08 Novembre 2018

“Nella vita c’è sempre qualcosa che sfugge al controllo: se scrivessi di Parigi, New York, o Londra allora sì che sarei provinciale…”: Giulio Neri si racconta a Matteo Fais

La maggior parte degli scrittori che conosco, non li ho mai veramente conosciuti. Sì, li ho sentiti, al telefono. Abbiamo dialogato lungamente del sottobosco letterario, delle nostre pubblicazioni. Abbiamo avuto i discorsi che si tengono tra addetti ai lavori. Con Giulio Neri, mio conterraneo, la questione è ben diversa. Ci conosciamo di persona, siamo amici. Abitiamo a pochi isolati di distanza, a Cagliari, in Sardegna. Sicché ogni tanto ci si incontra per un pranzo, o una cena. Tra di noi, si parla un po’ di tutto. E un litro di vino non ci basta quasi mai, nei nostri lenti botta e risposta. Quando ci salutiamo, siamo sempre belli – si fa per dire – rubicondi e ridanciani.

Una delle ultime volte, sul tavolo del ristorante dove eravamo a mangiare, mi ha buttato lì il suo ultimo libro, A tie solu bramo, romanzo uscito per Il Maestrale. Forse, chi legge da quello che i sardi chiamano “il Continente”, ovvero il resto dell’Italia, non ha la minima cognizione di cosa sia questa storica casa editrice nuorese che, qui da noi, è ormai un pilastro. Nel suo catalogo ci sono nomi di spicco della narrativa sarda, divenuti successivamente molto noti a livello italiano ed europeo. Penso al compianto Sergio Atzeni, l’autore di Bellas Mariposas, per non parlare di Salvatore Niffoi, vincitore nel 2006 del Premio Campiello, e di Savina Dolores Massa che, con Mia figlia follia, è stata anche tradotta in francese. E non sono i soli. Il Maestrale ha dato alle stampe tutti i più grandi. Cosicché, quando Giulio mi ha annunciato la sua prossima pubblicazione con loro, l’ho acclamato con un “oh bruttu fizu e bagassa” che, contrariamente a quel che si potrebbe pensare, è un solenne complimento se detto con un certo tono. Se non che, presi dall’entusiasmo, abbiamo aperto un’altra bottiglia di rosso, dando inizio a quest’intervista “a facc’e pari” (faccia a faccia).

Giulio NeriScrivere di Sardegna, ambientare anche solo parte della propria narrazione nella terra della Deledda, comporta un rischio – e immagino tu ne sia ben conscio –, ovvero essere identificati come “scrittori regionali”, nel bene o nel male. Tu ti senti tale? Ma, più di tutto, perché hai deciso di far confluire le vicende dei tuoi personaggi nella nostra terra?

Il regionalismo per tanti scrittori non ha rappresentato un rischio. Al contrario, è stato alla base di strepitose fortune commerciali. Il punto essenziale, per un autore, è domandarsi se intende aderire a un genere o preservare al massimo la propria libertà espressiva. Ma, ancora più importante: gli serve questa libertà espressiva? O ha bisogno di un sentiero già tracciato, di una bandiera da far sventolare sulla propria opera? Io credo che il relativo isolamento in cui ho scritto, per anni e anni, sia stato proficuo: son venuto su, nel bene e nel male per l’appunto, senza complessi ideologici e culturali. Se mi viene da ambientare una storia in Sardegna, non è per assecondare una vocazione regionalistica… E nemmeno mi sento provinciale se accenno a un nuraghe. Mi spiego? Sarebbe più provinciale, credo, spostare tutto a Parigi, o a Londra, o a New York, solo per non apparire troppo sardo.

I tuoi personaggi, oltre che a livello spaziale, vengono sballottati, per così dire, nel tempo, tra attualità e anni di piombo. Ho notato che questa tendenza è molto diffusa anche tra altri autori under quaranta che, comunque, non hanno vissuto quel periodo di cui raccontano. La domanda è molto semplice: perché vi piace riscoprire momenti storici che, si potrebbe dire, non vi appartengono?

Beh, non è che mi sia occupato dell’età dei Comuni! Nella seconda metà degli Anni Novanta, quando ancora frequentavo l’Università, si avvertiva una sorta di inerzia marxista, il sentimento della Rivoluzione era vivissimo. La teoria, perlomeno. C’era una sorta di rappresentazione teatrale dell’Impegno, più o meno sentita… In aula, negli androni… Bastava osservare l’abbigliamento dei ragazzi per farsi un’idea degli stereotipi che abbracciavano. Gli Anni Settanta non si potevano liquidare dalla sera alla mattina e, infatti, sono occorsi venticinque anni. È proprio la lunga decadenza di un’epoca così partecipata (e mitica) che mi ha indotto a farne lo sfondo di A tie solu bramo: si comincia dallo sfascio dell’Unione Sovietica e si arriva al cosiddetto conflitto di civiltà.

La protagonista del tuo romanzo si chiama Clelia Boero. Tu, come autore, senti di poter parlare per una donna, dando una realistica rappresentazione del modus pensandi femminile così radicalmente diverso dal nostro?

L’errore più diffuso è quello di proiettare nei personaggi femminili il desiderio maschile, renderli cioè funzionali, organici, snaturandone gli aspetti di fisiologica inconciliabilità – perché di questo si tratta, tra uomo e donna. Leggendo di certe eroine, per esempio, si capisce benissimo che l’autore-maschio ha una moglie o una fidanzata che lo tormenta, o che la sua esperienza, tout-court, è limitatissima. Si capisce che la costruzione del personaggio ha qualcosa di compensativo, se non proprio risarcitorio. Altro errore, poi, è la vendetta, con derive mortificanti, di aperto dileggio ecc. Per dare voce a una donna, credo sia fondamentale averne frainteso prima – che so – una buona dozzina… Aver imparato, anche, ad amare quei fraintendimenti.

Giulio Neri
Giulio Neri in una fotografia di Matteo Fais

Perché quello che noi chiamiamo un “continentale”, cioè uno che sta “sulla terraferma”, sullo “Stivale”, dovrebbe leggerti?

Per lo stesso motivo per cui a Cagliari si leggono autori siciliani, veneti, lombardi o liguri. È una questione di curiosità letteraria, di stimoli intellettuali, di passione per l’architettura verbale, anche di voyeurismo stilistico, se vuoi…

Come spiegheresti questo titolo, A tie solu bramo, a tutti quei lettori che sono digiuni di Sardegna? Noi lo sappiamo, questo è il verso di una nota canzone tradizionale… Continua tu.

È la promessa degli amanti, la promessa tra gli sposi. E credo sia, anche, la bugia più struggente, perché è la più… autentica. La vita ci porta di continuo a disattendere la promessa, a desiderare, a bramare di scoprire altro e altri, no? Nessuno, nell’intimo, può dirsi così rettilineo, così immunizzato, così coerente da estromettere tutto ciò che esorbita da quel “voglio te, soltanto te”. Io volevo raccontarne la sacralità, il canto, la promessa che ritorna ogni volta che ci si affaccia sull’assoluto, sulla nuda condizione umana, sull’assenza dell’altro, e sulla morte.

Se dovessi definire il genere del tuo libro (storia d’amore, di vita, d’avventura, sociale) cosa diresti e come sintetizzeresti la trama?

Lo definirei un romanzo d’amore. Con un versante sull’irrisolto, sull’asimmetria dei sentimenti, sull’autolesionismo, anche. Nella vita c’è sempre qualcosa che sfugge al controllo, qualcosa che finiamo per fare quasi contro la nostra volontà. Questo mi interessa: l’essere agiti, l’essere mossi da una forza che non comprendiamo sino in fondo, e che ci inguaia. Se mancasse questo deragliamento l’umanità non sarebbe poi così appassionante, e l’arte non sarebbe così centrale, così decisiva, per radiografare o addirittura spiegare in anticipo certi problemi (relazionali, sessuali, culturali, politici). È vitale che ci sia qualcosa che ecceda, qualcosa che, in ultima analisi, ci sputtani. E c’è una nostalgia che viene proprio da questo, un senso di fallimento, o di spreco, che accompagna l’esistenza e persino gli ideali in cui abbiamo creduto. In A tie solu bramo si parla di questo, di chi molla e di chi si ostina, si aggrappa, continua a provarci, a credere.

Per concludere, la domanda delle cento pistole: perché scrivere, quando si ha già un lavoro come te? C’è un senso ulteriore che vorresti dare alla tua vita e senti che solo l’arte potrebbe aiutarti a conferirglielo?

Scrivere non dovrebbe mai essere una scelta. Io ho sempre dovuto farlo. E mi sono posto l’obiettivo di pubblicare solo negli ultimi cinque o sei anni. Prima no, producevo senza un orizzonte. Più che un lavoro, scrivere è una liberazione e, insieme, una condanna. Ma non ci sono alternative. Si punta la sveglia alle quattro, ma una levataccia simile, così sistematica, e solo per mandare avanti il tuo romanzo, non è una cosa che ti nobilita o che smani di raccontare ai nipotini. Devi farlo e basta, perché altrimenti affondi. Talvolta, è chiaro, si vorrebbe escogitare un altro sistema per stare a galla, ma poi si torna sempre lì: alla parola, ai personaggi, al progetto letterario. È una nevrosi. Tutto qua… Ma la speranza, quando si pubblica, è che il tuo libro possa rivelarsi utile, almeno un po’, anche per chi legge.

Matteo Fais

Gruppo MAGOG