confortevole, direi, mi guardò inebetita, un po’ ebete, l’alternativa era Baricco, mi ha detto. A quel punto, l’ho denunciata per offesa al buongusto letterario – non avrei osato assalire il suo deretano. D’altronde, si dirà, a te che ca**o te ne frega delle sorti della letteratura planetaria? M’importa nulla della letteratura. M’interessa l’uomo. Senza narrazioni potenti l’uomo muore. Le case editrici hanno perso da un tot ogni autorevolezza, la cultura italiana è gestita da un manipolo di zombie, che regnano su castelli di cristallo ai cui bordi scrosciano Amazzonie di melma. Siamo nell’era di chi si accontenta. Ma a godere sono altri. Al di là delle apparenze, appartenendo soltanto al proprio risolutivo compito, lo scrittore deve alienarsi dalle attese, praticare la cura del recluso. Qui è guerra. (d.b.)